Con il passare del tempo mi accorgo di essere sempre più in difficoltà nell’affrontare determinati argomenti. Forse perché la vita ti mette spesso proprio di fronte alla morte. E ti fa vedere gli occhi della gente che ne viene investita. Ti fa capire che le lacrime, la tristezza e l’animo affranto non solo non vanno mai violati, ma spesso neanche interpellati.

Sì, lo so, la nostra è l’epoca delle emozioni spiattellate in piazza come fossero bestiame da vendere a buon mercato. Eppure lo trovo sbagliato. Imbarazzante. Fuori luogo. Soprattutto quando il dolore diventa spettacolo e viene cavalcato per crearne un qualsiasi tipo di profitto. Sia economico che, ancor peggio, d’immagine.

Anche in un mondo come quello del tifo credo ci sia sempre una linea di confine che demarca la sacrosanta ricorrenza per la morte di un ragazzo dalla speculazione sullo stesso. La nostra società non è perfetta, pertanto non lo può essere il tifo organizzato. In tanti anni mi sono trovato di fronte a ricorrenze che ho trovato inadeguate e inutilmente sopra le righe. Sensazione che viene ingigantita anche dalla mia proverbiale riservatezza nel vivere taluni momenti.

E poi c’è un dato di fatto: io nel 1989 avevo due anni. Non posso per forza di cose ricordare in maniera cosciente quella domenica. Posso conoscere l’onta che si è riversata nella mente e nell’anima dei tifosi romanisti negli anni successivi. Ma ci tengo a non appropriarmi di un qualcosa che non ho potuto vedere con i miei occhi. Sebbene sentimentalmente appartenga a tutti quelli che, anche solo per una volta, hanno gridato il nome di Antonio per onorarne la memoria, essendo coscienti di quanto il bene e il male non vadano divisi in base al colore della tifoseria d’appartenenza.

Senza retorica. Senza buonismo. Senza finte morali.

Certo, è vero che Antonio ci appartiene perché pure chi va allo stadio da poco condivide con lui la stessa passione. Antonio ci appartiene perché, dopo ventinove anni, il suo nome è ancora scritto su tutti i muri di Roma e riecheggia nei cori e negli striscioni.

L’esser pudico, in tal senso, mi fa entrare in punta di piedi nell’atmosfera di un torneo che a De Falchi è dedicato. Laddove decine di ragazzi stanno giocando con il pallone. Lo stesso pallone che deve aver regalato tanti sogni e tante speranze a un ragazzo di borgata come me. Lo capisco. Mi ricordo le giornate infinite per le strade e so riconoscere gli occhi del popolo. Quelli di sua sorella, Anna.

Parlano pur facendo silenzio. Dicono che la sofferenza è probabilmente cresciuta anziché alleviarsi. E torna prepotente ogni volta che il nome di suo fratello viene scandito con ferma decisione dai ragazzi di curva. Alcuni bambini le si fanno incontro, mentre le vengono consegnate diverse targhe alla memoria di quel triste giorno.

4 giugno 1989. Campeggia su una di esse. È lo spartiacque per la famiglia De Falchi. Originaria del quartiere Torre Maura. Popoloso quadrante nell’area Sud-Est della Capitale che, scherzo del destino, annovera tra le sue arterie principali una certa Viale dei Romanisti. Là, dove oggi c’è il capolinea della Linea 558, campeggiano una scritta e un grande cuore giallorosso in suo ricordo. Di tanto in tanto vengono “restaurati”. Come a voler tener viva la fiammella del ricordo.

Ricordo ancora la mia professoressa di Educazione Fisica delle superiori – nativa di Torre Spaccata, qualche chilometro più in là, e accesa frequentatrice della Sud – voler glissare sull’argomento. Perché la morte di Antonio De Falchi ha significato un qualcosa di profondamente doloroso per tutte quelle generazioni che si sono avvicendate all’Olimpico come sui treni e sui pullman in partenza per le trasferte.

Perché – diciamocela tutta e senza retorica – morire prima, durante o dopo una partita di calcio è qualcosa che non dovrebbe mai accadere.  Ma non per l’indignazione becero/mediatica che ne scaturisce o per la condanna unanime che in quei casi si è costretti a subire da personaggi a cui della morte di un ragazzo frega ben poco (i quali però arringano sapientemente le loro stolte folle per apparire ciò che non sono), quanto perché tagliare il filo dell’esistenza in un momento in cui si celebra la vita è un’antitesi troppo crudele.

Quando le targhe vengono consegnate nella mani di Anna tutto si è fermato attorno. Come avessero usato un colpo di gomma magica su Photoshop, i contorni sono scomparsi. Ed al centro c’è rimasto solo un piccolo campo da calcio a cinque che ora è pieno di ragazzi. Ma non stanno in silenzio. Urlano, cantano e le fanno firmare il bandierone che ogni domenica garrisce all’Olimpico.

“Ogni volta che lo vedrai sventolare saprai che Antonio è là che tifa con noi”. Le dicono orgogliosi i ragazzi della Curva Sud.

L’incontro tra generazioni, l’applauso composto e i cori sono il sigillo a una manifestazione organizzata con il tatto giusto. Una giornata che è riuscita nuovamente a celebrare un ragazzo di Roma con orgoglio e partecipazione. Una partecipazione che ha reso questa kermesse addirittura “difficile” da gestire, almeno per quanto riguarda le sfide sui campi di calcetto.

32 squadre si sono fronteggiate, ognuna a rappresentanza di un gruppo (c’erano quasi tutti quelli della Sud), tra cui alcune tifoserie amiche come sambenedettesi, Panathinaikos, palermitani e atletisti.

Dopo quasi 30 anni Antonio De Falchi riesce a creare aggregazione, a far riunire centinaia di persone in nome suo, della Roma e del calcio. Se esiste un mondo ultraterreno credo che da lì lui si sia goduto il tutto, guardando con devozione quello stuolo di persone che continua a tenerne vivo il ricordo.

In una giornata afosa di metà giugno, a intervalli regolari il cielo da azzurro si fa nuvoloso, scaricando alcuni minuti di pioggia e grandine. Come a voler portare un po’ di frescura nell’animo caldo e acceso dei partecipanti. Una serie di torce e fumogeni vengono accesi, salendo nell’aria e mischiandosi così all’acqua che scende copiosa. L’odore che ne viene fuori è quello inconfondibile da stadio. Tutti lo riconoscono e tutti ci si riconoscono. È una fragranza che fa sentire a casa. Una casa in cui oggi ad aprire idealmente la porta è quel ragazzo con i capelli lunghi e lo sguardo al cielo, quasi ad invocare qualcosa o qualcuno.

Quasi a voler ricordare a tutti quanto sia importante rimanere uniti e aggregati anche nei momenti bui e difficili.

Simone Meloni