Domenica 13 ottobre 2013, Messina-Foggia 0-3

Qualcuno sostiene che siamo pazzi.
Che dev’esserci per forza qualcosa di distorto, finanche di malato, in certi comportamenti.

foggiani@messina13-14La pancia del barcone è un hangar, solenne di pilastri come una chiesa di metallo. Gocciola e puzza di piscio, ferro, tubi di scappamento e acqua di mare. L’abside è un anfratto buio. I nostri tre mezzi residui sono spenti e chiusi a chiave, nascosti da un velo di nero incerto. È andata così. E un po’ ce l’aspettavamo. Ogni viaggio è un viaggio della speranza. Ogni villaggio di questo Paese è un’isola. Come la Sicilia. Ogni contrada ha le sue leggi, il suo modo di applicarle. Qui sono stati categorici. Bisogna fare marcia indietro. E gli altri si sono già issati lungo le ripide scale interne del traghetto di Caronte. Sono sul ponte, aria in faccia, pronti al movimento del cargo, a osservare la Calabria in avvicinamento. 16:40 l’orario previsto per la partenza. Ma alle 16:05 l’urgenza beffa i turisti ordinari. Dobbiamo lasciare questo posto e farlo in fretta, sorvolando sul protocollo della Compagnia. Siamo rimasti in due giù, nella pancia del traghetto. Il rumore dei motori in accensione è un basso che ruggisce costante. È frastuono. L’addetto in pettorina gialla precede l’addetto in pettorina celeste. Gridano qualcosa, lo si intuisce dallo sforzo e dal labiale. Ce l’hanno con noi, anche perché siamo gli unici abitanti dell’hangar. Ma sembrano cefali. O spigole. Non arriva che un suono confuso. Mi avvicino e quelli mi urlano in faccia. Con spirito di servizio e senza cattiveria: “Tutti fuori! Dovete uscire!”. Ma siamo appena entrati!, vorrei rispondere. Siamo stati respinti sul bagnasciuga, come non riuscì a Mussolini con gli Angloamericani. Provo a replicare, ma quelli insistono: “Siete voi i tifosi del Foggia?”. Mi guardo attorno. Giuro, non c’è altra anima viva in questo scenario di metallo già quasi sottomarino. Gli altri sono su, al bar o in bagno. Ormai rassegnati al buco nell’acqua e con la testa ai tanti chilometri del ritorno. “E allora dovete uscire, subito!”. Ma chi l’ha stabilito? “La polizia”. Ho il tempo per quantificare l’agitazione in distanze. Se aggiro il mezzo parcheggiato, imbocco la porticina a tenuta stagna e salgo le tre rampe, ci metto meno di un minuto. Se invece sfilo nello spazio fino alle fauci spalancate del mostro, alla terraferma, ce ne metto altrettanti. Opto per la seconda e mi avvio, a riveder la luce. Fuori, lo scenario del porto trasuda emergenza. Due camionette della polizia bloccano ogni varco. Gli uomini di pattuglia delle volanti, nervosi, sono più distanti. I turisti, in pantaloncini, magliette da rugby colombiane e le turiste in immaginifici vestitini corti e shorts, osservano senza comprendere. Il Comitato Centrale è rappresentato da tre individui. Due esponenti della digos di Messina e l’ispettrice in jeans, che coordina le operazioni. Al consesso è stato invitato anche un dirigente della Compagnia dei traghetti. Sono molto agitati. Molto. Soprattutto l’ispettrice. Sopraggiungo mentre il responsabile della Compagnia sta dicendo: “Se li faccio uscire, poi devono rifare il biglietto”. Il primo della digos incrocia il mio sguardo. “Che sta succedendo?”, chiedo. “Niente, niente”, s’affretta a rispondere, “Non è a voi”. Come sarebbe “non è a noi”? Ci hanno appena chiesto di fare dietrofront, di ritornare a terra! In un lampo intuisco. Questo traghetto “speciale” che sta per lasciare l’isola sulle ali dell’eccezionalità, è materialmente lo stesso che i Pescaresi stanno aspettando dall’altra parte, a Villa San Giovanni, per raggiungere la Sicilia. Per andare a Palermo. Dovessimo incrociarci nelle operazioni di sbarco/imbarco, l’effetto potrebbe essere una divertente festa patronale. L’ispettrice parla al telefono. Si allontana. Convoca i suoi. Rasentando l’isteria. A quel punto decido di rientrare e annunciare la lieta novella. Come un Evangelista. Come un discepolo. Ma gli altri – senza attendere – si sono riversati giù nella stiva. E avanzano. Nella mia direzione. I loro sguardi trasmettono rabbia e frustrazione. I loro gesti sono determinati. E penso che sia giunto, l’attimo. Quello in cui l’adrenalina entra in circolo. Quel momento eterno in cui il cervello si fa di anfetamine. E s’anestetizza. Mi viene fuori un sorriso sghembo. In ogni caso, non sarò venuto invano.

Prove a favore: il San Filippo è uno stadio grande, moderno, che ha fatto la serie A. Prove a discapito: nelle grandi città, di solito, il controllo poliziesco è più serrato e meno alla buona rispetto ai piccoli centri. Prove a favore: a Lecce siamo entrati. Prove a discapito: vabbé, che ne parliamo a fare. Sabrina ha finito di lavorare alle 5:20. Si sente sveglia e decide che guiderà per il primo tratto. Gli altri tre furgoni si allineano. Sfila la Puglia. Precede, come spesso accade, la Basilicata. E, in maniera inattesa, la Calabria. Che è lunga anziché no. Un paese dietro l’altro, comunità generate dalla stessa statale Ionica che rischia, ogni giorno, di farne strage. Bar, pizzerie, ristoranti. Il mare sulla sinistra. E cascate di peperoncini fuori dai chioschi. A Roseto Capo Spulico ci sono decine di sciarpe nel luogo in cui fu ritrovato, ucciso, Denis Bergamini. Ne onoreremo la memoria al ritorno. Ora abbiamo il tempo alle calcagna. La Salerno-Reggio è zeppa di interruzioni e lavori in corso. Da sessant’anni. O, forse, è proprio così che dev’essere. Dai ponti si scorge la Sicilia. In fondo alla scarpata, tra baie ricavate dalla roccia, le spiagge bianche sono punteggiate di bagnanti. Il display in macchina indica i 30 gradi. Ultimi chilometri allo svincolo per Villa San Giovanni. Il primo tratto di Sabrina è durato 570 chilometri. Un paio di inversioni azzardate e uno sguardo all’orologio. Manca un’ora al fischio d’inizio. Alla biglietteria dell’imbarco delle Ferrovie, ci comunicano che il prossimo traghetto partirà alle 15:45. Noi diciamo che veniamo da Foggia. Come se la risposta fosse la logica conseguenza di chissà che. La ragazza fa spallucce. Come la famiglia di Nazareth, cominciamo un frettoloso calvario tra i terminal. Finché non ci imbattiamo in una capanna. Il bue e l’asinello dietro allo spesso vetro ci alitano in faccia che tra dieci minuti si parte. E ci sparano un prezzo da furto. Bruceranno all’inferno. Presumo lo sappiano. I mezzi si incolonnano. Gli abitanti scendono a pascolare asfalto nel paese-imbarco. Qualcuno fotografa il mare. Ultimi romantici. Quando il traghetto attracca e spalanca sferragliando le sua interiora ad una volontaria ispezione autoptica, i professionisti del terrore principiano a lavorarsi ai fianchi gli sprovveduti. “Non ce la faremo mai. Il viaggio dura 40 minuti”. E se qualcuno prova a contraddirli, la risposta è invariabile: “Mo che vedi”. I profeti di sventura sono foggiani anche quando nascono in Slesia. A noialtri piace predire catastrofi che ci riguardano. E leggerne, sul volto degli altri, l’effetto che fa su di noi. Come allo specchio. È difficile da spiegare. Ma se Foggia fosse San Francisco, ogni giorno sarebbe il Big One. Sopra il blocco si frantuma. Tra ponte e bar. Una dozzina di incoscienti corre a comprare arancini con la stessa intelligenza di quelli che ordinano paella all’aeroporto di Barcellona. Ha fretta, la nostra stirpe. Sente la fine vicina. Da sempre. Al bar si fanno anche incontri interessanti. No, non quella col vestito blu. Quella è sposata e c’ha due figli, cazzo! Ma quelli che ci stimano e ci ammirano perché “noi di queste schifezze non ne facciamo”. Il rumore del mare è un taglio. Il Borghetti non ce la fa a risvegliarmi. Neanche le secchiate d’acqua in faccia. A terra ci aspetta la polizia. Inevitabile. Le segnalazioni saranno partite dal Continente. Messina è un curvone che trapassa il pontile di sbarco e sale. Scendiamo felici e pronti. Di Messina non vedremo altro. Ma non possiamo saperlo.

“Vi aspettiamo dalle due e mezzo”, dice il poliziotto della volante d’accoglienza. “Quanti siete?”, “Trenta, anzi trentuno, perché c’è anche una ragazza”. Suspance. I mezzi sul ciglio della strada. Il traffico sfila distrattamente per ascendere in centro. Il poliziotto sembra tranquillo e ben disposto. Sono quelli che non fanno carriera ad aspettare i ferryboat. Ci riferisce che è questione di minuti. Il tempo di sistemare il settore – anche se noi lo prenderemmo pure così, sporco e in disordine – e di organizzare la scorta. “Quanto dista lo stadio?”, “Cinque minuti”. Serpeggia insolito ottimismo. Una seconda e una terza volante sopraggiungono. Ma restano a distanza. Il plotone dei 30+1 si sparpaglia, si raggruppa in micro-comunità. Un furgone spento intercetta la frequenza della diretta dal San Felice. I minuti passano. E non succede niente. Se non radi dialoghi con i poliziotti buoni. Che sembrano impotenti. Sanno. Sanno più di quel che dicono. Poi, d’improvviso, l’assurdo. Giglio, di testa, su azione d’angolo. Il Foggia è in vantaggio. Gooooooooooolllll. Urliamo tutti. Mavafammok. Pensiamo. Sta squadra idiota. Con noi si intimidisce. Adesso, addirittura, sta vincendo a Messina. E noi siamo a due passi. E non possiamo vederla. “Lo fanno apposta, lo fanno apposta”, sussurra qualcuno, cattivo come un monaco a caccia di streghe. E propone il linciaggio. La mozione – che avrebbe vinto a man bassa – non viene votata solo per il sopraggiungere di due camionette. Che, a tenaglia sullo spartitraffico, sembrano nostre amiche come le truppe francesi a quelle tedesche sulla Somme. Siamo chiusi. E qui entrano in scena i tre del Comitato Centrale. L’ispettrice dice che no, senza biglietti non si va da nessuna parte. Gli altri le fanno eco: il botteghino ha chiuso all’una, nessuna eccezione possibile. Noi proviamo a scalare gli specchi siciliani, come quelli di Archimede. Si tenta la via dell’eccezionalità, tanto in voga presso le forze dell’ordine. Ma niente. A quel punto qualcuno sfodera l’arma segreta. E dice che siamo di Foggia. Questa cosa comincia a insospettirmi. L’uomo-digos fa spallucce. Non conosce la maledizione segreta nascosta in questa formula. Come me, del resto. Dire che siamo di Foggia equivale a “Per il potere di Grayskull!”. Fatto sta che non c’è spiraglio. E a noi non va di stare lì ore a discutere. Si gira il cozzetto. Si torna ai pulmini. L’uomo-digos ha anche detto d’aver provato a contattare i responsabili della società. Della nostra società. Ma che quelli non ne hanno voluto sapere. Meglio così. Le camionette organizzano un cordone sanitario per permetterci di ripercorrere i cinquanta metri a ritroso in tutta tranquillità (!). L’addetto all’imbarco fa sfilare il primo furgone. Poi alza la manina verso di noi, che seguiamo a ruota. Ci arrestiamo, con tanta fiducia nella sua professionale perizia. E guardiamo il furgone che è passato scivolare nel ventre della nave. E il portellone chiudersi, mentre quella cosa che galleggia si stacca dalla riva. Un nano-secondo di incertezza, poi tutti giù dalle macchine. Indichiamo il mostro che ha rapito i nostri amici. E l’afa diventa gazzara. Olè. Tutti noi contro gli sbirri. Tutti gli sbirri contro gli addetti. Tutti gli addetti contro i turisti. Tutti i turisti contro quello del meteo. Le pattuglie contro la celere. L’ispettrice contro la digos. L’Italia in venti secondi. Un gran casino senza responsabili. Perché le inflessibili ed eterne regole di un minuto prima, si volatilizzano cinque secondi dopo. Un digossino prova ad arginare le proteste annunciando che il prossimo traghetto partirà tra quaranta minuti. E lo dice come se fosse una cosa bella. Poi, vista la nostra reazione, manco fossimo poppanti, indica in mare una barca a caso e dice: “Eccolo! Eccolo! Quello è il vostro!”. Occhi stretti per lo stupore. Noi ci chiediamo tante cose. Tipo: ma perché non bloccarci all’andata, dall’altra parte, senza mettere in scena sta costosa pantomima? E soprattutto: ma a sto punto non era meglio farci vedere la partita? Ma ormai è tardi. E la legge – come ammettono anche loro – ogni zona d’Italia la applica “a modo suo”.

Dentro in tutta fretta.
La pancia del barcone è un hangar, solenne di pilastri come una chiesa di metallo.
Dall’altra parte, dunque, ci sono i Pescaresi. Ma questi sono furbi. Non lo ammettono. Sminuiscono. Corrono da una parte all’altra, si urlano ordini, per poco non si mettono le mani addosso. Eppure fingono serenità, come il Tg4 durante un colpo di Stato. Quando, però, le camionette s’imbarcano con noi, con un rumore di gomme assai simile ad un ingranaggio gigantesco, non si può più fingere che tutto vada bene. Si, ci sono i Pescaresi. Ma non ci saranno scontri perché “mica è una guerra”. Ehm. “Vorremmo farle presente, ispettrice, che un nostro mezzo, per vostra negligenza, è già in mezzo al mare. Come Capitan Findus, ha presente?”. L’istintivo dilatarsi delle pupille e la punta di pallore imprevista, oltre alla perdita istantanea del sorriso d’ordinanza, ci fa comprendere che no, questo non l’aveva previsto. E l’adrenalina dilaga. Nessuno sta più fermo. Ci immaginiamo pirati all’assalto per riscattare nella lotta i nostri mezzi caduti in mano nemica. Il braccio di mare è troppo vasto per le nostre aspirazioni. Un furgone di inglesi parcheggia dietro la camionetta. E gli sbirri rimangono imprigionati. Sul ponte ci guardano tutti. Come fossimo animali in gabbia. Poi d’incanto, la Calabria. Il portellone che si abbassa, lentamente, aprendo sempre più larghi squarci di luce in alto. Il porto di Villa San Giovanni è militarizzato. Blu fuori, blu dentro. Il Foggia raddoppia. E un grido di giubilo che stona col contesto s’alza barbarico da un abitacolo all’altro. Non vediamo nessuno, se non una fila di teste incuriosite e di auto con gli sportelli aperti. Quella della digos, che dovrebbe/vorrebbe portarci fuori di qui, per poco non si conficca in un ostinato vecchio al volante di un piroscafo a ruote. L’anziano riottoso ignora la paletta. E si incunea. L’ispettrice prova a conficcagliela nel cuore, scambiandolo – con ogni evidenza – per un Non Morto. Lì in fondo, si, li vedo. Li vediamo. Bloccati da svariati mezzi cingolati, i Pescaresi con la Away card sembrano immobili. Alla prima curva, un furgone dei loro ci incrocia. Parolacce reciproche, gestacci, tanto per non perdere il ritmo. L’imbocco dell’autostrada immaginaria che porta a Salerno. Soli, finalmente. Liberi. Di sbagliare strada e trovarci sotto Catanzaro ed un cielo a pecorelle tagliato dalle scie chimiche; di maledire la sorte che ci vuole assenti ad un 3-0 fuori casa; di scoprire che la domenica Le Fontane del Lido sono prese d’assalto; di scegliere un bar a Torre Melissa e di affrontare la nebbia e l’ignoto, ripercorrendo mentalmente una giornata di straordinario disagio, figlia di un inevaso quesito di buon senso. In fondo avevamo solo chiesto: “Capò, m’è fa trasì?”.

Qualcuno sostiene che siamo pazzi.
Che dev’esserci per forza qualcosa di distorto, finanche di malato, in certi comportamenti.

Quel qualcuno ha ragione.

[Fonte: Meglio il Foggia]