La prima cosa che posso dire di questo “I Leoni di Lisbona” è che siamo di fronte ad un libro leggermente fuori target rispetto ai nostri canoni tradizionali. Se a qualcuno questo soprannome può non dire niente, il sottotitolo fuga ogni altro dubbio in proposito: “Quando il Celtic vinse la Coppa dei Campioni”. Trattasi dunque non delle storie di tifo di cui ci occupiamo abitualmente, ma dell’oggetto delle attenzioni e del sostegno dei tifosi stessi. Nella fattispecie parliamo, dunque, del Celtic di Glasgow. Più precisamente del percorso storico-tecnico-tattico che portò la famosa compagine dalla singolare maglia a strisce orizzontali bianche e verdi, a sollevare la coppa dalle grandi orecchie nella stagione 1966-67.

Il libro è edito dalla “Urbone Publishing”, una casa editrice di cui abbiamo già analizzato vari titoli e che si fa senza dubbio apprezzare per la scelta coraggiosa (e dal nostro punto di vista, gradita) di puntare fortemente sul romanzo e la saggistica sportiva. Autore del libro è Giorgio “Acerbis” Ciariachi, che tanti nostri lettori avranno apprezzato per il lavoro stupendo che porta avanti con l’associazione “Sodalizio” della Lazio, a cui corrisponde un gruppo di vecchi militanti attualmente stanziatosi nella Tribuna Tevere, ma anche e soprattutto l’omonimo sito web, ricchissimo di storie di calcio, di stadio e di sottoculture collegate.

Il libro prende le mosse a partire dalla scintilla che ha fatto innamorare l’autore dei “Bhoys”, un salto indietro con la mente ai tempi in cui le nostre simpatie, spesso sovraccariche di passione, le ricavavamo da miseri tabellini spulciati sul “Guerin Sportivo” o sugli almanacchi; oppure, ancora, dopo le finali di coppe europee trasmesse in tv o in alternativa evocate dalle voci delle telecronache in radio, che riuscivano a dipingerle a tratti epici come il video non è mai riuscito a fare. Nel caso di Giorgio, galeotto fu il Subbuteo, altra malattia inguaribile della nostra infanzia mai del tutto superata, grazie al quale scoprì e si innamorò della particolare maglia “Hoops”, così insolita per i canoni estetici nostrani.
Fatta la doverosa premessa personale, parte la narrazione vera e propria, a cominciare dal 1965, anno individuato come l’inizio dell’età dell’oro, allorquando sulla panchina dei cattolici di Glasgow arrivò il protestante Jock Stein. Già ex calciatore del Celtic, non per questo Stein fu meno sottoposto alle pressioni settarie di una comunità che da sempre si contrappone in maniera aspra, tanto nella pratica religiosa che in quella sportiva.
A quei tempi il Celtic viveva un periodo di crisi piuttosto cupa, costretto nell’ombra degli arci-rivali protestanti dei Rangers e mortificato da una lunga astinenza da vittorie importanti. Stein ritornò al Celtic, dove aveva iniziato anche la carriera da allenatore delle giovanili, dopo alcune buone annate al Dunfermline e all’Hibernian. Ad accoglierlo trovò una squadra tatticamente e mentalmente allo sfascio totale, in cui cominciò un certosino lavoro, prima di tutto psicologico, per colmare il gap immenso con i vertici delle classifiche.
Jock Stein fu un antesignano, uno che (prima di tanti altri) mise al centro del suo progetto un’idea di gioco piacevole, moderna e audace quando il modello predominante era rappresentato dal “catenaccio” dell’Inter di Helenio Herrera, incontrata proprio in finale di Coppa Campioni. Tutto il resto giornalisticamente mitizzato venne dopo, molto dopo, e spesso con risultati incontestabilmente peggiori, se non addirittura inesistenti.
Di passo in passo, Stein condusse per mano i suoi ragazzi, restituendo loro consapevolezza e forza, spirito di gruppo e risultati, trasformando questo percorso in una vera e propria cavalcata trionfale, conclusasi poi con il finale che il titolo lascia già presagire.
Per quanto Jock Stein possa considerarsi un protagonista di assoluta grandezza, uno degli allenatori più importanti di sempre, una sorta di icona sportiva di quei tempi al pari di Matt Busby, Bill Shankly o Brian Clough, si guadagnano pari spazio e gloria anche i vari attori che sul campo hanno contribuito a questa piccola grande storia, da Berti Auld a Jimmy Johnstone, passando per Chalmers e finendo anche con un breve spunto concesso ai tifosi.

Il neo del libro è in uno dei difetti già riscontrati nei lavori della “Urbone”, una sorta di suo tallone d’Achille a quanto pare, ossia una correzione delle bozze quantomeno carente: ci sono un sacco di spazi prima delle virgole e non dopo, qualche finale di parola mancante (partit, gradinat, ecc.), altre parole scritte male (Jock Stein che diventa Jack; Wallace che diventa Wallce; Hapden Park, ecc.), soggetti e verbi con “numeri” differenti (uno al singolare e l’altro al plurale o viceversa) o, ancora, errori di “logica” come quando si parla di Craig che prende il posto di Auld ma, qualche rigo più avanti, si sostiene che Auld stia ancora giocando e divinamente pure. Sarebbero anche piccoli particolari, forse non determinanti nello stabilire la bontà di un libro, ma ad un lettore più attento o feticista risultano comunque fastidiosi.
Se proprio si volesse trovare un altro ago nel pagliaio, non m’è piaciuta la parte finale in cui sono raccolti i tabellini delle partite: sinceramente non li ho nemmeno letti, sarebbe stato per me più attinente trovarli all’interno dei singoli racconti delle partite. Infine le interviste ai tifosi presentano domande ripetitive e poco personali.
A parte questi rilievi “critici”, il libro nel complesso è bello, si lascia leggere bene e con trasporto. Andrebbe letto soprattutto per il suo valore storico, a testimonianza della prima squadra britannica capace di vincere la massima competizione europea, prima ancora che le inglesi stabilissero una loro egemonia in questa area geografica. Un libro che ricorda del calcio quel sapore romantico ormai perduto, allorquando la contesa sportiva poteva essere decisa ancora dal cuore o dalla determinazione. Prima che la sperequazione economica appiattisse tutto, consegnando il monopolio alle solite 4/5 compagini che senza soluzione di continuità si spartiscono da decenni il palcoscenico, per certi versi banalizzando e rendendo noioso o prevedibile uno sport che nella sovversione delle certezze ha sempre trovato il suo punto di forza.
Per chiudere con i dati tecnici, il libro è composto da 144 pagine. Lo trovate ovviamente sul sito della “Urbone Publishing” (www.urbone.eu) al prezzo di 10 € per il cartaceo e 5,99 per la versione e-book. In alternativa potete richiederlo alla vostra libreria di fiducia indicando l’ISBN n°978-80-87644-09-6. Al netto delle problematiche che con onestà abbiamo evidenziato, sarebbero comunque dei soldi spesi bene.

Matteo Falcone.