Non è la mia prima volta che vengo nella cosiddetta Terra Santa. Quando si parla di Gerusalemme, le prime cose che vengono alla mente, anche a noi gente che pensa, che mangia e che dorma da ultras, non sono ovviamente il calcio o gli spalti, ma i diversi luoghi e gli incroci di culto religioso: il Muro Occidentale, la Chiesa del Santo Sepolcro, la via Dolorosa, il Monte delle olive, la Moschea di al-Aqsa, la Cupola della Roccia o la Spianata delle Moschee, ecc.

Ovviamente, anche se sono già venuto nella “capitale” israelo-palestinese, non potevo resistere al desiderio di tornare in questi luoghi che, oltre ad essere bellissimi anche per un becero ateo come me, sono parte della storia del nostro globo. Tutti questi luoghi si trovano nella vecchia città, dentro le Mura che fanno parte di Gerusalemme-Est la quale, secondo le leggi internazionali, dovrebbe essere la capitale del futuro stato palestinese, ma nei fatti è integrata alla parta ovest dalla città da quando, nel 1967, l’esercito israeliano riunificò le due parti dopo una guerra vinta e da lì cominciò la sua occupazione della Cisgiordania. Di fatto, l’autorità palestinese non controlla niente qui e si nota da tutti i soldati e poliziotti israeliani che pattugliano.

Il mio alloggio si trova vicino alle mura della città vecchia. Per andare allo stadio Teddy, distante sei chilometri, alla periferia sud-ovest della città, decidiamo di affidarci ai trasporti pubblici. Ma anche se la città è “riunificata”, i pullman israeliani non passano nella parte est della città (la parte palestinese) e dunque ci sono due sistemi di trasporti pubblici: uno arabo, o meglio palestinese, per la parte est della città e uno israeliano per la parte ovest. L’unico mezzo comune è una linea di tram che collega i due versanti. Dunque, per andare allo stadio, ci tocca un piccolo cammino di 300 metri per arrivare alla prima fermata nella parte israeliana di Gerusalemme, ma lì nessuno ci sa dire il pullman con il quale raggiungere lo stadio. Alla fine, dopo un chilometro inutile sotto 30 gradi di temperatura, decidiamo di optare per un taxi. In quindici minuti siamo quasi arrivati, ma ci tocca scendere prima del nostro traguardo per via di un posto di blocco, attuato per via del profilo di alto rischio della partita di stasera.

Scenderanno in campo due tra le squadra più popolari del paese (l’altra è il Maccabi Tel-Aviv). Non sono solo due squadre di calcio, ma sono due differenti visioni della società israeliana. Il calcio e la politica non c’entrano, come dicono tutte le anime buone, ma tutte quelle cattive come le nostre, sanno che c’entra eccome. Almeno qua, dove ci sono due “progetti” di società diverse proposte dai gialloneri del Beitar e dai rossi dell’Hapoel.

Com’è giusto che sia, facciamo prima gli onori ai padroni di casa, Il Beitar Gerusalemme. Fondato nel 1936, come squadra giovanile. Il nome deriva dal Betar, cioè il movimento giovanile del partito sionista radicale di Vladimir Jabotinsky, un’organizzazione politica nazionalista, appunto sionista, vicina alle tesi del fascismo. Al tempo la Palestina era sotto mandato britannico, vigente a partire dalla fine del primo conflitto mondiale. Con la sconfitta dell’Impero Ottomano, la Francia ed il Regno Unito si divisero gli immensi territori del Medio-Oriente. La Palestina andò ai britannici, ai quali spettò il compito di “favorire” la transizione fino all’indipendenza, ma allo stesso tempo, Lord Belfour, il ministro degli esteri del Regno Unito nel 1917, promette una parte del territorio al movimento sionista in Palestina.

Sorto alla fine del diciannovesimo secolo, sotto la regia del giornalista austriaco Theodor Herzl, il sionismo è un movimento nazionalista ebraico volto a creare una nazione per gli ebrei. Già intorno al 1880 i primi coloni sionisti arrivarono in Palestina e cominciarono a comprare terre ed a tentare d’edificare le basi del futuro stato ebraico. Ma, ovviamente, ci sono i locali, i Palestinesi. Col ventesimo secolo la colonizzazione sionista va crescendo, provocando le prime tensioni che certe volte sfociano in veri e propri massacri, come ad Hebron, dove nel 1929, diverse centinaia di arabi e di ebrei restano uccisi duranti scontri intercomunitari. I britannici si ritrovano in mezzo fra le parti, con il ruolo contradditorio di favorire il progetto sionista e proteggere i locali.

In questi anni il sionismo prende davvero piede in Palestina e, forte di questa influenza, nascono varie associazioni sportive, come il Beitar, d’ispirazione chiaramente destroide. Non a caso, nel 1938, la società fu messa al bando dalle autorità britanniche perché il fondatore del club, David Horn, era troppo vicino alle milizie armate sioniste. Nel 1942 la società venne rifondata, ma i britannici continuarono a considerarla come un potenziale pericolo, lo dimostra la deportazione in Africa Orientale nel 1944 di una parte dei giocatori e dei fondatori. Nell’agosto 1947 tutte le società col nome Beitar vennero proibite dai britannici, i quali le accostavano alla maggiore violenza dei diversi movimenti sionisti che nel frattempo passarono all’offensiva con l’intento di fondare il proprio Stato. Attentati di alcuni movimenti sionisti, come quello contro il famoso albergo Re David, il 22 luglio 1946, costrinsero poi i britannici a dare un ulteriore giro di vite. Il Beitar cambiò così nome in Nordiah Gerusalemme.

Alla vigilia del primo conflitto arabo-israeliano il Nordiah è una squadra molto forte, ma il 30 novembre 1947 la guerra esplode, le milizie sioniste vincono e creano lo stato israeliano, cosa che permette al Beitar di riprendersi il suo nome d’origine.

Con l’indipendenza di Israele, i gialloneri giocano prima in un campionato di squadre di Gerusalemme, per poi integrare la serie A israeliana nel 1954. Ma il Beitar torna in serie B alcuni anni dopo. Ritrova la serie A, con risultati scarsi e solo l’intervento di vari politici, come Ehud Olmert (ex premier israeliano), permette al Beitar di rimanere in serie A. Nel 1976, vince la sua prima coppa d’Israele e nel 1987 è la volta del suo primo scudetto. Arrivando ai giorni d’oggi, la società giallonera ha nella sua bacheca ben sei scudetti e sette coppe d’Israele, ma non è solo tramite i suoi risultati sul campo che il Beitar si è distinto, bensì per la sua linea politica. Fedele ai “valori” dei suoi fondatori, non ha mai avuto in rosa un giocatore arabo.

Questa linea ha sempre sposato la radicalità dei suoi tifosi, vicinissimi alla destra e all’estrema-destra sionista israeliana. Questa radicalità ha pure un nome: “La Familia”, il più importante gruppo ultras del Beitar. E appena scendiamo dal nostro taxi, possiamo vedere già i primi tifosi giallo-neri. La maggiore parte delle quali ha addosso magliette della Familia, il che mi fa anche piacere, perché vuol dire che il movimento ultras non è limitato a pochi intimi.

Lo stadio Teddy è carino e anche se siamo a due ore della partita, c’è già una marea di tifosi. Ancora tante le magliette della Familia, di fronte a tutti i settori, dettaglio dal quale capisco che l’unico marketing, come in Italia, sia quello dei tifosi o delle bancarelle, dunque niente mega-negozi come in Inghilterra, un fatto già positivo. Tanti anche i tifosi con la kippah e/o bandiere israeliane. La kippah in Israele è diffusa, ma portarla è anche una rivendicazione identitaria-religiosa, e qui fa parte della cultura del tifo giallonero.

Facciamo il giro dello stadio e trovare un addetto che parli inglese sembra sia missione impossibile. Strano, perché qua la maggiore parte della gente parla inglese, ma si vede che non sono interessati a noi e ci mandano all’altro lato dello stadio, dove ovviamente non si sa niente. Alla fine qualcuno ci dice di bussare a una porta nello stadio e qua, miracolo, un addetto alla sicurezza tira fuori un listino con gli accrediti. Ovviamente noi non ci siamo, anche se tutte le domande sono state fatte regolarmente dieci giorni prima, ma questo addetto si rivela una brava persona, o almeno un vero mediterraneo, e ci lascia comunque passare. Secondo problema che si pone è la pettorina. Siamo in due e un fotografo mi spiega che dovremmo portare le nostre… Ovviamente nessuno s’era premurato di dircelo prima, oltretutto le stesse devono avere un design ben preciso secondo le disposizioni della Lega Israeliana. Lasciamo perdere e decidiamo di provare ad entrare ugualmente sul campo che è a neanche 50 metri. Dopo dieci minuti di conciliabolo tra i tecnici della televisione israeliana, alcuni poliziotti in borghese e colleghi fotografi, optiamo per il menefreghismo, o meglio di fare finta di essere come a casa. Tengo a precisare che abbiamo con noi due borse di dimensioni notevoli e che siamo in Israele, il paese della paranoia sulla sicurezza, eppure nessuno ci ha chiesto di guardare cosa avessimo dentro! Per fortuna Sport People è una squadra sì di pazzi, gente con il mondo ultras come unica ossessione, altrimenti si poteva diventare famosi per davvero, ben oltre la nicchia dei propri lettori.

Quando entriamo sul campo, siamo gli unici fotografi senza pettorine e scegliamo il posto più tranquillo con l’angolo migliore. Lo stadio dentro è ancora più bello, le gradinate sono molto vicine al campo, senza recinzione e tutte coperte, tranne il settore ospite, che è l’intera curva dietro una porta.

La partita inizia fra un’ora e la scommessa fra me e Giovanni è proprio quella di non farsi notare, ma allo stesso tempo vogliamo fare fotografie e non ci nascondiamo di certo.

Da un punto di vista sociologo, osservare la folla di un evento sportivo è molto interessante. Tanti tifosi sono “ebrei-arabi” (o meglio ebrei sefarditi, venuti dei paesi arabi dopo la creazione dello Stato Israeliano), ci sono anche religiosi, si denotano dalla kippah ma soprattutto dal taglio dei capelli particolare, ci sono persino alcuni militari in divisa, non per la sicurezza ma in veste di tifosi. Posso anche denotare tante bandiere israeliane e alcuni striscioni, che non capisco assolutamente, perché scritti in ebraico.

Il fatto strano è che la curva coperta è vuota e La Familia, il famigerato gruppo, occupa la gradinata. Abbiamo dunque la gradinata e la tribuna pienissime e il settore ospite che si riempie con calma.

L’atmosfera è molto tranquilla, oserei dire quasi rilassante, nonostante la rivalità sia fortissima tra le due tifoserie: sembra quasi di essere a un’amichevole e non ad un incontro a rischio. Tanti bambini, famiglie, donne sono allo stadio e la polizia vigilia, ma in maniera non eccesiva, aiutata, anche qui, da degli steward.

A venti minuti dal fischio d’inizio, con le squadre che si riscaldano, anche l’atmosfera comincia a riscaldarsi: il settore ospite è ben colorato, con almeno 2.000 tifosi che formano una macchia rossa, visto che quasi tutti hanno o una maglietta della squadra del cuore o quella degli ultras. Ma si denota anche una bella macchia gialla nelle due gradinate occupate dai tifosi del Beitar.

Dieci minuti prima del fischio d’inizio comincia lo spettacolo, e la gradinata in cui prendono posto i ragazzi de La Familia comincia a cantare. È molto potente il loro tifo e la tettoia li aiuta parecchio, a maggior ragione che hanno avuto la buon idea di mettersi nella parte alta per coordinare il tifo. Peccato solo che non capisco l’ebraico, ma sono sicuro che ci siano anche parecchi cori offensivi nel loro repertorio.

A cinque minuti dal fischio d’inizio dispiegano un bandierone giallonero immenso. Abbastanza grande per ricoprire tutti gli spettatori della gradinata. Molto semplice, a strisce gialle nere, ma l’effetto è d’impatto notevole, soprattutto col vento che gli dà una forma surreale. Per quasi dieci minuti il bandierone sarà tenuto sopra la testa dei tifosi della gradinata, per il più grande piacere dei bambini della tribuna e per tanti adulti che lo riprendono a più non posso con i loro cellulari. I tifosi della tribuna eseguono invece una sciarpata quando le squadre entrano sul manto verde.

Pure nel settore ospite c’è un bandierone che scende e ricopre una parte della curva. Questo bandierone è più curato ed è stato fatto specificatamente per la partita. Riprende la sky-line di Tel-Aviv con sopra il logo dell’Hapoel ed uno slogan in ebraico che dice “Sei la mia vita”, oltre alla firma del gruppo “U.H.99”, il tutto completato da una signora di una certa età con occhiali di sole che guarda il panorama. Si tratta nello specifico del ritratto di Oum Khaltoum, la diva Egiziana, la più grande cantante del mondo arabo. Al suo funerale al Cairo il 5 febbraio 1975, c’era una folla di due milioni di persone! Lo slogan, “Sei la mia vità” è preso da una delle sue canzone più famose. Il simbolo è quantomeno mordace, soprattutto in Israele e ancor più di fronte al Beitar. Di fatto, come anticipavo, a fronteggiarsi abbiamo veramente due modi antitetici di vedere Israele: chiuso e nazionalista come il Beitar, o al contrario aperto e multiculturale, con cittadini non soli ebrei ma anche arabi e di altri paesi o religioni nel caso opposto.

Quando cala il bandierone, posso notare, dove ci sono i lanciacori de La Familia, uno stendardo con scritto “Good night left side”. Simbolo ambiguo, perché fa mostra di sé in Europa del Nord, nella manifestazioni neofasciste che non possiamo dire siano tanto amici degli ebrei. La legge del beduino vige ancora, come direbbe il sociologo Dal Lago: i nemici dei miei nemici sono (forse) i miei amici. Ma La Familia può, con calma, far suo questo simbolo, visti i diversi episodi che l’hanno vista protagonista. La politica sportiva della società era di evitare l’acquisto di giocatori mussulmani, sono stati perciò pochissimi i fedeli di Maometto a vestire la casacca giallonera, anche se alcuni si son distinti a suon di goal. Ma da quando si è formato il gruppo ultras, nel 2005, qualsiasi giocatore musulmano viene accolto in maniera non dico negativa, ma peggio, dalle palesi minacce di morte allo stadio abbandonato quando due giocatori mussulmani dell’Asia Centrale hanno vestito la maglia del Beitar. Uno degli ultimi episodi fu un incendio alla sede del club per protestare contro la politica di “apertura” del Beitar, incuranti di aver mandato in cenere tutta la storia ed i trofei della loro società.

Prima della partita c’è l’inno nazionale israeliano, poi il tifo che aveva ben carburato da quindici minuti, si spegne progressivamente. Pazzesco, perché in quel quarto d’ora prima del fischio d’inizio, c’era grande parte della gradinata a cantare, dopo di che resta solo il nucleo centrale, attorno a La Familia. La scusa dei cori lanciati senza l’ausilio di un megafono non regge, visto che abbiamo sentiti veri boati poco tempo prima.

Sono deluso dal primo tempo, in cui il tifo è veramente sotto tono. L’unica cosa positiva è che nessuno ci ha beccato, nonostante fossimo, ve lo ricordo, senza pettorina, senza biglietti e senza accrediti: dunque, almeno qualcosa di positivo c’è.

Durante l’intervallo, riesco a entrare nella gradinata e vedo che un bar è stato occupato o comunque lasciato a disposizione de La Familia, che vi vende il suo classico merchandising: adesivi, magliette, sciarpe e bandiere. Il simbolo della società è ovunque, è una Menora, il candelabro a sette bracci, simbolo ebraico per eccellenza. L’identità della società è dunque molto radicata.

Il secondo tempo sta per iniziare e decido di andare sotto il settore ospite. Sono abbastanza dubbioso sulla rivalità tra le due tifoserie, visto che non ci sono recinzioni, plexiglas o centinaia di agenti anti-sommossa, ma “solo” una ventina di poliziotti, altrettanti steward e poliziotti in borghese.

Tranne qualche sfottò (gestacci, unica cosa che posso capire, visto che la lingua e i canti son impossibili da decifrare) tra pochi tifosi, l’atmosfera sembra molto calma (ma non lo è affato, come racconterò nella seconda parte di questo racconto). In basso al settore prendono posto gli “Ultras Hapoel”, unico gruppo ultras della tifoseria biancorossa, ma credo questa sia una caratteristica del tifo ultras israeliano, dove c’è quasi sempre, per quello che ho avuto modo di vedere, un solo gruppo ultras per tifoseria. Lo striscione del gruppo è in bella mostra al centro della balaustra e loro vi si raccolgono dietro. Accanto ci sono altri striscioni degli ultras, ma essendo in ebraico non riesco a tradurli. L’unico facile da capire indica “100% Anti-Maccabi”, che è per l’altra squadra di Tel-Aviv.

Posso fare una stima e dire che il gruppo è composto da 120 a 150 persone. Sventolano una ventina di bandiere biancorosse, che danno un bel tocco di colore al gruppo. I lanciacori sono in due, senza megafono, un po’ difficile per gestire un settore immenso come quello di oggi, ma un ragazzo degli “U.H.” mi dirà addirittura che loro non li usano mai. A cantare, c’è tutto il gruppo degli ultras, più altre centinaia di tifosi, a seconda dell’andamento della partita. Possiamo comunque dire che 500 tifosi partecipano in maniera attiva e continua al tifo. Ci sono pure un sacco di battimani. La continuità non fa loro defetto, al contrario de La Familia.

I “rossi” cantano durante tutto l’incontro e anche se non si sentono fortissimo (oltre al megafono, non hanno nemmeno il tetto e per coordinare quella massa di tifosi che aiuta i propri dirimpettai), sono comunque abbastanza potenti. In definitiva trovo la loro prestazione migliore di quella del gruppo di casa, che è stata veramente deludente. Nonostante il fattore campo, l’amplificazione offerta dalla tettoia e la buona posizione per coordinare il tifo, mi sono sembrati periodo sotto tono. Peccato, perché nella prima parte della gara avevano proposto una prestazione d’impatto.

La partita sta per finire, e quando guardo la composizione della tifoseria ospite, così come quella giallonera, son colpito dalla forte compattezza delle loro file. Si vede ovviamente che sono due tifoserie diverse da un punto di vista sociale e politico, eppure entrambe sono accomunate dal modo in cui tutti i propri effettivi seguono la partita, immersi in maniera molto concentrata e tutti, sia i rossi che quelli del Beitar, resi visivamente ancor più compatti dai colori delle rispettive squadre di cui ognuno indossa qualcosa.

Anziani, bambini, non manca nessuno sugli spalti, e vedo anche tante donne allo stadio. I prezzi, devo sottolinearlo, sono popolari, dai 12€ ai 25€ per i vari settori, e ci saranno almeno 15.000 spettatori per questo incontro di un campionato come quello israeliano di certo non esaltante dal punto di vista dei valori tecnici.

La partita finisce con un scialbo 0-0 e possiamo tornare con calma nel nostro alloggio, senza esserci mai fatti notare da nessuno, come scommesso all’inizio. È strano lasciare lo stadio ed avere incontrato un’altra realtà ultras in una città in cui lo stadio è l’ultimo posto per fare del “turismo”, ma credo sia al contempo uno dei luoghi più adatti per capire un po’ meglio questa strana società che è Israele, e con essa anche un po’ la Palestina, così vicina non solo da un punto di vista metaforico, ma anche geografico: lo stadio Teddy è situato a sole poche centinaia di metri della linea verde.

Sébastien Louis