<<Si, ma mo annamo>>, intimo quasi disperato a Nicholas.

Dovevamo partire alle dieci in punto ma sono le undici e sto ancora girando per Casal Bruciato. Alle poste, perché serve a nonna, poi in banca. Come se non sapesse che abbiamo i secondi, nemmeno i minuti, contati. Io resto in macchina e aspetto, non posso fare altro, e l’ansia inizia ad insinuarsi nella mia apparente serenità. Sono fatto così, ho bisogno di avere tutto sotto controllo, e il mio compagno di viaggio è esattamente l’opposto ma con un carattere più esuberante, quindi si fa a modo suo. Lo vedo uscire dalla banca con la flemma di chi non ha un cazzo da fare mentre con un’espressione nevrotica cerco di fargli capire la sofferenza che mi causa la sua rilassatezza.

<<Ce la famo, non te preoccupà>>

<<Perché dovrei, in quattordici ore dobbiamo arrivà in Normandia, solo che di solito ce ne vogliono sedici, di ore, per un viaggio così>>

<<Non te preoccupà, parti>>

Parto.

È lunedì mattina, il traffico è quello d’ordinanza e martedì sera la Roma gioca la semifinale di Coppa dei Campioni a Liverpool. ‘Na cosetta.

Io ho il biglietto perché meritato sul campo, Nicholas lo compra da un ragazzo che non può partire per un problema con il passaporto. Il mezzo che dovrà portarci nel nord dell’Inghilterra è la mia utilitaria, ma non c’è alcunché di vanesio in questa scelta, nessuna intenzione di diventare l’eroe giallorosso tanto scemo da percorrere quattromila chilometri in tre giorni per dimostrare a sé stesso e agli altri di essere il più romanista tra i romanisti. Il mio problema è il volo.

Da qualche anno, infatti, una spaventosa fobia si è impossessata di me e della mia voglia di viaggiare. Quindi l’aereo non lo prendo, non posso prenderlo. O Dio, il verbo ‘potere’, forse, non è del tutto appropriato, e usarlo per giustificare questo impedimento mi rende pavido più di quanto voglia ammettere a me stesso, ma questa è un’altra storia.  

Il percorso è studiato nei minimi dettagli: Roma-Calais, Eurotunnel per Folkstone e poi circa cinquecento chilometri fino a Liverpool.

Che non sia un passeggiata è evidente, nonostante l’adrenalina mitighi le perplessità che ogni essere senziente ha il dovere di avere, ma gioca la Roma in una delle partite più importanti della sua storia quindi il gioco vale decisamente la candela.

Nicholas esce dalla banca, sale in macchina e si parte.

Sfortunatamente, però, non è un avvio folgorante. La Tiburtina è bloccata e la tentazione di scagliarmi contro il mio amico per il suo ritardo è quasi irresistibile ma tengo duro, iniziando però ad immaginarmi su una ventosa banchina della Normandia, a notte fonda, mentre guardo malinconicamente il treno sotterraneo che solca la Manica senza alcuna possibilità di raggiungerlo. Per via del costo elevato dei biglietti, abbiamo una sola possibilità per raggiungere l’Inghilterra: il nostro treno. Altrimenti siamo fottuti.

In questo istante il pensiero scivola su Lorenzo, il mio compagno di stadio, che partirà tra oltre ventiquattro ore per raggiungere la nostra stessa meta, con l’aereo, come fanno le persone normali. Un pò mi maledico.

Raggiunta l’autostrada parte la corsa contro il tempo. Guido con un invidiabile rigore psichico, dovuto alla voglia di non perdermi la partita col biglietto in tasca, e fino a Milano viaggiamo che è una meraviglia. La tangenziale meneghina, o come si chiama, è una distesa di macchine immobili che noi abbiamo il dovere di aggirare, e grazie ad un colpo di coda, e a Waze, ci inerpichiamo in una serie infinita di stradine nella poco ridente periferia milanese e in qualche modo riusciamo ad imboccare l’autostrada per Torino, percorso obbligato per raggiungere il traforo del Monte Bianco. I cento chilometri prima del tunnel sono un inaspettato sentiero fiabesco tra valli e montagne ancora innevate, con piccoli torrenti che si fanno strada tra le case in legno ai piedi dei monti. Dopo una giornata di caldo torrido, respirare l’aria severa di questo luogo rilassa i sensi e l’ora che ci separa dalla prima, grande, tappa del viaggio è una benedizione.

Questa inaspettata oasi di ristoro, però, viene cancellata dalla tonnara che è la galleria che fende il Monte Bianco. Dentro bisogna procedere piano, molto piano, e siccome nel 1999 un incendio infame si è portato via trentanove anime, i mezzi devono rispettare centocinquanta metri di distanza l’uno dall’altro.

E’ una Via Crucis, specie per chi è in ritardo e dovrebbe recuperare terreno anziché perderlo, ma in questo caso, per davvero, non è colpa di nessuno.

Uscendo dal tunnel un inequivocabile flash illumina il cofano della macchina. Qualche artista del furto con scasso ha stabilito un limite di velocità ridicolo, che in salita è fisicamente impossibile rispettare. Rosico, ma ci penserò da giovedì.

La stanchezza inizia a farsi sentire ma c’è letteralmente tutta la Francia da attraversare. Dobbiamo costeggiare Lione, poi Parigi e infine dritti fino alla Normandia. Le autostrade francesi sono piacevoli da percorrere e mentre il sole cala fino a nascondersi dietro le montagne, la lingua d’asfalto ci culla con garbo mentre sfrecciamo verso il nord.

Il tempo passa, riusciamo a recuperare qualche minuto sulla tabella di marcia e ci concediamo il lusso di una sosta in un’area di servizio gigantesca e deserta. Siamo tornati ad essere in orario, e tra un disco di De André e un pensiero sulla finale del 1984 – maledetto Liverpool – arriviamo all’ingresso dell’Eurotunnel. Il complesso è imponente e trovare il gate non è semplice dato che ce ne sono almeno trenta e l’illuminazione è quella che è. Trovato il pertugio giusto, una guardia di frontiera inglese controlla i documenti e ci interroga sul perché, da Roma, siamo diretti in Inghilterra su questo treno notturno.

<<Andiamo a vedere la partita a Liverpool>>, rispondo con aria innocente.

<<Bullshit>>.

E d’un tratto sono costretto a confidare ad un doganiere inglese il terrore di prendere l’aereo e a spiegargli che per questo sono solito muovermi per l’Europa come se vivessimo nel 1700. Il mio racconto lo fa sorridere, pensa – o spera – che lo stia prendendo per il culo ma i documenti sono in ordine e per compassione evita di indagare ulteriormente. Con una torcia elettrica ci indica la nostra carrozza e siamo sul treno. Ce l’abbiamo fatta.

Il treno che passa sotto la Manica è una sorta di metropolitana al cui interno sono parcheggiati quattro veicoli per carrozza. Uno steward ci intima di non scendere dalla macchina durante la breve traversata e io chiudo gli occhi per qualche minuto, stremato dalle diciassette ore di guida e dalla tensione per la partita che si avvicina.

L’arrivo in Inghilterra è quello che si dovrebbe aspettare chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’isola: pioggia fitta e vento tagliente. L’idea originaria era di fare tutta una tirata per poi avere qualche ora per dormire in albergo prima della partita ma sono letteralmente distrutto, quindi decidiamo di fermarci un paio d’ore nel parcheggio di un supermercato appena fuori l’uscita del tunnel.

Al risveglio, carichi e – ora si – proiettati verso Anfield, imbocco l’autostrada verso Londra, guidando a sinistra come se lo avessi fatto per tutta la vita. Il problema delle autostrade inglesi, per chi non avesse avuto il piacere di percorrerle, è che la velocità massima consentita è di circa novanta chilometri orari, in alcuni tratti, mentre per la maggior parte del tragitto si attesta sui settanta. Come se non bastasse, all’altezza di Londra troviamo un’ora di coda, provocata dai pendolari che dalle città limitrofe si riversano nella City, come mi spiega gentilmente il mio vicino di traffico, un vecchietto con le guance paonazze diretto a Preston per vendere un pappagallo, sul serio.

Dopo sette ore siamo a Liverpool. L’adrenalina è alle stelle e il volo di Lorenzo è atterrato, quindi ci dirigiamo verso gli arrivi dell’aeroporto per raccoglierlo e concederci un paio d’ore di meritato riposo in hotel.

Dopo qualche minuto nelle piccole vie della città, però, inizio a rimodellare l’immagine che mi vedeva esperto guidatore britannico, a causa della somma di pioggia, stanchezza e guida a sinistra che ci porta a qualche centimetro da un frontale con un furgoncino che ci avrebbe fatto tornare a Roma non divertendoci.

Lorenzo, che intanto ha un ascesso gengivale ed è strafatto di Oki, non riesce a smettere di ridere. Siamo a duemila chilometri da casa ma lo sono andato a prendere in macchina per andare alla partita come facciamo ogni domenica, e nonostante i duemila e passa chilometri sul groppone capisco che merito tutte le prese per il culo di questo mondo per questo motivo. Mi maledico.

L’albergo si rivela essere una specie di Motel sporco e angusto, non lontano dal centro, in un viale grigio e stitico di bellezze architettoniche.

Sono un amante del Regno Unito –  e ho avuto la fortuna di girarlo in lungo e in largo – ma Liverpool è davvero una città esteticamente orribile, fatta eccezione per il piccolo centro che però potrebbe essere quello di ogni città britannica, con le stesse catene di negozi e i medesimi fast food.

Le qualità di questa città sono – o forse erano – da cercare nella sua anima underground, con le sottoculture che dagli anni ’60 hanno proliferato nella working class di una città povera ma con un’energia vibrante. Per essere un po’ più superficiali, invece, Liverpool è sulla mappa grazie ai Beatles e al Liverpool. Non c’è molto altro.

Nessuno riesce a chiudere occhio, la tensione ci morde lo stomaco e la fatica è un conto che sappiamo si presenterà a fine serata, ma non ora. Si parte. Dall’hotel prendiamo un taxi che ci lascia in centro. Il tassista, tifoso dell’Everton, dice di avere grande fiducia nella Roma, per non essere costretto a vedere i “reds bastards”, testuale, in finale di Champions League, dato che di solito, quando ci arrivano, la vincono. Vorrei dirgli la verità, ovvero che la nostra squadra è come la sua, ed è assolutamente un caso se ci troviamo a questo punto di questa competizione, e deludere le sue aspettative ma la sua ingenuità è quasi commovente al punto che decido di fargli credere che anche noi romanisti siamo così forti e sicuri che la nostra Roma avrà le palle di portare via qualcosa di positivo stasera. Sembra abboccare, sicuramente più di quanto in realtà facciamo noi.

Ci chiudiamo in una sorta di tavola calda per ripararci dalla pioggia, mentre cerchiamo di capire se esiste un appuntamento dei gruppi per andare allo stadio in corteo. Non avendo riscontri positivi, aspettiamo qualche minuto, ma vedendo la piazza svuotarsi, e soprattutto essendo gli unici italiani, capiamo che dovremo raggiungere lo stadio per conto nostro. Siamo a cinque chilometri abbondanti da Anfield Road e con disdoro scopriamo che i taxi sono introvabili. A piedi è lunga, e un poliziotto, dopo averci chiesto se fossimo tifosi della Roma, ci indica una fermata degli autobus piena di inglesi che cantano, alcuni dei quali con bottiglie di rum alla mano. L’idea non ci fa impazzire, anche perché come noi capiamo al volo che loro sono inglesi, loro capiscono altrettanto semplicemente che noi siamo italiani, quindi ci avviciniamo con circospezione. Arrivati alla fermata troviamo altri dieci ragazzi della Roma, anche loro in gruppetti da tre e quattro persone che sono nella nostra situazione. Decidiamo di prendere l’autobus successivo, consci del rischio ma rinfrancati dall’avere vicino dei compagni con i quali guardarci le spalle a vicenda. L’autobus a due piani si ferma, saliamo in gruppo e ci mettiamo in fondo al secondo piano, spalle alla fine del mezzo. Saremmo preda facile, per chi conosce certe dinamiche, perché sul bus ci saranno un centinaio di reds, ma i tempi sono cambiati e a parte qualche sguardo non succede nulla. Anzi, sembrano intimoriti dalla nostra presenza, tanto che smettono di cantare e proseguono il viaggio in silenzio. La fermata dove scendere è inequivocabile: Anfield. Scendiamo, e ci rendiamo conto che la via da percorrere è quella dei loro pub, uno in fila all’altro. In fondo, invece, si scorge la Kop. Non abbiamo alternative, continuiamo a fare gruppo e iniziamo a percorrere la via sul marciapiede opposto a quello dei pub. Gli inglesi sono schierati sul marciapiede e aspettano qualche romano che ha preso la strada sbagliata, come noi, ma incredibilmente nessuno ci nota. Arrivati alla fine della strada cerchiamo una via alternativa all’ingresso della curva di casa, ma un bobby intransigente ci intima di proseguire. Manca più di un’ora all’inizio della partita e l’entrata della Kop è ancora deserta. Dopo aver girato lo stadio arriviamo all’ingresso del nostro settore, dove godiamo del piccolo ma pur sempre esistente lato positivo del modello inglese: fila che scorre, nessuna perquisizione e nessun controllo dei documenti. Rispetto ai tre pre-filtraggi dell’Olimpico – e agli incomprensibili sguardi di sfida dei tutori dell’ordine ai quali siamo tristemente abituati – sono duecento anni avanti.

La vista del prato di questo campo storico è impressionante. Ci posizioniamo all’altezza della bandierina, a contatto con la loro tribuna Monte Mario. Il settore vibra di energia, i gruppi sono posizionati dietro la porta, al centro della curva, e i cori contro i padroni di casa sono scanditi con la rabbia di chi si trova davanti i nemici della storia della Roma, e tutti i presenti lo sanno fin troppo bene. Ai nostri ‘Odio Liverpool’ gli scousers rispondono con un coro per Salah, a sottolineare ancora una volta la differenza tra il nostro modo di vedere il calcio e il loro. Quando parte ‘maciniamo chilometri’ sorrido, come se questo coro fosse dedicato a me al mio compagno di viaggio.  La Roma entra in campo e i 3000 romanisti hanno gli occhi che brillano e il cuore che pompa, d’altronde questo è un appuntamento coi fantasmi del passato. Il momento del loro inno è meno spettacolare di quanto si possa pensare, con buona pace dei commentatori televisivi italiani che cercano di mitizzarlo neanche fossero pagati dal Liverpool, ma in generale il loro sostegno canoro è di gran lunga superiore rispetto alle tante tifoserie inglesi che ho potuto osservare dal vivo. Il settore parte bene, cantando con rabbia e decisione, e la Roma sembra addirittura chiudere il Liverpool nella sua metà campo. Ma dopo la traversa presa, e le madonne scese impietose su Anfield direttamente dal cuore della Capitale, è uno tsunami rosso. Uno, due e quando manca ancora una vita alla fine siamo 5-0. Il settore canta, perché chi è qui ha la pellaccia dura, ma vedere gli inglesi dimenarsi a pochi metri da noi fa ribollire il sangue.

Nel momento esatto in cui segnano il quinto penso a quanto sarebbe confortevole se la Roma stesse giocando un quarto di finale di Coppa Italia contro l’Empoli, a gennaio, con diretta televisiva in chiaro e quindicimila tifosi allo stadio. Forse è quello il nostro habitat naturale. La Roma non è un top club, fatto di top player e anche di top fan – Umberto Eco definì idioti gli italiani che sono soliti usare degli anglicismi laddove arriva tranquillamente la lingua italiana, per dire -, siamo una comunità che si è forgiata nelle delusioni, nelle poche, meravigliose, vittorie e in tanto senso di appartenenza. Nell’orgoglio di rappresentare gli alti e bassi della vita, spesso grama, senza ottenere e in fondo neanche desiderare la gloria. Siamo romani e romanisti, e questo ci basta.

All’intervallo iniziano a girare delle voci riguardo un inglese in gravi condizioni a seguito di incidenti nel pre-partita, ed essendo a piedi iniziamo a pensare a quello che potrebbe attenderci fuori dallo stadio al termine della partita. La gara finisce e nel settore si canta più di prima, facendo rimbombare i cori in un Anfield ormai privo di tifosi di casa. È il momento di uscire, siamo di nuovo in tre, e l’obiettivo adesso è evitare di regalargliela. Chiedo ad un poliziotto le indicazioni per una strada che non ci porti di nuovo nella via di quei maledetti pub ma lui mi invita, sghignazzando, ad andare proprio verso quella strada, e alla richiesta, con tono di voce crescente, di un’alternativa mi risponde: “no way”. Alzo la voce, so benissimo quello che sta facendo ma non abbiamo altre opzioni, quindi ci incamminiamo nelle stradine buie intorno ad Anfield fino ad arrivare al solito, maledetto, viale. Loro sono lì, tutti fuori dai pub, con un atteggiamento decisamente diverso rispetto al pre gara ma per il momento si limitano a tirare qualche pinta di vetro verso i cani sciolti giallorossi che passano. Intercettiamo un taxi e l’autista, capendo fin troppo bene la situazione, ci dice che la corsa vale cinquanta sterline, alla faccia del rigore britannico. Accettiamo, ma una volta davanti all’hotel gli diamo una banconota da venti dato che il tassametro segna diciotto, e a fanculo i suoi strepiti e le sue minacce.

L’hotel è pieno di tifosi del Liverpool provenienti da tutto il Paese, ma sono perlopiù famiglie e signori che tutto vogliono meno che litigare. Leggiamo le notizie su Sean Cox, ma soprattutto gli editoriali idioti e carichi di luoghi comuni e inesattezze di sedicenti giornalisti che a Liverpool nemmeno ci sono stati. Per vie non ufficiali veniamo a sapere che due ragazzi della Roma sono stati aggrediti e pestati da venti inglesi, non lontano da dove siamo riusciti a prendere il taxi, ma il fatto che non versino in gravi condizioni, evidentemente, non fa notizia. A leggere i vari siti e sitarelli, però, sembra che i mostri romanisti si siano accaniti per tutta la giornata contro inermi e pacifici inglesi, che altro non volevano che vivere una giornata di sport. La realtà è ovviamente diversa ma anche a queste stronzate, purtroppo, siamo abituati. Di questa serata rimane il sogno quasi infranto di raggiungere la finale, l’aver sostenuto i colori della propria città in uno stadio ostile e la gioia di aver condiviso tutto questo con persone che provano le nostre stesse emozioni. Ma soprattutto rimangono i duemila chilometri che tra qualche ora dovremo affrontare per tornare a casa. In fondo, per la Roma questo ed altro.

Niccolò Mastrapasqua