Punto di vista che parte da una prospettiva chiara, ma che altrettanto chiaramente analizza la situazione dell’ultimo periodo al netto di tanta retorica sterile di chi ragiona solo all’interno degli steccati del proprio orticello socio-politico.

Premessa: gli striscioni apparsi domenica a Roma, non mi appartengono e non avrei voluti vederli nella mia curva. Il fatto è che a differenza di molti, me li aspettavo.

Ma procediamo per gradi perché domenica scorsa è paradigma di molti aspetti.
Gli striscioni solidali con colui che è accusato di aver sparato ad alcuni tifosi del Napoli sono degli striscioni figli di una cultura ultras esistente. Lo so che per molti la cultura ultras è qualcosa di romantico, fatta di coreografie, striscioni e cori, tutto molto bello ma ne è solo un aspetto. La cultura ultras è machista e si fonda sul cameratismo. Non è per forza fascista ma per alcuni aspetti che ha preso, è culturalmente piuttosto di destra. Se non cominciamo a dirci le cose come stanno, probabile che si continui a rincorrere un mito che non esiste.
Da qui nasce la mia mancanza di stupore agli striscioni di domenica. Alcuni gruppi della sud, sopratutto quelli in cui circolano alcuni vecchi ultras, hanno espresso vicinanza a un loro ex compagno di battaglie. Giusto o sbagliato, questo è accaduto. Del resto sarebbe stato sorprendente e piuttosto ipocrita se la tifoseria ultras romanista avesse fatto finta di nulla. Nelle scritte non c’era sostegno all’accaduto ma soltanto alla persona. Vi fa inorridire? Ok, ma del resto fa parte di una mentalità di strada, sempre più legata a quella ultras. E se la strada cambia, cambia anche la cultura ultras. Vi fa vergognare? Ok, ma non cambia la sostanza. Nei nostri quartieri spesso assistiamo a scritte in sostegno per i più disparati casi, alcuni vergognosi, ma così è.

Del resto, a sinistra e non soltanto, si continuano a immaginare le curve come luoghi diversi e distanti dalle città. Errore. Le curve sono quei luoghi dove quelle contraddizioni a cui assistiamo quotidianamente, esplodono nella maniera più becera e violenta. Ora, siccome non sono sociologo-antropologo o quella roba lì non starò a citare chissà chi. I miei ragionamenti sono frutto di osservazioni decennali. Tornando al discorso iniziale, la violenza verbale, spesso razzista e omofoba da stadio, non è diversa da quella a cui assistiamo in qualsiasi discorso, di qualsiasi bar cittadino. O almeno nella mia città. Perché Roma questa è. Ma poi ci si sorprende che a Roma ci siano i fascisti allo stadio, forse perché spesso fuori di fascisti ne vediamo ben pochi (parlo di militanti) senza pensare che quelli che spesso indichiamo come fascisti (lasciamo perdere i tentativi fallimentari dei suddetti nel fare reclutamento negli stadi) non sono altro che i figli di questa città, cresciuti in quel brodo culturale razzisteggiante e prepotente di cui è pregna Roma ad ogni angolo. Perché questo è il punto, né più né meno. E così che vanno letti gli avvenimenti degli ultimi giorni, cercando di non farsi intossicare dalle ricostruzioni e dalle indignazioni a uso e consumo dei media, dalle inchieste, dai reportage e dalle finte interviste a pseudo ultras incappucciati. E di tutto questo, di riflesso o direttamente, vive anche la cultura da stadio.

Oltretutto dal 2007 col pacchetto Maroni, la trasformazione degli stadi in luoghi di trincea ha ulteriormente esacerbato gli animi di chi va allo stadio: e allora l’ultras che diventa vittima, l’ultras che va espulso da quel luogo perché ritenuto corpo estraneo. Tentativo fallimentare perché mentre tutti gridano al “modello inglese”, l’ultras è già arrivato al modello inglese. Decide di sciogliersi, di organizzarsi in piccoli gruppi non identificabili, di confondersi con la massa da stadio, sentendosi sempre più un soldato in trincea. Lo sciopero del tifo domenica durante Roma-Juventus ha evidenziato sempre più come l’ultras stesso ormai sia qualcosa di completamente diverso da come è stato per una vita e da come viene tuttora narrato. La spaccatura tra chi “appartiene” ai gruppi ultras e il resto dei tifosi, anche quelli più accesi, ormai è evidente anche in una stessa curva. A mio avviso, gli ultras si stanno suicidando, perché dovrebbero cercare di coinvolgere anche “i tifosi normali” nelle loro lotte contro la repressione, tanto quanto dall’altra parte spesso non interessa niente, tranne il vedersi la partita, senza essere disturbato da bandiere o fumogeni, perché se una volta la partita si viveva anche sugli spalti, ormai per molti è soltanto quella che si gioca in campo. Partecipano ai cori che poi fanno squalificare la curva per poi lamentarsi per la squalifica o per gli ultras stessi che li fanno. Non vogliono tifare 90′ ma si lamentano se non c’è un tifo organizzato. Solite contraddizioni che esistono da sempre. Non tutti i tifosi sono “consumatori” e basta. Non tutti “gli ultras” sono portatori del tifo sano e giusto. Alla fine gli ultras stessi finiscono nel radicalizzarsi sempre di più e ormai troppe volte ho la sensazione che vivano più di rappresentazione di se stessi che non di altro. Un po’ come in alcune situazioni di movimento in cui la piazza non è più il luogo del conflitto ma bensì della sua rappresentazione cinematografica.

Non sta a me dare le soluzioni, del resto vivo in una città che troppe volte mi mette a disagio, tanto quanto la mia curva. Non chiamo goliardia il razzismo, evito qualsiasi moralismo e casomai mi preoccupo di come trovare gli anti-corpi necessari per far fronte al razzismo diventato opinione pubblica. Ma ritengo altrettanto pericoloso entrare a gamba tesa in un discorso del genere, senza interrogarci sulle trasformazioni della nostra società, sul come cambiano i rapporti tra abitanti e i luoghi in cui vivono, su quello che davvero siamo.

Un tifoso cor core acceso da na passione.