L’anima delle metropoli, soprattutto di una metropoli come Milano – “vicina all’Europa, che cambi, che banche” come cantava Lucio Dalla – non la trovi appena metti il naso fuori casa. Né tanto meno con una camminata superficiale nel centro storico (semmai per subodorarne l’essenza bisogna uscire fuori, percorrere le linee della metro fino ai capilinea). L’anima di queste grandi città è complessa, tormentata e spesso davvero riservata a pochi eletti, che possono vantare radici e tradizioni legate alla loro storia, anche recente. Forse anche per questo nelle mie esperienze meneghine da ragazzetto dopo aver visto le principali attrazioni storiche mi piaceva tantissimo addentrarmi nell’hinterland che aveva la nomea più “cattiva”. Da Baggio a Quarto Oggiaro, ma anche “a Gorgonzola oppure a Vimercate”, parafrasando un noto Agapito. Ci divertivamo durante il viaggio nel leggere – sui primi vagiti del web – storie di queste periferie dove la ligéra moveva i suoi passi e dove la forte immigrazione da Sud aveva creato veri e propri ghetti. Perché poi non ci dovremmo mai dimenticare che la storia dell’uomo è seriale: cambia scenari, evolve nelle sue fattezze e modifica i tratti somatici, ma i conflitti creati dalla mancata integrazione conoscono spesso percorsi pedissequi malgrado periodi storici distanti e differenti.
Io quell’anima di cui sopra la cerco costantemente a casa mia: nel mangiare, nello slang delle persone, nei loro modi di fare e anche nell’edilizia. Persino in quella abusiva (soprattutto?). Figuriamoci se non faccio lo stesso quelle poche volte in cui ormai capito a Milano. Del resto anche una delle più celebri rivalità campanilistiche italiane ormai avverte grossa crisi. Annacquata in stantii stereotipi o prestata a paginette social da quattro soldi che la utilizzano per accalappiare like e soffiare sul fuoco del “sentito dire”. Nel calcio le cose non vanno poi così diversamente, anche perché – soprattutto su fronte meneghino – la Scala del Calcio mantiene quella sua possenza e quel suo fascino, ma è anche verosimilmente intrisa sovente di una farsa teatrale e di un copione da recitare in cui le due curve cittadine non sono affatto esenti da colpe, anzi.
Quando arrivo a Lampugnano il sole è da poco tramontato e un discreto freddo mi accoglie, ma a differenza di altre volte sono partito preparato e tutto sommato non lo soffrirò chissà quanto. Manca ancora un bel po’ al fischio d’inizio, così mi concedo una camminata fino a Piazzale Lotto, dove una volta avvistato il buon Matteo decidiamo di farcela a piedi fino a San Siro. Scelta alquanto nostalgica per il sottoscritto, considerato che lo scorso anno è vero che tornai al Meazza dopo quindici anni, ma scegliendo la nuova linea lilla, che ti lascia direttamente sotto lo stadio. La camminata che costeggia l’ippodromo, invece, è una roba da vecchio calcio, ma anche un’abitudine delle trasferte nel capoluogo lombardo, almeno fino a qualche anno fa. Tra l’altro – cosa che da adolescente o poco più che adulto davvero non notavo – mi soffermo nello studiare case e abitazioni, arrivando alla conclusione che ricordavo la zona molto peggio. Come cambiano i punti di vista nel giro di vent’anni!
Altra novità sono senza dubbio gli innumerevoli murales che nell’area adiacente alla Curva Nord celebrano i gruppi interisti, mentre dall’altro versante rappresentano quelli rossoneri. Non me ne voglia nessuno, si tratta solo di una considerazione: a Roma sarebbero durati a malapena due giorni. In questo mi rendo conto che – forse assieme a Napoli – siamo per antonomasia una città grafomane, dove il derby (ma anche il perenne scontro politico/stradaiolo dei decenni scorsi) ha accentuato questa natura e alla fine è bello così. Per certi versi scritte e murales (a meno che non riguardino ragazzi scomparsi chiaramente) sono come striscioni da difendere. Ergo: è indubbiamente bello da un punto di vista artistico e identitario quanto realizzato dalle due tifoserie milanesi, ma l’idea che rimanga immacolato e non sia mai in pericolo non riesco a concepirla in chiave stracittadina. Così come mi fa sempre un po’ strano vedere la masnada di tifosi ospiti passare indisturbata con la sciarpa al collo nei gli spazi frequentati perlopiù dai supporter locali. E se da una parte capisco pure che oggi non valga più la pena compiere determinate azioni “gratuite”, dall’altra forse sono proprio intollerante io, che generalmente non ho mai visto di buon occhio neanche il “dolce passeggiare” di tifoserie amiche e gemellate attorno all’Olimpico. Opinione personale, sia chiaro.
Attenzione, ciò non vuol assolutamente dire che milanisti e interisti si siano rammolliti e non abbiano più quella gente che negli anni è stata in grado di rendere questa trasferta tra le più pericolose d’Italia. Ma sicuramente negli ultimi decenni sono cambiate le priorità, ci sono stati lunghi momenti di ricostruzione e la repressione ci ha messo del suo. Inoltre non tutte le metropoli sono uguali, per l’appunto, e quello che a Roma può sembrare valido e sacro, magari qua è risibile e superfluo. O viceversa.
E l’anima? Beh a cercarla si trova anche attorno al Meazza. La trovi al “famigerato” baretto, oggi tana degli interisti ma un tempo condiviso dalle due sponde, con i suoi interni in legno, le sue foto storiche, la sua area esterna delimitata dalle reti verdi tipiche degli anni settanta/ottanta. E anche i suoi astanti, gente dai capelli ormai brizzolati, con famiglie a carico e vite beate o frastagliate, ma con un minimo comun denominatore: il Milan e la sua sfaccettatura più intima e viscerale. Cosa che si distingue in maniera tangente camminando nei rivoli troppo spesso affollati di turisti o tifosi occasionali, partiti la mattina da altre zone d’Italia, venuti per il match e pronti a tornare la mattina dopo all’ovile. Guardando a fondo, cercando per l’appunto l’anima, tutte le radici di un popolo tradotto in tifoseria li intuisci e sai bene che andando a scandagliare avresti da approfondire milioni di storie e aneddoti. Ma queste sfumature le trovi anche nelle viuzze che circondano lo stadio, dove si rintanano i tifosi più radicali, quelli che ancora riescono a fare aggregazione in nome dei colori e del simbolo. E capisci che per quanto da lontano puoi guardarli circospetto, per quanto tu (io) possa non condividere la strada intrapresa da qualche anno, il modo di vivere lo stadio e di essere ultras, rimane comunque quell’alone di vita vissuta che ti fa dire: “Questi sono sempre e comunque i milanisti”.
Nella fanzine che verrà diffusa oggi in Curva Sud gli ultras rossoneri parlano, ovviamente, dei dirimpettai, dell’odio che esiste ma anche di quell’antico gemellaggio portato avanti nella prima metà degli anni ottanta. Il resto è storia che dovrebbe raccontare chi ha vissuto, da momenti tragici come la morte di De Falchi alla trasferta del Flaminio nel girone di ritorno in quel campionato. Molto interessante – per un malato di ferrovia come il sottoscritto – il capitolo dedicato alle trasferte milaniste dagli anni novanta in poi, la maggior parte effettuate in treno, con la polizia che obbligava i tifosi a scendere in quel di Settebagni e Tiburtina (ci aggiungo anche Aurelia) cominciando spesso da lì la classica opera di abusi e violenza gratuita. Aspetti a cui la celere romana non ha mai rinunciato e che oggi forse è costretta a camuffare a causa della facilità con cui talune immagini possono essere rese pubbliche (ecco come andrebbero utilizzati social e smartphone!)
Mentre i romanisti si apprestano a scalare letteralmente il Terzo Anello – scempio moderno di questo magnifico impianto – partono i primi cori offensivi, a cui la maggior parte dei presenti sembra non prestare grande attenzione. Fortunatamente qualcuno si affaccia dall’interno e risponde per le rime, rammentando che in fin dei conti siamo pur sempre in uno stadio e non nella stanza dove Giovanni Della Casa scrisse il Galateo. Un inciso proprio sul Meazza: solo un Paese, club calcistici e amministrazioni comunali senza amor proprio, senza memoria storica e senza cuore possono mirare alla costruzione di nuovi impianti per i due club locali ma, soprattutto, all’abbattimento di quello che è un monumento del nostro sport nazionale. Tante volte mi convinco del fatto che occorra sperare nelle lentezze burocratiche e negli intrallazzi tipicamente italiani per scongiurare il peggio. Siamo un Paese che ha costretto le proprie menti più appassionate e legate all’aspetto simbolico, a credere fermamente e paradossalmente nelle sue inefficienze. Se da una parte io possa capire – non condividere – la voglia di due società del genere di avere impianti propri, dall’altra non capisco né i tifosi che se ne compiacciono, né tanto meno chi pensa di poter abbattere stadi, teatri e luoghi aggregativi esattamente come si fa con un rudere vetusto e pericoloso. Alla base di ciò, oltre a tanta ignoranza, credo ci sia anche un grande complesso di inferiorità nei confronti di altri tipi di calcio, su tutti quello inglese: finti conservatori che per primi hanno abbattuto strutture come Highbury, Upton Park o Maine Road.
Tornando alla sfida odierna, ora anche per me è il turno di varcare i cancelli. Noto con un certo dispiacere come, a differenza di altri stadi, da queste parti gli steward siano più meticolosi e invasivi del solito. Me ne accorgo definitivamente osservando la scenetta che vede un ragazzino poco più che adolescente scavalcare un paio di volte l’inferriata che divide tribuna stampa con tribuna laterale, venendo infine portato via di peso dagli uomini in giallo. Quando potevano tranquillamente limitarsi a farlo rimettere al suo posto, senza circondarlo in diverse unità e facendo la voce grossa. Negli occhi spaventati del ragazzetto ci ho visto un pizzico di speranza e francamente avrei voluto tendergli una mano e dirgli non solo di rifarlo, di scavalcare di nuovo, ma di convincere anche i suoi amici a seguirlo. Solo che sarebbe stato indurre qualcuno a prendere una sanzione (sic!). Comunque questi evidenziatori umani istituzionalizzati dal Decreto Pisanu e demandati alla sicurezza si confermano sempre una delle parti più malate di questo calcio.
Poco prima che le due squadre facciano il loro ingresso in campo le due tifoserie cominciano a fronteggiarsi vocalmente. I romanisti espongono lo striscione (che resterà appeso per tutta la partita) “Milanista infame”, trovando la pronta risposta dei dirimpettai. In questi anni ho avuto diverse occasioni per esprimermi sulla Sud di Milano e per evidenziare il mio poco amore per il total black, soprattutto in una forma davvero massiva e totale come questa. Tuttavia una cosa si deve loro riconoscere: il lavoro fatto in ambito canoro è stato davvero ai limiti della perfezione. Il Secondo Anello è spesso un muro di mani e canti, abbassando di rado la propria intensità e rendendosi protagonista della solita, ottima, performance. Certo, da una tifoseria in passato tradizionalmente colorata, fa sempre effetto vedere i bandieroni sventolati a momenti alterni e pochissimo spettacolo cromatico durante tutta la gara (salvo la bella accensione di diverse torce qua e là), ma questo è parte integrante del nuovo corso dei rossoneri. Mi si perdoni se davvero non riesco a prescindere da quella formazione di curva del Milan con cui sono cresciuto, ma al di là di ogni cosa per me ha rappresentato per anni il modello italiano in tutte le sue declinazioni. Sarà anche per questo che alla fase corrente riconosco il merito di aver restituito compattezza ed effetto visivo alla tifoseria, ma di essere lacunosa sotto altri aspetti. C’è poi tutto un discorso comunicativo che non amo: troppa esposizione e troppo utilizzo dei social. Il che, nel 2024, potrebbe anche non essere deleterio se fosse ben ponderato e utilizzato sia per difendere i propri diritti che per pubblicizzare la propria attività. Discorso diverso quando sfocia in una stucchevole sovraesposizione mediatica e muscolare in stile tifoserie dell’Est.
Su fronte romanista, oltre allo striscione di cui sopra, da evidenziare il posizionamento di Gruppo Quadraro, Magliana e Ostinazione nel quadrante alla mia destra del settore ospiti, mentre tutti gli altri gruppi continuano a riconoscersi dietro l’unica insegna della Lupa Capitolina. Considerazione personale: capisco la volontà di dare compattezza, soprattutto quando ci si trova in settori stretti e poco capienti come Cagliari o Torino sponda rossonera, ma da un punto di vista prettamente estetico i romanisti perdono davvero molto non potendo contare sulla loro moltitudine di pezze, la maggior parte delle quali ben pensate e realizzate. Sicuramente non è il massimo – al di là dei bandieroni che rappresentano le varie insegne – scorgere perlopiù pezze e striscioni dei club provenienti da tutta Italia. Anche qui si tratta di un mio parere, del mio gusto, quindi tutto alquanto opinabile e ovviamente trascurabile da parte di chi è chiamato a operare certe scelte e farsene carico. Da un punto di vista del tifo, complice sia la sconfitta appena patita nel derby di Coppa, che quella subita malamente anche stasera, la prova non è propriamente delle migliori. Fatta eccezione per qualche sussulto sui cori più gettonati e immediatamente dopo il provvisorio gol del 2-1, il settore stenta e non poco a coinvolgere tutti i presenti. Momento interlocutorio, calcisticamente parlando, che finisce così per coinvolgere anche il tifo organizzato. Malgrado, va detto, lo zoccolo duro si sgola per tutti i novanta minuti.
Al triplice fischio boato di giubilo per i milanisti, che applaudono la squadra mostrando fieri i loro bandieroni e colorando il proprio settore. Fischi impietosi per la Roma, come era lecito aspettarsi. Io, tuttavia, non posso permettermi di dilungarmi, dovendo prendere il pullman delle 23:50 da San Donato, non proprio dietro l’angolo. Per evitare ingressi intasati o peggio ancora chiusi della linea lilla, anche al ritorno opto per Piazzale Lotto. Stavolta la passeggiata è tutt’altro che piacevole e di tanto in tanto si tramuta in corsa, tra la gente infreddolita che mi guarda interdetta. L’attesa di tredici minuti per la linea rossa viene fortunatamente ricompensata dall’immediato passaggio della gialla a Duomo, che mi permette di raggiungere per un soffio il capolinea Itabus. Sebbene inizialmente sbagli l’uscita (del resto c’è solo una fermata per bus nazionali e internazionali, perché mettere un’indicazione all’uscita della metro?) e a indicarmi la retta via ci pensi un ragazzetto di chiare origini alloctone ma con accento milanese. Ecco, penso, in fondo cercavo l’anima. Ne ho trovato una parte anche poco prima di metter piede sul pullman!
Testo Simone Meloni