Fino a non molto tempo fa, sulla nostra pagina Facebook, c’era il mio numero di telefono, per permettere ai nostri lettori di inviarci materiale anche via WhatsApp. Il numero l’abbiamo poi rimosso per meglio canalizzare i tantissimi messaggi. Però c’è ancora chi mi scrive lì, attraverso chissà quale percorso. Quel poco materiale che arriva, lo pubblico senza starci troppo a pensare, senza troppo sprecarmi a spiegare cosa va mandato e dove.

Ordinaria amministrazione. A rompere questa piccola routine un messaggio, qualche giorno fa: “Sportpeople dite una marea di boiate. Sappiatelo. Ultras non è un gioco”. Al tono velatamente ispirato ai personaggi di “Gomorra”, ho risposto con la stessa stoica calma di sempre.

Fin da subito, immaginavo che tutto potesse girare attorno a qualche articolo aggregato in rassegna stampa, quindi riconducibile a terzi e non a noi. Quando sono riuscito finalmente a farglielo capire, e con questo (per la tremiliardesima volta) a spiegare che lo facciamo al solo scopo di avere un quadro di massima degli eventi, ostacolati a scrivere tutto in prima persona dal nostro profilo no-profit, è calata una cappa di silenzio simile a quella di uno stadio nei secondi che precedono la battuta di un calcio di rigore.

A parte questa introduzione, sintetica quanto “Echoes” dei Pink Floyd, quello che in tutto ciò m’ha da subito colpito è un elemento in sé estraneo. Quella frase, “Ultras non è un gioco”, che immediatamente ne ha richiamata un’altra alla mia mente. Nel contesto di un ragionamento più complesso, davanti ad una birra e due chiacchiere con un amico, in uno stadio del Sud Italia in cui mi trovavo a scattare. In quella circostanza l’assunto finale fu invece completamente opposto: ultras è un gioco!

Un gioco di ruolo, di buoni contro cattivi. Di ruoli auto-attribuiti e spesso ribaltati a seconda del punto di osservazione o di discussione. Un gioco in cui la violenza, come insegnano fior di studi sociologici, è spesso rituale e puramente simbolica: appunto e a sua volta (e tra mille virgolette) un “gioco”.

Altre volte, quando la si esercita (la violenza) nell’affermazione del proprio ruolo di ultras, porta seco l’implicita accettazione della regola capestro per la quale la trasgressione delle condotte moralmente accettate comporti sanzioni superiori a quelle previste per gli altri coprotagonisti del gioco (a volte addirittura impuniti, se non giustificati nei propri eccessi). Se non fosse un gioco ma una cosa seria, quanto razionale e “serio” sarebbe restare ancora su quei gradoni a far da bersagli mobili delle altrui strumentalizzazioni? Certe frustranti disparità basterebbero da sole a desertificare in blocco le curve, eppure c’è chi ancora resta là in piedi e resiste, non certo per senso del dovere ma per sfida al potere.

In tanti, guardando dall’interno, storceranno ugualmente il naso di fronte a certe “allegorie”, portando alla causa il vecchio postulato secondo il quale “fare l’ultras è reato”, assieme al suo corollario di codici più para-mafiosi che cavallereschi. Passi appunto la cavalleresca osservanza delle famose “regole del cortile”, quelle di solidarietà trasversale tra corpi contigui (ma anche estranei purché afferenti allo stesso ordine “cavalleresco”) anche quando in deroga alle leggi comuni, ma tutto il resto – mi si passi la critica – è fuffa per darsi arie da guappi di cartone.

Non me ne si voglia, ho sempre guardato con molto interesse ad una certa critica sull’ipocrisia delle regole d’ingaggio del mondo ultras. Alcune di queste osservazioni sono state un epocale spartiacque, ma da un altro punto di vista sono altresì risultate delle provocazioni troppo estreme per essere prese sul serio. Alla pari di un Pasolini su Valle Giulia che, da qualsiasi lato lo si guardi, si fa fatica a considerare oltre la mera provocazione fine a sé. Una provocazione, quando così estrema, rischia di ottenere l’inverso risultato di polarizzare le posizioni, anziché avvicinarle come si proporrebbe: alla fine diventano verità relative e dogmatiche, a cui ognuno si aggrappa per auto-assolversi da tutti i propri peccati.

Per carità, resta vero che le curve sono un contenitore fedele del bacino sociale di riferimento (vero fino ad un certo punto, perché il caro-biglietti esasperato degli ultimi anni comincia a erodere velocemente gli strati più popolari), riunendo sotto gli stessi colori anche quei ragazzi che fuori dal contesto stadio magari vivono di espedienti, se non di affari criminali veri e propri. Ma questo appunto è il “fuori”, perché nella comunità inclusiva che è lo stadio vige la legge degli ultras, quella che teoricamente rifugge la criminalità comune: dovrebbero essere gli “ospiti” ad adeguarsi alle leggi vigenti in loco e non viceversa. Poi sì, sappiamo tutti che non sempre è così, ma la questione è troppo ampia da trattarsi qui e ora.

Proseguendo. A parte alcune piazze che ci hanno creduto ed hanno combattuto (alcune ancora lo fanno…) strenuamente contro le tante varianti del calcio moderno, quanto sono da prendere realmente sul serio i vari “NO” di quest’ultimo scorcio di tempo? No al calcio moderno propriamente detto, no alla pay-tv, no al sabato, no alla tessera e tutti gli altri “no” che vi vengono in mente. C’è stata una sola di queste battaglie che si possa dire (siate onesti, eh! …e per favore non citatemi voucher ed affini) anche solo parzialmente seria? Non ha piuttosto avuto ragione chi se n’è bellamente fregato di queste posizioni da comitato di quartiere contro le antenne dei telefonini (che poi montavano nel condominio affianco…) ed ha preferito vivere lo stadio più che poteva, meglio che poteva? Venendo poi – verrebbe da aggiungere l’inciso – imitato da lì a poco da tutti gli altri che facevano sul serio, quelli che non giocavano, salvo poi ritrattare tutta la loro serietà al primo voltar di vento.

Beninteso, tutta questa mia disamina vuole essere a sua volta una provocazione allo scontro e al confronto di idee: continuo a credere anche io, ancora, nel più recondito recesso di me stesso, che “l’unico modo per fare è fare sul serio”, come diceva il nonno di Lorenzo Kruger, ma dobbiamo forse imparare a prenderci un po’ meno sul serio, laddove necessario. Saper simbolicamente “assaltar ridendo” per essere più coerenti con la natura primaria della nostra specie da stadio, che prima ancora di tutte ‘ste menate filosofiche alla carbonara, si aggregava solamente per la voglia di stare insieme, di divertirsi, allorquando il calcio non era solo un pretesto, come vuole l’abusato slogan. Se si cerca davvero e solo il pretesto, val bene pure il ring del “Team Fighting Championship”, dove se le suonano polacchi o russi più pregni di steoroidi che di ideali da stadio. Sì, lealissimi e tutto quel che volete, ma palestra e stadio non sono esattamente sinonimi.

Non resta che un ritorno alla primordiale spinta, quella spontaneistica, quella in cui il “tifo organizzato” era molto poco organizzato, in cui non avevano alcuna rilevanza tutte queste sovrastrutture mentali e materiali dell’ultimo periodo, in cui ci si ammanta di serissimi propositi di conservazione dell’essenza e ci si perde a misurarsi in apparenze estetiche da mercatino dell’alta sartoria inglese Made in China.

Matteo Falcone, Sport People.