Che valenza ha mantenuto il calcio nell’immenso tessuto metropolitano milanese? Uno sport caratterizzato sin dagli albori da un forte istinto all’identificazione e alla conflittualità territoriale, come ha reagito e come si è evoluto in una delle maggiori aree urbane del Vecchio Continente?

Sono in prevalenza questi gli interrogativi che mi assillano mentre il mio Regionale Veloce muove titubante i primi passi dal cuore di Milano, per poi gettarsi, in un crescendo di velocità, in mezzo a palazzoni grigi, fabbriche, immensi viali saturi d’auto che al di là del finestrino si rincorrono senza tregua. Terra particolare, quella che gravita attorno al capoluogo lombardo. Vittima da almeno ottant’anni di un graduale smarrimento collettivo della propria memoria storica e della propria identità, fagocitate dal cemento e dall’ombra sempre più ingombrante dei grattacieli meneghini.

Il ruolo del calcio, per l’appunto. Perché, messo piede in quest’angolo dell’Altomilanese, a rincuorarmi ci hanno pensato due ben curati murales (o “deprecabili atti vandalici”… punti di vista) degli ultras legnanesi; a far da contorno, svariate scritte a bomboletta che, oltre ad omaggiare con fantasiose galanterie i rivali storici di Busto, esaltano uno spirito d’appartenenza di cui molti, qui, sembrano volersi disfare, come di un ingombrante cimelio ereditato dai propri nonni che mal si integra nel nuovo salotto high-tech; “quanto è inutile e vuoto il presente di chi ha venduto il passato”, ci ricorda l’Oi! degli Atarassia. Atto va dato allora ai ragazzi della Nord; a loro come a chiunque, nel villaggio globale del XXI secolo, si fa ancora alfiere delle proprie tradizioni.

La locale stazione ferroviaria è poco distante dallo stadio: passo spedito dunque e in men che non si dica eccomi davanti al muro di cinta del vecchio Giovanni Mari di Legnano. Due parole meritano di essere spese riguardo questo tempio del calcio di provincia e la gloriosa storia del sodalizio che lo abita; per chi non lo sapesse difatti, i Lilla di Legnano hanno all’attivo ben undici stagioni di serie A e sedici di cadetteria. Parliamo della prima metà del secolo scorso, un’epoca in cui uno sport elitario come il football, praticato dai giovani della buona borghesia che avevano un occhio di riguardo per la terra d’Albione e le sue mode, muoveva i primi timidi passi verso i ceti popolari. È nel 1921, all’inizio del processo di avvicinamento a questo sport da parte delle grandi masse, che venne inaugurato l’impianto legnanese. Passeranno cinquantanove anni prima che i gradoni dell’impianto, dall’architettura assimilabile a quella del vecchio Sada di Monza, vedano la nascita del gruppo ultras Boys Lilla.

Dal 1980 ad oggi, in quel di Legnano di acqua sotto i ponti ne è passata, eppure lo striscione dei Boys è rimasto ben saldo in balaustra. Fatto tutt’altro che scontato per una realtà che da lungo si sta barcamenando nelle retrovie del mondo pallonaro. Se i tempi in cui il triangolo Piemonte-Liguria-Lombardia era l’epicentro del nostro calcio non sono che preziosi scatti in bianco e nero, è anche vero che l’avversario odierno fa rimpiangere pure i tempi della serie C; per questo Legnano-Levico mi sembra comunque di notare un discreto entusiasmo, figlio probabilmente dell’esordio casalingo in D dopo il ripescaggio della stagione scorsa. Il sogno promozione, infrantosi agli spareggi contro gli altoatesini dell’Obermais, si è poi concretizzato in estate negli uffici della società.

La tribuna presenta evidenti buchi solo verso l’estremità destra; molti signori attempati, qualche viso leggermente più giovane, la solita rappresentanza di dirigenti e giocatori fuori rosa (due categorie, quest’ultime, in cui si esaurirà la presenza ospite) e soprattutto una nutrita schiera di ragazzini dai cinque ai dieci anni, la maggior parte al seguito dei propri nonni. Un toccasana per il cuore vedere, nel corso della gara, tre di questi ragazzini imitare le gesta dei ventidue in campo, sfidandosi sulla breve striscia di cemento interposta fra manto verde e gradinate, col nonno attaccato alla recinzione che di tanto in tanto non disdegna di unirsi al gioco e tirare qualche calcio al pallone. Una scena cento volte più eloquente di qualsiasi libro di semiologia sul valore del calcio come rito collettivo. Una scena che, da sola, serve a spazzare via tutte le ombre che avevano preceduto il mio arrivo in città riguardo quale significato avesse ancora, per gli abitanti di Legnano, seguire le gesta dei Lilla.

Dietro la porta, ecco la curva di casa. Inusuale la sua posizione, leggermente decentrata sulla sinistra; le dimensioni non eccessive fanno sì che i presenti, oserei dire un’ottantina, si compattino senza problemi restituendo un discreto colpo d’occhio.

Oltre al già citato striscione principale, in balaustra e sulla recinzione vengono appese diverse pezze che in definitiva contribuiscono a colorare più che bene il settore. Molte facce giovani fra le fila degli ultras, a rimarcare, se ce ne fosse bisogno, la floridità di un movimento che radunato dietro l’insegna della stella a cinque punte col teschio in sovraimpressione dei Boys, ha saputo quest’oggi trovare il giusto mordente nonostante il blasone pressoché nullo dell’avversario. Logico, gli effettivi non sono esorbitanti (nonostante in C, quantomeno per quel che offre l’attuale girone A, non sfigurerebbero di certo), ma la quasi totalità di chi ha optato per seguire la gara in curva partecipa in maniera attiva e continuata al tifo. Ai lati del gruppo, due bandieroni aggiungono un tocco di vivacità, mentre di tanto in tanto dall’ultima fila di gradoni fa capolino un terzo, immenso bandierone, sventolato lentamente, con maestria, nonostante il settore sia esposto al vento.

Ottima, con l’ausilio del tamburo, la prova canora del collettivo, tutto sommato non eccessivamente influenzata da ciò che accade sul manto verde che ha visto i Lilla farsi annullare una rete, passare due volte in svantaggio per poi acciuffare il 2-2 soltanto agli sgoccioli della gara. Terminata, peraltro, in nove contro dieci.

La tensione agonistica del campo si riversa palpabilmente anche in tribuna, dove il pubblico sopra descritto non lesina certo insulti e galanterie varie alla terna arbitrale e agli avversari tutti. Simpatico il capannello di anziani che per una ventina di minuti buoni stazionano dietro la panchina ospite, aggrappati alla rete di recinzione, per riempire l’allenatore avversario con un florilegio di insulti da far invidia ai più squallidi talk-show a sfondo politico che il digitale terrestre può offrire; tutto ciò, senza che nessun odioso omino in gilet fosforescente intimi loro di tornare seduti al posto indicato sul biglietto.

In termini di repressione, è vero, la Serie D ha dimostrato di essere tutt’altro che un’isola felice, eppure in certi campi, e oggi ne ho avuto pieno riscontro, l’atmosfera che si respira ha serbato ancora traccia di una certa umanità. Umanità fagocitata altrove da schiere di solerti steward sempre pronti “a mantenere l’ordine e a preservare l’incolumità dei presenti”.

Tornando al contingente ultras, più passano i minuti più la loro prova si dimostra convincente; bella la sbandierata proposta a metà del secondo tempo, quando faranno la loro comparsa diverse bandierine fino ad allora quasi mai alzate al cielo. Per il resto, se si vuole fare i pignoli e trovare ad ogni costo il pelo nell’uovo, si può forse rimproverare ai Lilla una certa ripetitività e mancanza di fantasia nei cori, il cui repertorio poco si discosta da quello che il mare magnum del web ci ripropone in continuazione. Questo, ripeto, a voler mettersi d’impegno per cercare una qualche nota stonata in una prestazione di tutto rispetto, con picchi davvero notevoli ai goal.

Parlando dell’importanza del calcio, delle gradinate, come fenomeno aggregativo e sociale, risulta impossibile non citare la vicenda che vede coinvolti gli ultras legnanesi, l’AC Legnano e la piccola Gaia, affetta da distrofia muscolare. È per lei che è stata istituita una raccolta fondi sotto la tribuna, ed è sempre per lei che dalla curva si alza un significativo striscione di incoraggiamento e un coro, “forza Gaia alè”, che rimarca in modo indelebile il legame fra gli ultras lilla e la realtà urbana che li circonda.

Con lo scorrere dei minuti la gara si avvia verso la fine, ed io senza fretta alcuna resto sugli spalti a godermi il saluto finale della curva, con le casacche lilla che si portano sotto il settore a raccogliere gli ultimi decibel della giornata. Scelta, quella di fermarmi ad oltranza, che mi costerà una sudata non indifferente per raggiungere di corsa la stazione e agguantare al volo il treno di ritorno, con tanto di penale per essere salito sprovvisto di tagliando. Poco male, oggi torno a casa guardando con un briciolo di fiducia in più quel nugolo di palazzine grigie tese all’infinito verso il cielo. Con un briciolo di fiducia in più, perché in barba alla spersonificazione qui dilagante, c’è ancora chi attorno a una partita di calcio è in grado di ritrovare la propria identità.

Ivan Pezzuto