Essendo una cosiddetta “rivista di settore” abbiamo voluto attendere prima di esporci e trattare quello che forse è l’argomento più delicato e scottante degli ultimi dieci anni di movimento ultras italiano. Abbiamo voluto far sgonfiare un minimo la bolla mediatica scoppiata in seguito ai fatti di Piazza Mancini, prendendo nota delle infinite inesattezze e degli innumerevoli strafalcioni collezionati da giornali (o sedicenti tali). E dell’inutile benzina sul fuoco gettata negli sbilenchi tentativi di cercare una verità dietro a mille pregiudizi e a una disarmante misconoscenza dell’argomento tifo organizzato. Nulla di nuovo, aggiungiamo, ma sicuramente molto più avvilente del solito.
Come per ogni evento storico di una certa portata, anche la sottrazione dello striscione dei Fedayn Roma ha indotto a riflessioni, considerazioni e spunti che non possono non assillare la mente e il cuore di chi è cresciuto a pane e curva, riconoscendo le storiche sigle come dei veri e propri “miti fondativi” e provando un grande senso di frustrazione ogni qual volta esse vengono meno. A prescindere da ragioni e modalità. Ma un approfondimento sullo stato di salute degli ultras italiani necessita la cristallizzazione di qualsiasi iperbole sentimentale, richiede l’esser lucidi e il vedere limiti e debolezze di un universo che, probabilmente, sotto tanti aspetti non ha saputo guardarsi attorno e porsi quesiti fondamentali per la propria sopravvivenza e il proprio rinnovamento.
È la sera di sabato 4 febbraio, allo stadio Olimpico di Roma si è appena finito di giocare la gara di Serie A fra i giallorossi padroni di casa e l’Empoli. Tutto come da copione, gli uomini di Mourinho chiudono con il più classico dei 2-0 la pratica sul rettangolo verde. All’assenza di veleni sportivi si aggiunge anche uno storico tutt’altro che tumultuoso nei precedenti fra le due tifoserie. Pigramente, insomma, si sta chiudendo una giornata a suo modo ordinaria. Nel ritorno alla ritualità canonica legata al calcio, nel suo ripetersi si stanno lentamente spegnendo gli echi dei clamori mediatici degli scontri consumatisi in A1 fra gli stessi romanisti e i napoletani che, meno di un mese prima, avevano polarizzato il dibattito pubblico e politico. Nessuno immaginava che in quegli attimi si sarebbe consumato un evento, dal punto di vista puramente simbolico, ancora più “eclatante” di quello occorso sulla A1 all’altezza della tristemente famosa stazione di servizio di Badia al Pino. Che poi tireranno anch’essi in mezzo in un minestrone narrativo forzato e incongruente.
Emblematico dell’epoca social in cui viviamo, tutto parte da Facebook e rimbalzando di chat in chat, da piattaforma a piattaforma, uno screenshoot di un profilo privato denominato Curva Nord Belgrado, scritto in un italiano zoppicante, rivendica il furto di una fantomatica “bandiera principale” romanista da parte dei Delije, cioè tifosi della Stella Rossa per quei pochi che ancora non avessero familiarizzato con questo sostantivo. Assuefatti alla mitomania dilagante, ai messaggi audio farneticanti, praticamente tutti avevano archiviato in primissima istanza, questo messaggio, come l’ennesimo exploit della fiera dei cazzari. Eppure dopo un cautelativo giro di sms, chiamate o qualsivoglia forma di controllo incrociato sul territorio, la realtà ha cominciato tristemente ad affiorare. Tristemente perché di lì a poco deflagra, in tutta la sua potenza, l’informazione che non è stata presa una bandierina qualsiasi a un ragazzino imberbe, ma lo Striscione con la S maiuscola in quel di Roma, quello dei Fedayn. Gruppo fortemente legato al quartiere Quadraro, dove era nato e dove ancora è principalmente di stanza, coetanei dei Boys, con i quali condividono il 1972 come anno di nascita, rappresentando perciò il gruppo più longevo della Sud. Dopo aver attraversato indenne diverse generazioni, era riuscito anche a reinventarsi brillantemente negli ultimi anni, vivendo una sorta di nuova primavera, in controtendenza con tutti i grandi gruppi classici di stampo italiano, alle prese con una forte crisi di mezz’età, come un po’ l’intero movimento nazionale in generale. Ogni crisi in fondo potrebbe essere un’opportunità, ma di questo ne parleremo meglio forse dopo.
La prima domanda, immediata, è sulla credibilità di questa rivendicazione, che però si auto-assolve nel giro di pochissimo tempo. In una delle tante chat di gruppo in cui volenti o nolenti, come redattori e persone informate dei fatti veniamo inseriti, lo screenshot viene condiviso alle 21.40 circa e a leggere l’orario del post social, sarebbe addirittura stato pubblicato una buona cinquantina di minuti prima. La tempistica non lascia scampo, chi ha postato quel messaggio o era a Roma o vi era strettamente in contatto.
Che i Delije abbiano subito piantato la loro bandierina su questa conquista, doveva in linea di massima sbarazzare il campo da ogni sospetto, da ogni fantasiosa attribuzione. Invece pian piano la narrazione si è andata arricchendo di versioni tra le più colorite, partecipazioni collaterali, cominciano a fioccare messaggi vocali di ogni sorta, in ogni dove. C’erano anche i napoletani. C’erano anche i bulgari della Lokomotiv Plovdiv. In semirovesciata ci infilano dentro, non si capisce come, anche i bergamaschi. Sarebbe stato un furto punitivo su commissione. Un mix di inesattezze, vocali creati ad hoc per il gusto di saper la propria voce rimbalzare in ogni angolo d’Italia (e non solo). Un bolso remake insomma di quanto si è era già visto (e soprattutto ascoltato) un mese prima, in occasione degli incidenti in A1: se i media sono generalmente incapaci di ricostruire cosa succede a un palmo dalla loro figura, gli ultras spesso e volentieri finiscono per essere i primi carnefici di loro stessi, facendo della cattiva comunicazione e della mitomania un caposaldo. La mole di false informazioni circolate è quasi impressionante se ci si pensa, tanto che anche il più scafato frequentatore delle curve, anche chi questo fenomeno lo studia e lo analizza costantemente, finisce per dar credito e cadere almeno una volta nella trappola. Quando, forse, la spiegazione più logica – talmente folle – era sin da subito la prima. Quella rilanciata dal profilo Facebook dei supporter belgradesi. E suffragata a posteriori dal “rogo” in cui tutto il materiale romanista è stato distrutto sabato scorso, in occasione del match tra la Zvezda e il Čukarički. In cui sono andate in fumo anche montagne di illazioni e di improbabili tesi, giornalistiche e non.
Sta di fatto comunque che qualcosa di epocale è avvenuto in questo pomeriggio di metà febbraio. Un qualcosa che può valere da spartiacque, l’ennesimo, nel modo di vivere e intendere la curva. Ma che deve innanzitutto far pensare. Per contestualizzare meglio l’argomento trattato, diciamo subito ai più interessati che Delije vuol dire tutto e niente. Con questo nome, infatti, non si intende un gruppo portante della Curva Nord del Marakana, e nemmeno una sigla specifica dietro cui si celano tifosi provenienti da una data zona della Capitale serba. Delije (che in lingua madre significa “Gli Eroi”) altro non è che un semplice termine ombrello. Un appellativo dietro cui, ovviamente, si celano innumerevoli compagnie e gruppi. Un modo di venir chiamati che, paradossalmente, volge più al voler restare anonimi. Forse ricordando a tutti che a queste latitudini non si può parlare semplicemente di Ultras o di Hooligans. E sarebbe un errore marchiano, da parte nostra, quello di voler etichettare le tifoserie balcaniche in un modo o nell’altro. Ognuno ha una sua sfaccettatura, che tende più all’uno o all’altro modello e che talvolta li mescola. Di sicuro si tratta di una cultura da stadio differente rispetto alla nostra, che riflette una società distante da noi nel modus vivendi quotidiano, nella politica e nella percezione del mondo. Il che non vuol dire che sia peggiore o sia migliore. Ma semplicemente diversa. E siccome abbiamo sempre detto che lo stadio, in fondo, altro non è che la sintesi del vivere quotidiano, dobbiamo accettarlo. Così come sarebbe sbagliato non continuare a guardarsi attorno, oltre i confini nazionali, appurando la crescita esponenziale di moltissime curve europee, divenute spettacolari sulle gradinate e a dir poco temibili per strada.
E qui, ahinoi, si tocca un altro tasto dolente: il famoso codice non scritto. Il rispettare delle regole per non tracimare nella barbara e inutile violenza e far fede a quelle idee para-cavalleresche che il mondo curvaiolo vorrebbe/dovrebbe osservare. Cosa che poi – de facto – difficilmente è riuscita. E codice che, tornando a bomba, non è minimamente previsto o pensato nel mondo delle curve balcaniche o comunque non nel modo in cui lo intendiamo al di qua dell’Adriatico. Forse proprio in virtù del loro essere un ibrido, forse in virtù dell’avere un contesto sociale differente. Forse in virtù del rispecchiare semplicemente ciò che noi siamo stati dagli anni ‘70 ai ‘90. Si può storcere la bocca, ma non è poi così peregrino inserire l’azione dei Delije nel contesto che vedeva domenicalmente le nostre tifoserie impegnate in sassaiole ai treni in corsa, molotov, striscioni trafugati di notte o nei magazzini. Da par nostro è cambiato radicalmente il modo di concepire la militanza. La repressione ha senza dubbio avuto un ruolo fondamentale: la mannaia statale ha puntato al cuore i centri aggregativi delle nostre tifoserie, ne ha impedito sovente anche le più basilari funzioni vitali e ha reso quasi impossibile la vita a chiunque si metta in testa di seguire la propria squadra di calcio (e non solo) dietro uno striscione. È vero, è innegabile e va sottolineato, soprattutto in un contesto dove chi si è reso protagonista di questa azione “gode” di tutt’altra libertà in casa propria (provate, oggi, a bruciare in una curva tutto quel materiale e avrete una sola certezza: l’aver chiuso i battenti il giorno dopo, tra vespaio mediatico e rappresaglie di Questure talmente isteriche da non permettere neanche lo svolgimento senza restrizioni di una partita tra scapoli e ammogliati).
D’altro canto è anche vero che in un contesto di controllo così altamente invasivo, nessuno di noi si aspetta più l’azione “clamorosa”. Quella da mille punti. Il colpo di scena con cui annichilire per sempre l’avversario. Le trasferte blindate degli ultimi quindici anni e la quasi totale impossibilità di movimento attorno agli stadi, avevano forse fatto dimenticare tutta la storia di furti che ha caratterizzato – piaccia o meno – il nostro mondo ultras dalla notte dei tempi. In quest’ottica rientra anche la nostra totale assenza di autocritica. Il modo, tutto italiano, di non vedere mai al di là del proprio naso e chiedersi se le cose stiano andando per il verso giusto. Mentre ci si avvitava su decine di battaglie mai portate a termine, altrove ci studiavano, ci copiavano e qualcuno ci ha anche superato. Vedendoci come i fondatori di questo movimento, come quelli da imitare. Come i padri. E, in un paradigma tutto freudiano, quella dei serbi è stata probabilmente un’azione volta ad “uccidere il padre”. Per il fondatore della psicoanalisi, infatti, la “morte” del padre ha un’importanza fondamentale nella vita di un individuo, alludendo alla “morte psicologica” del proprio padre interno. È inteso come un fattore di crescita e sviluppo. In questo caso, la classica storia dell’allievo che supera il maestro.
Del resto quanto accaduto a Roma non è un episodio isolato (sebbene il più altisonante). Le avvisaglie (che a dire il vero in pochi hanno conosciuto) c’erano state con il furto di uno stendardo minore bresciano qualche settimana prima. Modalità molto simili ed esito pedissequo. Così come la notizia di alcuni giocatori di pallavolo aggrediti e derubati dei propri borsoni nei pressi del palasport di Modena da persone dall’accento slavo, proprio in concomitanza con il deflusso – a pochi metri – dallo stadio Braglia, dove si era svolta la gara fra i canarini e il Cagliari, desta più di un sospetto sull’attiguità degli obiettivi dei serbi sbarcati nel Belpaese (anche se in mancanza di altri riscontri, quest’episodio resta da prendere con le molle). Volendo poi ragionare per congetture, usando i necessari “se” e i necessari “ma”, va anche citato il furto della pezza Napoli Tricolore avvenuta, per mano dei kosovari del Plisat Prishtina, lo scorso novembre in occasione dell’amichevole disputata a Tirana tra la nostra Nazionale e quella albanese. Senza corroborare improbabili tesi, c’è comunque da chiedersi se anche quest’azione possa esser dettata e legata all’amicizia che una parte della tifoseria partenopea coltiva con la curva della Stella Rossa. Il che inserirebbe il tutto in un contesto di vendette e dimostrazioni interne ai Balcani ma avvenute attraverso “terzi”.
Infine il furto di uno degli stendardi più importanti, sempre ad opera dei belgradesi, della curva del Ferencvaros avvenuto pochi giorni prima della sfida fra Stella Rossa e Fradi e il tentativo – andato a vuoto – di portare a termine una simile azione ai danni degli ultras montenegrini del Buducnost, lo scorso settembre, la dicono lunga sull’approccio di questa tifoseria. Evidentemente conscia dei propri, infiniti, mezzi logistici e fisici e volenterosa di balzare sempre più agli onori delle cronache ultras.
E se per un momento vogliamo allargare la lente, dobbiamo guardare anche quanto accaduto prima di Verona-Istra, in occasione dell’amichevole disputata lo scorso dicembre al Bentegodi. In quella fattispecie una quarantina di tifosi ospiti tentarono il numero, arrivando a pochi passi dalla Sud (la partita era già iniziata e una volta accortisi di cosa stava succedendo, gli scaligeri hanno provato a fronteggiare i croati, con il susseguente frapporsi dalle forze dell’ordine e l’immancabile ampia coda di diffide). Un modo palese per dimostrare quanto il livello organizzativo di queste curve sia cresciuto e quanto la loro visione – spesso militaresca – della militanza, possa mettere in seria crisi l’ultra-cinquantennale movimento ultras italiano.
C’è poi un discorso forse ancor più importante da fare, che è impossibile non menzionare anche considerata la frase che recitava lo striscione esposto dai Delije mentre i vessilli romanisti venivano dati alle fiamme: “Avete scelto la compagnia sbagliata”. Un chiaro riferimento all’amicizia tra il gruppo giallorosso, i Bad Blue Boys della Dinamo Zagabria e il Gate 13 del Panathinaikos, storiche rivali dei biancorossi. Inimicizie ben diverse da come generalmente le intendiamo noi. Dispute che non nascono da motivi di campanile ma spesso e volentieri da cruente contrapposizioni nazionalistiche. Sarebbe sufficiente pensare che in molti indicano gli incidenti avvenuti nel 1990 prima, durante e dopo Dinamo Zagabria-Stella Rossa come il preludio alla guerra d’indipendenza croata, nonché uno degli episodi più emblematici circa la fine della Jugoslavia. Un peso storico e geopolitico difficile da supportare al di qua dell’Adriatico, dove la cultura da stadio si è sempre basata – anche al netto dei suoi eccessi – sul modo italiano di vivere gli spalti, sul fattore sportivo in primis e su un’aggregazione giovanile che mai è sfociata nell’organizzazione paramilitare (pur facendone allegoria), neanche quando figlia degli Anni di Piombo. Anzi, in quegli anni ne era quasi una sublimazione – per rimanere in termini freudiani – che lo Stato tollerava o addirittura caldeggiava proprio per svuotare le piazze dalla tensione sociale e politica. Appare quindi ovvio che quando ci si avvicina a gruppi o tifoserie di quelle aree, si rischia di farsi carico di un fardello che va ben oltre la mentalità ultras nostrana. Ben oltre anche ciò che noi riteniamo “eccessivo”. Quindi anche oltre il famigerato codice non scritto. Appare ovvio come la nostra concezione di stadio non sia adeguata a determinate dinamiche.
Oltre ad un’adesione estetica al filone casual/hooligan comunque, tolto insomma il “total black”, in pochissimi hanno seguito il solco della disputa muscolare, degli incontri in mezzo ai boschi o lontano dagli stadi in 5vs5 o quel che è. Il nostro baricentro più che in palestra è sempre stato sulla strada, dove anche il mingherlino ma furbo come una faina poteva dire la sua negli scontri. Il cambio di passo sociale che ha svuotato le strade, ha impoverito anche da questo punto di vista la fauna degli stadi. Siamo rimasti in una sorta di limbo dove non siamo più quelli di una volta ma non riusciamo ad essere nemmeno questi altri del blocco centro-orientale. E per quanto possa sembrare una deriva paranoide quella di tenere costantemente sott’occhio lo striscione, di non lasciarlo mai incustodito, di mettergli tutto intorno l’intero gruppo durante gli spostamenti, e di rompere le righe solo dopo che “il bambinello è arrivato a casa” sano e salvo, è in realtà l’imprinting che sin dagli albori ha pervaso la mente e le azioni di chiunque abbia girato in lungo e largo lo Stivale per portare ovunque il nome e i colori della propria tifoseria. Sembrano un po’ inutili raccomandazioni dopo che il danno ormai è stato fatto ma è semplicemente quanto da sempre avveniva e quanto sarebbe prezioso recuperare, quanto sarebbe importante rimettere la Chiesa al centro del villaggio. Lo stadio è uno dei pochi microcosmi in cui l’individualismo deve ancora cedere il passo ad un senso collettivo che resiste, però è innegabile che tanti di questi piccoli rituali siano andati perduti o sfumati in un vacuo formalismo.
Sia ben chiaro, senza che nulla di tutto ciò venga preso come una nota di biasimo personale e diretta ai Fedayn o alla CNFB Livorno che hanno perso ultimamente, in circostanze diversamente rocambolesche i propri simboli. Nessuno davanti a questi colpi (chiamateli bassi, astuti, impavidi o come vi pare) avrebbe potuto far niente in un tale contesto, con un tale rapporto di forze, con la smarrita sorpresa da una parte e la capillare organizzazione dei dettagli dall’altra. Sarebbe ipocrita fare la morale ai serbi o imporne una (e univoca) all’interno di un mondo così borderline come quello del tifo organizzato, però è impossibile non avvertire un senso di frustrazione davanti ad un gesto che spariglia di nuovo tutte le carte in tavola. Da quel passato torbido, la scena ultras nazionale si era in un certo senso riabilitata o stava tentando di farlo. Almeno in via teorica, o quantomeno nelle vesti della maggioranza dei suoi gruppi, si stava cercando di percorrere una strada condivisa sulle regole di ingaggio. E la regola non è affrontare gli avversari in superiorità numerica, armati di lame, molotov e quant’altro; tendere agguati, rubare striscioni andando ad aspettare sotto casa qualcuno, prendersela con gli indifesi o peggio ancora con i morti. Queste sono le eccezioni. Tristi, che purtroppo si ripetono ciclicamente o più di quel che vorremmo, ma che restano comunque eccezioni e non una di quelle regole implicitamente date. E il timore di fondo è che, una volta rimescolate le carte, si azzeri ognuno di questi piccoli passi in avanti fatti in senso lato nella “cultura da stadio”. Che la disumanità prenda di nuovo il sopravvento. In un mondo che, sotto la grossa patina del pregiudizio mediatico, non è solo scontro per lo scontro, fredda e chirurgica violenza atta solo alla sottrazione di uno striscione. È un mondo che ha invece in sé anche tanta umanità, aggregazione, socialità e valori che non possono andare in deroga davanti alla necessità della vendetta. Sarebbe uno spreco.
Matteo Falcone
Simone Meloni