Lotteria dei play out che mette davanti due tifoserie che certamente non si amano e anche in passato gli attriti non sono mancati. Anche le due società non sono propriamente amiche, tempo addietro già sfidatesi a colpi di comunicati in cui si rivolgevano reciproche accuse per qualche episodio dubbio nella gestione dell’ospitalità. C’è da attendersi un clima incandescente, infatti la macchina organizzatrice per la gestione dell’ordine pubblico si mette in moto e come accade spesso in questi casi, si prende la via più breve per arginare alcune criticità.
A tre giorni dalla sfida in quel di Livorno, la vendita dei biglietti per gli ospiti viene associata all’esibizione del documento di identità rendendo di fatto il biglietto nominale. A questo punto la tifoseria ospite ha due alternative, o rinunciare all’evento oppure sottostare al diktat e presentarsi in Toscana. Gli ultras optano per la prima soluzione, disertando la trasferta nonostante l’organizzazione della stessa fosse già ampiamente a buon punto, con pullman prenotati e riempiti e con tutto ciò che ne consegue. Scelta dolorosa, scelta ragionata, scelta che, condivisibile o meno, porta però a fare diverse valutazioni sul pesante fardello che la “mentalità ultras” porta con sé. Di mentalità spesso si muore, di questo ne sono quasi certo: da quando questo termine è entrato in voga nell’universo ultras, tante volte se ne finisce condizionati a discapito dello spontaneismo che ha infiammato i cuori dei primissimi ultras. Ogni scelta sembra dettata dal libro mastro della mentalità, che impone un modello unico da seguire invariabilmente per tutti, se si vuole essere ammessi nel novero di tifoserie, o gruppi, di mentalità.
Non parlo di quest’ultimo episodio che, ripeto, avrà le sue buone basi motivazionali, ma facendo un ragionamento a trecentosessanta gradi ci si accorge che ogni decisione è ormai presa sull’onda emotiva di precedenti episodi accaduti, spesso in maniera tranciante. A partire dalle trasferte disertate sulla scorta del principio “O tutti o nessuno” anche da tifoserie che si muovono in 50 quando il limite di biglietti concessi è 200. Gemellaggi o addirittura gruppi sciolti alla prima difficoltà e con fin troppa naturalezza. Fino a quando non si perde uno striscione, un passo falso ci può stare, aiuta a crescere; alcuni episodi sono figli del momento, dello stato d’animo e una sconfitta per strada fa parte del gioco.
Ricordo ancora le parole di un ultras di una squadra toscana che conosco di persona, oggi abbondantemente oltre la cinquantina che tra una parola e l’altra, mi raccontò di un derby molto sentito del passato dove, in un momento particolarmente acceso, rimase bloccato per diversi secondi, inebetito a pensare a ciò che gli succedeva intorno; era una sensazione che non aveva provato spesso, eppure posso testimoniare che era un tipo da azione e di una onestà intellettuale che anche in quel caso mi è toccato riconoscergli.
Di mentalità si muore e lo ribadisco perché se volessimo estremizzare il concetto, per coerenza bisognerebbe smettere di entrare in uno stadio di calcio, in un palazzetto di basket e ovunque si pratichi sport. Bisognerebbe smettere di seguire i quiz televisivi, i concorsi di bellezza e anche quelli tanto carini dei cani da abilità. Truccati anche quelli probabilmente. Se il biglietto nominativo ormai sdoganato nel calcio, venisse introdotto in maniera continuativa anche nel basket, quale sarebbe la strada da intraprendere? Adeguarsi o tirare giù la saracinesca? Particolare da non sottovalutare nel caso di Livorno: un paio di telecamere in pugno a severi funzionari della Digos hanno ripreso e immortalato ogni faccia sospetta, ogni movimento strano, ogni passo più in là del consentito. E stiamo parlando di un palazzetto da circa duemilacinquecento spettatori, non certamente uno stadio da ottantamila, perciò il servizio d’ordine con la tecnologia a disposizione, risulta essere fin troppo semplice. Serviva il biglietto nominale? A mio parere no, ma anche se non ci fosse stato, di certo non meno invasivo e tollerabile sarebbe stato questo controllo sociale totale. Andava probabilmente boicottato anche quello, ma meglio l’astensione e la pacificazione coatta oppure resistere e fare presenza, opposizione attiva, antagonismo in tutti i modi possibili a tutto ciò? È davvero un bel cortocircuito, bisogna ammetterlo, e non è nemmeno facile scegliere ma si spera che siano scelte ponderate e non dettate da principi che non possono andare bene per tutti, dalle curve che bazzicano le coppe europee a quelle magari di un piccolo palazzetto di provincia.
Tornando all’attualità, i tifosi giunti comunque da Vigevano vengono sistemati nel settore ospite. Una nutrita schiera di forze dell’ordine li isolano dal restante pubblico e quel nastro bianco-rosso è più un limite immaginario da non travalicare che un reale divisorio. Sull’altro versante gli Sbandati sono la guida della curva ma in un palazzetto pieno all’inverosimile, il pubblico è parecchio caldo anche negli altri settori. Che tra le due tifoserie ci sia ben poca simpatia si percepisce anche nel pre gara: qualche parola, qualche gesto tra ospiti e pubblico di casa mette in chiaro i rapporti, poi durante la partita, anche la Curva Nord mette nero su bianco la sua idea. Da Vigevano non sono arrivati gli ultras ma i presenti non sono tifosotti dell’ultima ora o educatori in gita: viene intonato qualche coro per la squadra e un paio almeno contro i tifosi locali trovano larga approvazione, tanto che dai restanti settori si levano selve di fischi.
Gli Sbandati sono olio nel motore della squadra, il sostegno non viene mai meno in una partita tesissima dove anche i giocatori sul parquet non si risparmiano e quando uno di questi va a provocare il pubblico casalingo, si scatena un bel putiferio, con i tifosi più accesi in piedi sulla balaustra per offendere pesantemente l’autore del gesto. Detto per inciso, i più esagitati per questo episodio non sono neanche i tifosi e gli ultras presenti in Curva Nord. Le due squadre si equivalgono, il risultato è in eterna alternanza, quando davanti l’una, quando davanti l’altra, entrambe sperano di effettuare l’allungo decisivo ma vengono rimontate. La partita va ai tempi supplementari e per incoronare vincitori i padroni di casa occorre addirittura un secondo tempo supplementare. Al termine dell’incontro, parte la festa di marca amaranto, tutti in campo a festeggiare, classiche esultanze ed abbracci con i giocatori. Dal settore ospiti si levano solamente applausi per la squadra e diversamente non potrebbe essere, visto l’andamento della partita.
In conclusione una menzione di merito per i direttori di gara, in uno stadio fai fatica a sentire le offese che ti vengono rivolte, in un ambiente come un palazzo dello sport c’è gente che ti urla in faccia ogni epiteto, ogni offesa, non so quanto giusta o pertinente, di basket mi intendo poco o nulla, ma in effetti ci vuole una professionalità e una pacatezza che a volte invidio. E di gente che perde le staffe ce n’è di tutti i tipi, tra donne che non diresti mai e distinti signori in pantaloni di lino, evinci che il tifo è qualcosa di così trasversale che abbatte senza troppa fatica le barriere sociali. E questo è il bello, ci offre il senso della collettività, il sentirsi membro di una tribù da difendere a tutti i costi. Torni a percepire quello spontaneismo che si sta irrimediabilmente perdendo. E in fin dei conti è un gran peccato.
Valerio Poli


















