Si dice che il Paradiso si trovi qualche metro più in là di questo enorme banco di nuvole tagliato dall’ala di un Airbus A320-200 battente bandiera greca. Da qua su, mentre con occhi sognanti scorgo l’orizzonte rientrando a casa da una nuova avventura, tutto sembra esser così calmo, pacioso, angelicato.
Né tempesta né mare mosso in prossimità dell’Olimpo, ma una Terra che sembra sonnecchiare beata, come un guerriero stremato dopo una battaglia. L’ultima.
Ero partito per Bucarest nella serata romana di mercoledì con la speranza di dar sfogo ai sentimenti più genuini e raccontare minuziosamente, dopo lungo tempo, le emozioni che una trasferta del genere sa regalare; smanioso nel voler descrivere: le dinamiche di tifo, una seppur non irresistibile contesa sul campo e le gesta di poche centinaia di persone accorse per sostenere la squadra e omaggiare la memoria di una colonna portante caduta troppo in fretta.
Così non è stato né sarà.
Perché alte si son levate al cielo le penne inquisitorie, capaci di plasmare con fare demiurgico una serie di menzogne con il fine di donare ad esse una parvenza di verità e render il racconto fruibile all’ignaro e lontano pubblico.
Sono riuscite nell’intento, ça va sans dire, forti del potere persuasivo proprio di una madre verso il nido di uccellini, i quali ingurgitano cibo dalla bocca senza porsi domanda alcuna.
Chi era lì, all’Arena Nazionale della capitale rumena, ha visto e sentito qualcosa di diametralmente diverso rispetto a ciò che alcuni hanno raccontato: vuoi a causa di fonti poco attendibili, vuoi per l’ormai diffusa tendenza alla demonizzazione della passione viscerale e popolare.
Ciò mi ha costretto ad impugnare penna e taccuino in fretta e furia, mentre sorvolavo Corfù dopo aver fatto scalo ad Atene, tentando di rompere questa coltre di bugie alla ricerca di una fioca luce spesso bistrattata: la verità. Una verità volutamente nascosta, celata sotto un tappeto come polvere.
Questa è la storia di Astra Giurgiu-Roma.

Pur possedendo un impianto di proprietà nella cittadina distante circa sessanta chilometri dalla capitale, l’Astra ha disputato le ultime sfide di coppa lontana da Giurgiu. Ulteriore harakiri di un calcio post-moderno in cui tradizione e campanilismo sono puntualmente schiaffeggiati in nome del denaro. Uno stadio non a norma e il conseguente spostamento di dimora, mi avevano perciò fatto immaginare un afflusso di poco rilievo da parte della tifoseria di casa; consentendo così ai pochi tifosi romanisti di ammirare una Bucarest che ha il profumo di povertà diffusa e l’odore tipico della sofferenza di un paese martoriato dalla dittatura, con gli aromi del capitalismo occidentale a tentar di modificare qua e là l’ambiente circostante.
La moneta locale, nota come Lei o come la chiamano gli autoctoni Ron – da non confondere con Rosalino Cellamare – rispecchia in pieno le difficoltà economiche del paese: basti pensare ai due euro e cinque centesimi richiesti da Daniel, simpatico tassista simpatizzante Steaua Bucarest, per portarmi dal centro allo stadio (circa 20 minuti, traffico escluso).
Il bar adiacente l’impianto gremito di romanisti mischiati ai locali, attaccati ai maxischermi con gli occhi che come una sfida di ping pong palleggiano da destra a sinistra assistendo alla debacle della squadra cittadina sul campo del Villareal, come cartolina di un incontro che, in campo quanto sugli spalti, sembrava indirizzato verso i binari della calma assoluta.

L’ingresso nel settori ospiti regalava ai miei occhi di sognatore l’immagine di un impianto moderno, ma accogliente. Gli spalti a pochi passi (passi, non metri) dal manto verde e l’assenza di barriere – come richiesto dalla UEFA in tutti gli stadi europei. Purtroppo vuoto per lunghi tratti, ad eccezione della curva popolata dai tifosi romanisti e la tribuna assiepata da sostenitori locali misti a simpatizzanti giallorossi; nonostante i prezzi, almeno per noi, fortemente popolari.
Dopo l’ingresso in campo dei ventidue giocatori, l’arbitro da buon direttore d’orchestra li disponeva in cerchio per omaggiare la scomparsa degli sfortunati colleghi brasiliani della Chapecoense, mentre nel settore ospiti gli occhi di molti si erano rapidamente gonfiati di lacrime.
Giorgetto vive”, lo striscione che campeggiava in prima linea nella parte destra di un settore ospiti in rispettoso e doveroso silenzio. Fino a quando…

“Ero in tribuna, impegnato nel girare il video del minuto di silenzio. All’improvviso da qualche fila sopra di me, sento partire un coro. Dal timbro di voce e dall’accento potrei dire con buona probabilità che fossero stranieri. Romanisti stranieri presenti in tribuna per assistere alla partita. Non sono stati i tifosi presenti nel settori ospiti, come molti hanno scritto”

Siccome ritengo quantomeno doveroso il raccontare qualcosa avendo fonti certe, così, non volendo fidarmi soltanto del mio giovane udito e di lenti a contatto capaci di mascherar la miopia, mi son preso la bega di rintracciare una testimonianza imparziale e da un altro punto di vista per avvalorare la mia tesi. Guardare le cose a tutto tondo, considerando e ascoltando le diverse campane non dovrebbe esser un esercizio straordinario in questo lavoro, ma la norma.
B.A. (nome di fantasia, ndA) ha così confermato ciò che ricordo di aver visto nitidamente dal settore, ovvero la presenza di un paio di persone che, dalla tribuna, avevano interrotto l’assordante silenzio per insultare una squadra rivale.
Romanisti, è vero, ma non ultrà. E soprattutto non provenienti da Roma.
Stranamente nei racconti sono rimasti celati i fischi indirizzati dal settore verso quel coro, la tornata di disapprovazione seguita da un lungo, intenso applauso alla fine dei sessanta secondi di commemorazione. No, il titolo era già bello e pronto:
Vergogna internazionale, caos e scontri causati da romanisti”.
Eppure non più di qualche ora prima gli stessi avevano descritto come semplice “tensione tra tifosi” i disordini di Torino in occasione della sfida di Champions League dei bianconeri contro la Dinamo Zagabria. Due pesi e due misure: da una parte la demonizzazione di un gruppo sociale, dall’altra la descrizione corretta di un fenomeno che, se non fosse un prodotto commercialmente vendibile, sarebbe destinato a meri trafiletti a fin di pagina.

Per non parlare poi del fatto che, senza voler per forza giustificare la reazione di alcuni supporters giallorossi, basterebbe indagare sull’operato degli steward dell’Arena Nazionale per capire al cospetto di chi si son trovati i romanisti. Sarebbero bastate alcune ricerche per notare come l’agenzia addetta alla sicurezza dell’impianto, la BGS, sia finita nell’occhio del ciclone in molteplici occasioni – a partire dal 2009 – a causa della violenza inaudita e gratuita dei suoi dipendenti, descritti dalla stampa locale come “carnefici dall’ignobile fedina penale” (grazie, amico Google Translate).
Sarebbe bastato, ad esempio, il rileggere gli articoli dell’ottobre 2014 per scoprire come gli steward romeni, insieme alla polizia, si sono resi protagonisti di oltre 40 feriti nel corso della sfida casalinga contro la Bulgaria, i cui tifosi sono stati letteralmente assaltati a colpi di “manganellate, spray al peperoncino, calci e pugni menati a destra e a manca”.
Eppure no, il mostro da sbattere in prima pagina era un altro, sempre lui.
Quel mostro che a Bucarest si è limitato a qualche coro in ricordo di un amico partito per un lungo viaggio, omaggiato dai suoi amici con una mezz’ora di tifo a petto nudo a quattro gradi sotto zero mentre la società si presentava all’intervallo con una busta contenente la maglietta della AS Roma. Dono speciale fortemente apprezzato dai presenti.

I romanisti hanno rispettato il dolore altrui unendolo a quello proprio senza che il primo fosse, per dirla alla De André “un dolore a metà”. Quindi hanno reagito, sbagliando, ad una provocazione fatta di pugni e sputi, spray urticante e minacce, pezze volutamente isolate per consentire ad un invasore di superare un cordone di colleghi e fuggire a mo’ del peggior Lupin. Questo è avvenuto in questa fredda serata rumena, senza manipolazione alcuna degli eventi.
Ma tanto, come disse William Blake parlando del difficile lavoro di chi è addetto al raccontare la realtà delle cose:
noi non dobbiamo dire la verità per convincere quelli che non la conoscono, ma per difendere quelli che la conoscono”.

 

Gianvittorio De Gennaro