La fragranza del bucato proveniente dai panni stesi e sorretti dal filo sospeso tra una casa e l’altra inebria le mie narici, mentre dal centro storico mi incammino verso il Castello di Pietrarossa. Mischiato all’odore di cibo in preparazione e alle voci che riecheggiano dalle tipiche abitazioni a livello strada, trasmette un sapore profondamente locale. Ancorato a questo capoluogo della Sicilia centrale, a questa città che nel suo nome rivela le sue profondità arabe e racconta una storia – che in parte è anche quella dell’isola – fatta di millenarie colonizzazioni e importanti lasciti culturali. Per un popolo, quello siciliano, che dalle sue origini estrae prontamente orgoglio e senso di appartenenza, trincerando dietro il simbolo della Trinacria quelle radici spesso ostentate ed esportate in ogni parte del mondo. Ogni volta che attraverso lo Stretto so che vivrò un’esperienza nuova, in grado di insegnarmi qualcosa e lasciare un piccolo tassello in più nel mio sapere e nella mia anima. Malgrado la commercializzazione che ha travolto buona parte dell’isola nell’ultimo ventennio e malgrado la perdita, nei centri più turistici e visitati, di parte della sua veracità. Ma non è questo il caso, nella Sicilia interna ancora si respira una certa aria e un certo modo di essere.
Il calcio è sempre la “scusa” per visitare, per conoscere e per farsi più di qualche domanda. Certo, rispetto a qualche anno fa, oggi è più “semplice” raggiungere questi posti. Per me è “sufficiente” salire su un volo per Catania e da là prendere il pullman per Caltanissetta. È domenica mattina, il cielo terso già preannuncia la bella giornata che sarà, mentre la solita masnada di turisti attende impaziente il pullman per Siracusa, divenuta ormai meta senza stagione. Chi invece è intento a tornare a casa, chi sta viaggiando verso la famiglia, sale sul mio stesso torpedone: quello diretto a Canicattì. Quello che qualche minuto dopo si lascia alle spalle Fontanarossa, taglia velocemente dentro al popolare quartiere di Librino e poi prende la via interna. Al mio fianco scorre la ferrovia per Palermo, interrotta tra Catania e Dittaino per il rinnovamento della linea, mentre dall’altra parte l’Etna si staglia come sempre imponente, imbiancato dalla neve nella sua cima e circondato, chilometro dopo chilometro, da un paesaggio che si fa sempre più lunare. Qualche torrente si scorge in fondo alle gole che passano al di sotto dell’autostrada. Tutto è talmente bello e lontano da quella Sicilia venduta sui cataloghi, che meriterebbe un capitolo a parte. Gli altri passeggeri guardano con disincanto, quasi abituati. Qualcuno probabilmente sconsolato nel far breve ritorno a casa nella sua vita di eterno migrante. Il siciliano mantiene sempre una dignità, forse figlia del sangue degli studiosi e dei dottori arabi, romani e greci che gli scorre nelle vene. Una dignità che però non cela il malcontento per aver lasciato una regione che, nel Novecento ha pesantemente pagato dapprima il malgoverno latifondista dei secoli precedenti e successivamente la letale commistione tra distanza dagli apparati statali e incidenza sul territorio della criminalità organizzata.
Stazione dei pullman di Caltanissetta, ore 9:30. Il viavai di macchine accorse a “prelevare” i passeggeri in arrivo colora la zona, mentre io mi allontano brandendo la fotocamera per effettuare i primi scatti. Mi avvicino alla stazione centrale, immancabile tappa in ogni mio viaggio del football. Da qua si dipanano varie linee fondamentali per la complicata mobilità su ferro siciliana. I convogli Minuetto fermi al binario e l’apparente assenza di viaggiatori, mi permettono di realizzare qualche ripresa nel silenzio, mentre da lontano sento il rumore di bambini che giocano a calcio. È una bella colonna sonora per essere domenica mattina. Ma ora, signori miei, secondo voi cosa bisogna fare a quest’ora, da poco giunti in Sicilia, e in odore di prima colazione? Nulla, se non recarsi in una pasticceria e ingollare un bel cannolo, per rasserenare le ansie e iniziare al meglio la giornata. Perché potranno commercializzare e standardizzare la Sicilia quanto vogliono, la potranno far diventare terra per ricchi e ignoranti americani o turisti senza arte né parte, ma difficilmente potranno uccidere il suo patrimonio culinario. Inoltre una delle leggende che ruotano attorno a questo dolce, vogliono che sia nato proprio a Caltanissetta, da un mix di mani romane e saracene. E sapete quale luogo la leggenda deputa a “culla” del cannolo? Nientepopodimeno che il Castello di Pietrarossa. Proprio quello dove mi sto recando mentre mi imbatto nei panni stesi. Proprio quello che da sempre campeggia, a simbolo, sullo stemma della squadra locale: la Nissa. Qua, dove in origine – sempre secondo leggenda – risiedeva l’harem dell’Emiro di Palermo, venne creata l’embrionale ricetta. E a questo luogo è legata anche la toponimia: Qalʿat an-nisāʾ (Castello delle Donne), nome con cui per la prima volta, nel 1154, il geografo Muhammad al-Idrisi indica la città. La lunga assenza dei consorti, dunque, avrebbe indotto le donne a modificare una ricetta già esistente nella cucina araba, rielaborandola in una ricetta romana poi riportata in uno dei documenti scritti da Cicerone. Con la fine del dominio arabo e la seguente chiusura degli harem, probabilmente la “creazione” venne tramandata alle suore, che da lì a poco avrebbero abitato il convento di Santa Maria degli Angeli, tutt’oggi esistente e – assieme al cimitero monumentale – letteralmente incastonato nei resti del Castello. Il cannolo sarebbe stato dapprima un dolce carnascialesco, per poi spopolare alla grande e divenire un vero e proprio simbolo del territorio siciliano in toto. Il cibo, dunque, si conferma essere elemento a dir poco fondamentale per risalire ai legami culturali di un popolo. E, aneddoti a parte, cosa dire? Grazie a chiunque abbia inventato quello che personalmente rientra di diritto tra i tre dolci più buoni esistenti sulla faccia della Terra!
Detto di quanto cucina, arte e storia si intreccino puntualmente, non si può non guardare Caltanissetta con gli occhi “studiosi”, di chi sa bene che non capiterà tutti i giorni di tornarvi. Neanche a farlo apposta, il primo luogo che incrocio sulla mia strada è il mercato di Strata ‘a Foglia, uno dei cuori pulsanti del centro nisseno. Qua, come in ogni città siciliana che si rispetti, di giorno si accavallano voci e si avvicendano banchi dove si può trovare ogni prodotto ortofrutticolo e non, ovviamente autoctono. Parliamo di un mercato che vanta oltre seicento anni di vita e che, a vederlo di domenica mattina – con le viuzze vuote ed esercizi chiusi – lascia intendere quanta vita vissuta custodisca orgogliosamente. Dato che nulla viene lasciato al caso, il suo nome deriva da Fogghia, un termine dialettale che stava a indicare i fogliamari, raccoglitori di erbe amare diffusissimi nella provincia di Caltanissetta. Mentre cammino nel silenzio surreale del mercato, alcuni vecchietti appoggiati al muro di un bar scherzano tra loro sorseggiando caffè e… amaro. Sì, perché qua siamo anche nella patria dell’Amaro Averna e, benché siano le prime ore del mattino, evidentemente più di qualcuno non può far a meno di onorare il prodotto “lanciato” da Salvatore Averna a fine ‘800 e reso celebre, nei decenni a venire, dalle successive generazioni della sua famiglia.
Continuo a camminare e di tanto in tanto scorgo le locandine con cui gli ultras hanno tappezzato la città per richiamare i tifosi allo stadio: la sfida di oggi è un crocevia fondamentale, un’eventuale vittoria potrebbe consegnare tra le mani nissene una buona fetta di Serie D e lo stadio Tomaselli, dopo anni di incuria e controversie, ha l’occasione di tornare a splendere e riempirsi.
Qualche locandina campeggia anche nella bellissima Piazza Garibaldi, dove maestosi troneggiano la Cattedrale di Santa Maria la Nova, la fontana del Tritone e la Chiesa di San Sebastiano. Il cuore della città è un vero e proprio salotto, sebbene – mi permetto questa riflessione – forse potrebbe essere meglio valorizzato. E mi riferisco a tante sfumature che chiunque abbia una minima dimestichezza con le città italiane non può non cogliere. Appare chiaro, su tutte, come questo crocevia sia anche luogo di “determinate” attività tutt’altro che limpide tra locals e alloctoni (Caltanissetta è sede di uno dei più grandi CPR d’Italia, una delle tante carceri in cui gli immigrati appena arrivati in Italia vengono reclusi e da cui, per colpe davvero ascrivibili a tutti, spesso non nasce nulla di buono, se non lo svilimento della dignità umana e la seguente spinta a compiere atti che, ovviamente, non favoriscono né l’integrazione, né tanto meno un discorso di legalità). Resta, tuttavia, il peccato nel non veder dato giusto risalto a un simile centro storico, che forse in altri Paesi verrebbe blindato e reso patrimonio nazionale. Ma qua, come succede altrove, il discorso affonda le sue radici anche nella decadenza economica che ha caratterizzato la comunità nissena dalla seconda metà del novecento in poi. Caltanissetta, infatti, si configurava nel XIX secolo come una delle province più ricche del meridione, grazie all’estrazione dello zolfo (il famoso Zolfo di Sicilia) e all’impiego di migliaia di lavoratori (le cui condizioni, va detto, rasentavano comunque l’inumano e producevano sovente morte e malattie). I bombardamenti degli Alleati nel 1943 e il crollo di suddetto indotto, hanno successivamente avuto un tragico effetto domino, tanto che anche ai giorni d’oggi la provincia annovera il non invidiabile primato della più colpita dalla disoccupazione in tutto lo Stivale. In più, come si può palesemente vedere entrando in città e avvicinandosi nel suo nucleo storico, l’immediato dopoguerra è stato caratterizzato dal boom edilizio, tutt’altro che armonioso con la storia e l’architettura preesistente. Un tratto distintivo, purtroppo, da Nord a Sud, che soprattutto nel mezzogiorno ha spesso divorato bellezze e secoli di sviluppo “oculato”.
Ma tornando all’inizio di questo racconto, è proprio addentrandomi nel quartiere San Domenico – alla volta del Castello – che penetro nel cuore arabo di Caltanissetta. Le casette basse, le viuzze strette e una sensazione di intimità mi riportano indietro nei secoli. Questo è il primordiale nucleo abitato, quello dove i bizantini si stanziarono nell’VIII secolo e dove, sembra, nacque il nome Nissa, città della Cappadocia da cui probabilmente essi venivano. Successivamente gli arabi – e nella fattispecie i berberi – presero possesso della zona, rinominandola per assonanza, come detto, in Qalcʿat al-nisā. Oggi il quartiere prende nome dall’omonima chiesa di origine normanna, altro elemento che evidenzia la stratificazione storica del luogo. Personalmente rimango molto colpito anche dal Cimitero Monumentale degli Angeli, che praticamente si sviluppa all’interno del Castello di Pietrarossa e da cui si può osservare gran parte della vallata che circonda il centro nisseno (segnata dal fiume Salso) e dove un forte e freddo vento ci ricorda i suoi 568 metri di altezza, che lo rendono il secondo capoluogo in regione per altitudine, dietro a Enna (che con i suoi 931 metri s.l.m. detiene invece il primato nazionale). Comunque questa commistione tra luogo sacro/spirituale, monumenti e riferimenti storici è a dir poco penetrante e ben descrive quanto questa città sia ricca e meriti di esser approfondita. Essendo, peraltro, affascinato da tutto ciò che le popolazioni italiche hanno lasciato in eredità, non posso far a meno di menzionare il dominio dei Sicani prima dell’arrivo dei greci (e più precisamente dei coloni provenienti da Gela), civiltà che ha avuto un ruolo importante anche nella transizione linguistica, considerato che dal loro stanziamento tramutarono il nome Trinacria in Sicania e che, per più di qualche studioso, la loro lingua non faceva parte del ceppo indoeuropeo diffuso tutt’oggi nel Vecchio Continente (salvo i rari casi come l’ungro/finnico). Senza voler entrare troppo nel “tecnico”, insomma, resta davvero affascinante quanto questo lembo di Sicilia interna possa raccontare di sé e dello sviluppo dell’intera isola.
Tuttavia parlare di Caltanissetta e non menzionare la sua importanza nel dominio normanno e, soprattutto, il suo ruolo di contea assegnato da questi ultimi alla famiglia paternese dei Moncada, sarebbe come mozzare oltre quattrocento anni di storia nissena (1405-1812). Quattro secoli in cui la città ha guadagnato in architettura, dato che ancora oggi diversi palazzi fanno capo – almeno da un punto di vista dei nomi – a suddetta famiglia, su tutti il bellissimo palazzo in stile barocco, oggi sfruttato come spazio espositivo per diverse mostre. Ma una piccola parte di questi quattrocento anni sono raccontati anche da Goethe nel suo celebre Viaggio in Italia, che lodandone le riserve naturali ne sottolinea però anche la difficoltà nel raggiungerla, raccontando, ad esempio, tutte le impervie per arrivare, l’indomani, a Castrogiovanni (Enna), verso la quale era necessario oltrepassare il corso del Salso, cosa resa possibile per secoli da un solo ponte, detto Capodarso (distrutto peraltro dai bombardamenti del 1943), che tuttavia lo scrittore tedesco non trovò, vedendosi costretto a guadare il corso d’acqua.
L’elevazione della città a capoluogo e snodo fondamentale, ha sempre reso importanti i suoi legami con i centri di potere: resta ad esempio celebre la fedeltà nissena nei confronti della casata borbonica. Fedeltà che spesso creò frizioni anche con i centri attigui, i quali volevano liberarsi dell’oppressiva stretta dei regnanti, cercando un possibile modo di riscatto e valorizzazione di terre prestate eternamente e in maniera poco lungimirante al latifondo (in realtà la storia è ciclica e permanente sul territorio, quindi finirà per parlarci di situazioni ben diverse da quanto sperato e prospettato). In tal senso va assolutamente menzionata la ragione per cui, tutt’oggi, in molti definiscono i nisseni maonzesi, con fare dispregiativo: siamo nel 1820 e i Borbone sono malvisti da molti siciliani per le numerose promesse non mantenute e per lo smacco dello spostamento del capoluogo del Regno da Palermo a Napoli. In questo contesto si svolge una di quelle parti di “nicchia” della storia, che tuttavia speso accende e inasprisce contese e rivalità, arrivando sino ai giorni nostri sottoforma di campanile e folklore. Caltanissetta – la fedelissima, la capovalle – poteva godere di diversi privilegi (su tutti la tassa sul macinato: l’economia della zona dipendeva quasi esclusivamente dal grano, lo zolfo sarebbe arrivato qualche decennio dopo), che al contrario non furono estesi al vicino comune di San Cataldo. In questo contesto, a differenza delle altre province, in cui a scontrarsi erano soltanto i rispettivi eserciti, presero parte anche diversi abitanti delle due città in una furibonda battaglia dove alla fine si contarono centinaia di morti. Capo della provincia venne nominato il principe Galletti di San Cataldo, avverso storicamente ai nisseni e capofila nelle sanguinolente battaglie (le Battaglie di Monte Babbaurra) durante le quali i sancataldesi saccheggiarono e danneggiarono Caltanissetta. L’episodio che fece scatenare la rabbia dei sancataldesi e da cui deriva l’ingiuria di traditori, fu quando i nisseni chiesero una sorta di armistizio, ma uccisero l’ambasciatore mandato dal principe Galletti per trattare la pace, assalendo a sorpresa, per l’appunto, Monte Babbaurra. Da allora dunque nacque l’appellativo di “maunzisi”, ovvero “traditori” (derivato dal nome del personaggio Gano di Maganza, o Magonza, il traditore della Chanson de Roland, nota in Sicilia anche a livello popolare grazie all’opera dei pupi). Inutile dire che questa “dialettica” è stata ampiamente utilizzata in ambito curvaiolo: dispregiativamente dagli avversari, ironicamente e goliardicamente dai nisseni che sia in passato che oggi hanno prodotto materiale e coreografie con questo nomignolo.
Se poi vogliamo lambire l’aspetto culturale “contemporaneo” – in seno a una regione che ha dato i natali a figure storiche per la nostra letteratura – non possiamo non citare Salvatore Sciascia (da non confondere con l’omonimo Leonardo), creatore della casa editrice che tutt’oggi porta il suo cognome e che primeggia nel panorama nazionale, nativo di Sommatino, importante area mineraria alle porte della città.
Qualcuno potrà dire: ma cosa c’entra tutto ciò con il calcio e con gli ultras? Beh, sarebbe sufficiente rispondere che al cospetto di una squadra che prende il nome dall’antica toponimia della sua città, non si può far altro che sfogliare qualche libro e capirne le motivazioni. In realtà il calcio, come è sempre stato lo sport in generale durante la storia dell’umanità, trasuda di vita vissuta e di pagine di antropologia. Anche fosse solo per il secolo scorso. Non è un caso, per fare un esempio, che oltre a tutto il giro della città nel suo aspetto storico e sociale, mi conceda una bella camminata fino al vecchio stadio Palmintelli. Inaugurato nel 1933, è qua che si sono scritte forse le pagine più epiche e memorabili del calcio nisseno. È qua che la Nissa ha militato in C2 tra il 1984 e il 1987 ed è sempre qua che il movimento ultras cittadino ha mosso i primi passi, fomentato sia dalle vicende sportive degli anni ottanta che dai campionati interregionali, all’epoca contraddistinti da derby con buona parte della Sicilia, soffiando sul vento delle rivalità e permettendo ai biancoscudati – come ad altre realtà regionali – di confrontarsi e crescere di conseguenza. Il Palmintelli è quello che si può definire “spettacolo” da un punto di vista calciofilo: completamente in terra battuta, con spalti in cemento armato e gli esterni da vecchio stadio meridionale. Costruito secondo i dettami del regime fascista (addirittura in origine il suo nome era Campo Dux), negli anni ha subito qualche modifica (eliminazione della pista d’atletica per favore l’espansione del tribunale prospicente) mantenendo viva e vegeta la sua anima. Mi preme sottolineare come il colore della terra che ne caratterizza il terreno, sia fedele all’idea di campo siciliano retrò che ho sempre avuto, sebbene, ad esempio, nell’area circostante Catania i terreni di gioco un tempo avessero tutti una base di pietra lavica, favorendone una colorazione scura, spesso quasi nera, e provocando – quando non ben annaffiati – veri e propri pericoli per i giocatori, a causa della loro durezza. Insomma: agli amanti dello Juventus Stadium e di altre porcherie simili, consiglio di lasciar stare questo racconto e andarsi a “rifare gli occhi” di fronte a qualche statistica nerd per il Fantacalcio. Fortunatamente oggigiorno il Palmintelli è ancora in attività e ospita le gare di una piccola squadra locale, l’Atletico Nissa (Seconda Categoria). Anzi, addirittura dopo il fallimento del 2014, anche la Nissa vi è tornata a giocare. Lo scorso anno, invece, è salita agli onori delle cronache la turbolenta sfida con l’Enna (qua giocata per l’indisponibilità del Tomaselli), caratterizzata da pesanti incidenti all’esterno di uno stadio che, a differenza dell’altro impianto locale, non ha grosse via di fuga ed è ben incastonato tra strade e palazzi.
Chiaro che tutto quello che piace “a noi”, spesso e volentieri cozza con quello che vogliono “loro”. E infatti anche in questa direzione mirava la costruzione del nuovo stadio di Pian del Lago (dall’omonima zona), poi intitolato nel 2007 a Marco Tomaselli, storico giocatore della Nissa. Uno stadio per certi versi simbolo dello sperpero e della scarsa concezione di luogo deputato al calcio che sovente in Italia propongono amministrazioni e progettisti chiamati a idearne forme e modalità. La pista d’atletica, infatti, distanzia in maniera netta gli spalti dal campo, cosa che rende assai difficile il tifo e la sua funzione di spinta (così come la bassa ma lunga curva, che non favorisce la disposizione per verticale ma obbliga i presenti a mettersi in orizzontale, disposizione sicuramente più dispersiva). D’altro canto con una capienza che sfiora i 12.000 posti, il Tomaselli è il quarto stadio di tutta la Sicilia, cosa che – soprattutto in passato – lo ha visto teatro di gare disputate da altre compagini, momentaneamente prive di stadio (mi viene in mente l’Atletico Catana, che a fine anni ’90 giocò qua alcune sue partite). L’impiantistica rimane un problema davvero grande e irrisolto in tutta l’isola, basti pensare che attualmente lo stadio di Ravanusa (provincia di Agrigento) è occupato dai match interni di Canicattì e Licata (mentre a rotazione, fino a qualche tempo fa, è stato usato anche dal Ragusa e dal Pro Favara). Palese come, di contro, oggi si preferisca non usare il Tomaselli anche in virtù – ne parleremo a breve – di una diffusa “antipatia” verso il capoluogo nisseno da parte di molte tifoserie regionali, cosa che ovviamente preoccupa i nostri burocrati dell’ordine pubblico.
Una curiosità sull’impianto di Pian del Lago: durante una gara di qualificazione per gli Europei Under 21 del 1996 tra Italia e Croazia, le due squadre furono costrette a posticipare di quasi un’ora il fischio d’inizio. Questo perché entrambe scese in campo con maglie bianche e prive di seconde casacche. La società ospitante – pertanto la Nissa – fu costretta a raggiungere il magazzino del Palmintelli e portare al Tomaselli le seconde maglie del club, di colore rosso. Solo allora la sfida ebbe luogo (lo stemma sociale locale venne cancellato a pennarello), con gli azzurri che vinsero per 2-1 e che, successivamente, conquistarono il titolo continentale battendo ai rigori, a domicilio, la Spagna (una finale talmente “scarsa” che nei tempi regolamentari la parità fu decretata dalle marcature di Totti e Raul, sic!).
Tornando al motivo del mio viaggio: ammetto che una delle cose che mi ha sempre affascinato dei biancoscudati è il loro nome, profondamente legato alla storia cittadina come abbiamo visto. L’attuale sodalizio è l’erede di una tradizione che conosce i primi vagiti nel 1962, sebbene a Caltanissetta il calcio fosse praticato dagli anni trenta e diverse compagini abbiano provato saltuariamente a rappresentare il capoluogo (su tutti da ricordare l’Unione Sportiva Nissena, la SPAL Caltanissetta – che vanta anche la partecipazione ad alcuni campionati di C – e l’Associazione Calcio Caltanissetta). Come accennato, è il 1962 la data che però rappresenta la svolta cruciale: al Comitato Regionale Siciliano viene affiliata la Nissa Sport Club, che muove i primi passi dalla Seconda Categoria. Una società che per trent’anni porterà in alto il nome di Caltanissetta, barcamenandosi tra vittoriosi campionati regionali che la conducono fino al professionismo e richiamando frotte di tifosi sulle gradinate del Palmintelli. L’epopea finisce nel 1992, quando il club fallisce. Dalle sue ceneri riparte l’Unione Sportiva Nissa, sodalizio che tuttavia qualche anno dopo cessa nuovamente le proprie attività, lasciando il testimone alla Nissa Football Club, figlia della fusione tra il Sommatino e la Nissena 1996. Malgrado un discreto cammino calcistico, che riporta la città in Serie D nel 2008, nel 2013 arriva un altro fallimento e un’altra ripartenza, stavolta sotto il nome di Sporting Nissa. Questa storia travagliata, tuttavia, non è ancora finita e nel 2017 la dirigenza cessa qualsiasi attività inerente alla prima squadra. Ancora un capitombolo, ancora un nuovo punto di partenza. La Nissa Football Club riparte dalla Terza Categoria, scalando lentamente la piramide calcistica siciliana e tornando in Eccellenza nel 2020, dove da allora milita alla ricerca di un nuovo salto nel massimo campionato dilettantistico. Capirete bene che con tutto questo tourbillon di fallimenti e insuccessi (trend peraltro comune a molte altre piazze storiche sicule), non è affatto facile poter continuare in maniera armonica e intensa il discorso ultras, che in una città di quasi 60.000 abitanti potrebbe essere fattibile e radicato. Ma qui, a mio modo di vedere, entra in gioco sia la storia sportivamente ondivaga che un percorso spesso tutto siciliano, fatto di grandi potenzialità inespresse e di immensa difficoltà nel trovare la continuità. Ovviamente nessuno si offenda, la mia è una considerazione che nasce al cospetto di due regioni che personalmente vedo come avanguardia ultras del Sud Italia: Puglia e Campania.
In questi casi la mia curiosità è anche quella di capire da dove parta l’aggregazione curvaiola di una città. Chi ne siano i padri fondatori, quanto essa riesca a essere radicata sul territorio. Non parliamo di realtà arcinote e costantemente sotto i riflettori; io ho un ricordo lontano dei nisseni, inizio anni duemila, sotto la guida delle Brigate e, soprattutto, degli Ultras 2002, gruppo che da un punto di vista estetico e visivo mi sembrava sempre bello, compatto e guidato da persone che apparentemente volevano dare una svolta alla propria piazza. Ma, volendo scavare, va detto che l’embrione ultras a Caltanissetta è datato 1976, quando nella gradinata del Palmintelli fa per la prima volta apparizione lo striscione del Commandos Tigre. L’anno successivo, lo stesso gruppo, si sposterà nella tribuna coperta, rinominandosi Commandos Biancoscudato. Nel 1977 nascono anche le Brigate Gradinata, che nel 1982 diverranno Ultrà Nissa. La promozione in C2 del 1983 ovviamente galvanizza l’ambiente e porta alla fusione dei due gruppi: nascono così le Brigate Ultrà Nissa (cosa che da piccolo mi faceva sempre sorridere, pensando che migliaia di chilometri più a Nord, in Francia, i nizzardi avevano adottato un nome pressoché simile: Brigade Sud Nissa). Alcuni gruppetti, dalla breve durata, si affiancano (Drunkeards, Falange e Indians), mentre a fare da veri e propri “compagni di viaggio” saranno Fedayn e Furiosi, formati da ragazzi che non condividevano alcune linee guida delle Brigate. Tra alti e bassi il gruppo guida tiene botta fino a inizio anni duemila, quando entrano in contrasto con una sigla che da lì a poco rappresenterà – come detto – un punto di rottura: gli Ultras 2002. Gruppo di ragazzi che cerca di portare una ventata di novità in città, guadagnandosi anche un discreto rispetto al di fuori delle mura amiche. Le rivalità storiche vengono rinfocolate e Caltanissetta viene vista come una piazza in forma, malgrado le sventure sportive non permettano mai un grande salto di qualità e continuità.
Gli anni successivi allo scioglimento di Ultras 2002 (estate 2006) e Brigate (ottobre 2006), vedono un vero e proprio vuoto di potere nella curva biancoscudata. Alcuni ragazzi, dietro le insegne di Balate Crew e Quelli della Stiva, provano a ravvivare il discorso, ma anche qui l’anonimato calcistico non aiuta di certo. La storia recente, invece, ci parla di un importante tentativo di ricostruzione e rilancio della Curva Nord, che grazie al gruppo Cani Sciolti (che dallo scorso anno, dopo le diffide piovute con l’Enna, si limita a portare la pezza Assenti Presenti) e all’aiuto di alcuni vecchi, ha ridato linfa nuova al movimento ultras nisseno. Certo, non è facile e i motivi sono sotto gli occhi di tutti: la società del 2024 va veloce, tende a coprire le individualità e le tradizioni in favore di una globalizzazione e di una omologazione spesso spaventose. I social la fanno da padroni e sovente si rivelano cattivi maestri, per questo la necessità di interazione e passaggio del testimone dalle vecchie alle nuove generazioni è necessario. Mettiamoci poi la repressione, che ormai è presente e pressante anche nelle categorie più infime, un tempo veramente luoghi tranquilli, al riparo da qualsiasi porcata istituzionale. Oggi ci si sente quasi in dovere di ringraziare, ad esempio, quando si può godere di uno spettacolo alla presenza di ambo le tifoserie, tanto è il livello di “tirannia” e onnipotenza arrogante dei soliti noti, quando si parla di decisioni inerenti ai tifosi allo stadio.
Dicevo, inoltre, di un certo e diffuso “odio” che molte realtà siciliane nutrono nei confronti dei biancoscudati. Se, ad esempio, nel caso del derby con San Cataldo a ricorrere sono soprattutto motivi storici, in molti altri giocano un ruolo fondamentale gli anni ottanta e quegli infuocati derby che vedevano teatro delle scorribande il Palmintelli. Campanile, voglia di confronto, storia: elementi imprescindibili per la bellezza di questo sport. Al momento i nisseni vantano un solido gemellaggio con i ragazzi di Licata e una lunga amicizia con i messinesi, in particolar modo con la Gioventù. Ovvio che in una realtà tosta e rude come quella isolana, anche i buoni rapporti determinino antipatie e simpatie di riflesso. Mi viene in mentre, ad esempio, l’amicizia tra sancataldesi ed ennesi o, giustappunto, favaresi. Amicizie che ovviamente hanno anche in comune l’odio per il capoluogo e che oggi metteranno quel pizzico di interesse in più a una sfida che non avrebbe neanche bisogno di presentazioni, tanto è attesa e partecipata.
Quando arrivo nel grande piazzale antistante lo stadio manca circa un’ora e mezza al fischio d’inizio. Molti sono intenti a consumare il proprio pre partita e questo in Sicilia non è mai un aspetto da sottovalutare: innanzitutto va detto che qua ai chioschetti non trovi i panini rinsecchiti con le salsicce di venti giorni prima, ma pane e panelle (a proposito, sebbene questa sia una specialità palermitana, ne esiste una versione nissena e vi assicuro che vale assolutamente la pena provarla!) e gente che banchetta con i tipici anellini al forno e dell’ottimo vino rosso locale. Perché poi la grande differenza con il calcio commerciale della Serie A sta anche qui, nella semplicità e nell’aggregazione fatta anche di esaltazione dei prodotti locali. Ripeto: il calcio è lo specchio di un popolo e uno dei pochi aspetti che a oggi ci permette di preservare buona parte della nostra identità. Nel frattempo è anche notevole la quantità di tifosi che arriva mettendosi in coda per entrare. Mi fa sempre piacere rimanere a osservare gli “strappabiglietti”: questa figura ormai desueta nelle serie professionistiche – dove i tornelli regolano quasi sempre gli accessi – che ho avuto la fortuna di conoscere da piccolo anche nei grandi palcoscenici dell’Olimpico o di San Siro e che trasmette senz’altro un’idea di vecchio calcio. Alla fine saranno oltre 4.500 gli spettatori, numeri da capogiro per una partita di quinta serie, in un campionato regionale. Sia chiaro, non mi faccio mai abbindolare dai numeri e so bene che la normalità da queste parti non è questa, però mi soffermo anche nel dire che l’entusiasmo non va mai condannato o deriso, semmai plasmato e convogliato sulla strada della continuità. Ho raccontato quante negative vicissitudini societarie abbia dovuto sopportare e supportare la città di Caltanissetta e questo, inutile negarlo, alla fine logora inevitabilmente il rapporto tra squadra e città. E probabilmente anche il radicamento degli ultras. Del resto sappiamo quanto sia difficile avere una base praticamente immortale come può essere quella di Cava dei Tirreni, di Nocera, Andria o Barletta (corroborata, comunque, anche da una continuità sportiva) e piazze simili, e forse non è neanche giusto porre a paragone solo ed esclusivamente queste realtà.
Prima di entrare anche io mi concedo un giro attorno allo stadio, giusto per capirne la conformazione e vedere quale aria tiri fuori al settore ospiti, dove sono appostate diverse camionette e si sta attendendo l’arrivo dei tifosi ospiti. A Favara sono stati venduti 250/300 biglietti, per niente male considerato che parliamo di una cittadina con poco più di 30.000 abitanti e una storia calcistica recente che non è andata oltre l’Eccellenza. Benché, a memoria, ricordi sempre una presenza di tifo organizzato al seguito dei gialloblù. Perlustrato il perimetro del Tomaselli posso finalmente entrare, ritirando dapprima il mio accredito. A differenza di alcune “virtuose” società, fortunatamente non ho alcun problema e tutti sembrano rivolgersi in maniera cordiale. Anche se il teatrino più bello, per il quale ho riso dieci minuti da solo, si consuma a fine gara quando, al momento di riprendere il documento, scendo negli spogliatoi chiedendo al magazziniere – uno di quei bei signori stagionati, che ti trincerebbe una mano se solo provassi a pensare di toccargli una casacca -, il quale si produce in tutta una serie di invettive completamente in dialetto (e quindi per me incomprensibili), dalle quali deduco che non gradisca la presenza di soggetti non autorizzati. Questa rabbia, dopo lo sfogo, si tramuta in un cordialissimo: “Vabbè, come ti chiami?”, seguito da lui che va a prendermi il documento, me lo rende e mi saluta gentilmente. Scena di una teatralità massima. Il sangue greco e quello arabo, mi dico tra me e me!
Che per Caltanissetta non sia una domenica qualunque lo si capisce dall’ingente presenza di persone a bordo campo: ragazzini delle scuole calcio, bambine impegnate in spettacoli di danza classica e, soprattutto, arzilli vespisti del Vespa Club locale, con i loro mezzi imbandierati di giallorosso. Lo avevo capito già dalle prime ore del mattino, imbattendomi in alcuni tifosi che, sciarpa al collo, giravano a zonzo per le strade. In tutto ciò il primo colpo d’occhio davvero imponente è quello della tribuna coperta, che già mezz’ora prima del fischio d’inizio è praticamente piena, tanto che lo speaker suggerisce di occupare i posti nel parterre, ancora parzialmente liberi. L’inizio si avvicina e allora ecco entrare anche le tifoserie organizzate. I primi sono i nisseni, che si posizionano dietro lo striscione Caltanissetta e cominciano a far sentire la propria vicinanza alla squadra (una corazzata che sinora non ha ancora perso e che se non già vinto il campionato è solo a causa di un’inseguitrice davvero valida come quella favarese). Da segnalare un lungo striscione esposto per “Teschio”, storica figura della tifoseria locale scomparsa ormai da anni ma che, da sempre, viene onorata e ricordata in ogni occasione utile. Può sembrare avventato, ma penso che anche nel dar seguito al ricordo di figure importanti della propria curva si celi quel filo di continuità importantissimo che lega I Vecchi e i Giovani (un capolavoro, guarda caso, scritto da un siciliano doc come Pirandello).
È poi il turno dei supporter ospiti, che optano per l’entrata scenica: tutti in corteo, bandieroni e bandiere in mano e subito cori contro i dirimpettai. La tribuna coperta risponde con un “chi non salta è favarese”, mostrando di non voler fare solo da sparring partner in questa giornata. Il contingente gialloblù, malgrado le indicazioni degli steward, si posiziona – come nella gara di coppa a inizio stagione – tutto sulla sinistra, raggruppandosi e facendo da subito una buona impressione. Facevo cenno al germe ultras, che in modo più o meno continuativo è sempre stato presente nella piccola città in provincia di Agrigento, basti pensare che a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta la tifoseria gialloblù era tra le più attive e coreografiche nel panorama dilettantistico siciliano. Una delle prime insegne apparse allo stadio Brucculeri fu uno striscione nero con scritta gialloblù Ultras Favara, affiancato poco dopo da Southern Force, che durò fino al termine degli anni novanta. Anni in cui il movimento forse ha lasciato la sua impronta più forte nel Belpaese, tanto che a macchia di leopardo nascono anche altri gruppi come la Falange d’Assalto, gli Sconvolts e la Vecchia Guardia. Nel 1995, invece, nasce il Club Itria 1995 che, rappresentato allo stadio dallo striscione Ultras, si pone l’obiettivo di divenire il vero e proprio simbolo della tifoseria favarese, con il logo del bulldog arrabbiato che vuol simboleggiare lo spirito della curva. Con l’approdo in Serie D a inizio anni duemila, la città vive un momento di fermento massimo. Nascono altri due gruppi: i Fradici, sul cui striscione campeggia il volto di Jim Morrison e le Brigate 2001, politicamente sinistrorse, tanto da avere l’effige di Che Guevara sulle proprie pezze. Nel 2005, invece, nascono i Fedayn, che tuttavia durano una sola stagione. Come succede spesso nel calcio dilettantistico, anche a Favara è un terremoto societario a spegnere la fiamma della passione: nel 2008 il club viene trasferito a Raffadali e tutti i gruppi optano per lo scioglimento, vedendo fallire, negli anni successivi, alcuni tentativi di restituire alla città il tifo organizzato.
La svolta arriva il 18 settembre 2011 (Pro Favara-Villabate), giorno in cui fanno il loro esordio i ragazzi del gruppo Curva Nord. L’obiettivo è quello di dare continuità e consentire al movimento ultras locale un salto di qualità che fino ad allora non era mai riuscito appieno. Parliamo di ragazzini spesso neanche maggiorenni, che per portare avanti la propria militanza conoscono ovviamente diverse difficolta, tra cui quelle economiche per trasferte e spostamenti. Dal passato si si mantengono gli ottimi rapporti con i ragazzi del Commando Neuropatico di San Cataldo (e, ovviamente, anche la rivalità con i nisseni) e resta sempre vivo il sentimento anti-agrigentino. Una partita, quella contro l’Akragas, avvertita da tutta la comunità come il vero e proprio derby, segnato spesso da incidenti, come in occasione del match disputato all’Esseneto nell’agosto del 2022. Sta di fatto che il percorso della Curva Nord, lentamente e a fari spenti, permette alla Favara ultras di maturare e ritagliarsi uno spazio considerevole nel panorama regionale. Lo scetticismo iniziale per una piazza forse troppo discontinua, col tempo lascia spazio alla presenza e alla militanza, con tanti giovani che cominciano ad avvicinarsi e a dar ossigeno e linfa al gruppo. Chiaro che anche qua saranno importanti fattori esterni, su cui purtroppo gli ultras possono incidere poco, vedasi andamento sportivo ed esistenza del club al di sopra dei crack societari sempre in agguato.
I ventidue giocatori fanno capolino dagli spogliatoi e la Nord si lascia andare al primo spettacolo di giornata: una bella fumogenata giallorossa che purtroppo viene in parte spazzata via dal forte vento, ma che riesce comunque a restituire una bella impressione. Poi, come dico sempre: con la pirotecnica non si sbaglia mai! Fumogeni anche su fronte favarese, dove la squadra si porta sotto al settore per ricevere e trasmettere carica. La supersfida del Girone A di Eccellenza Siciliana è iniziata e non tradirà per niente le attese. Mi posiziono inizialmente sotto ai nisseni, per scrutarne bene il tifo, i comportamenti e le emozioni. La loro squadra, peraltro, trova immediatamente il vantaggio, accendendo ancor più una Nord che sembra davvero in gran forma. Innanzitutto è piacevole – oltre che foriero di speranza – appurare come al tifo partecipino davvero tutti, non solo lo zoccolo duro che generalmente si sobbarca tutte le partite in casa e fuori. I ragazzi con il megafono fanno un ottimo lavoro, non lasciando morire i cori e riuscendo a stimolare veramente la maggior parte dei presenti. Tra l’altro, altro punto che la dice lunga sul potenziale di questa piazza, presenti davvero tanti ragazzi (anche qualche bambino), a riprova che una serie di annate buone a livello sportivo potrebbero creare una generazione su cui far poggiare le basi per il futuro. L’ho già detto e lo ripeto, questo forse resta il limite più grande per il movimento ultras siciliano. Ci sono piazze grandi, con una storia e un seme ultras esistente ma magari cristallizzato da anni, che tuttavia all’occorrenza riescono a riaccendersi, salvo poi sprofondare con le disavventure del proprio club. In questi anni – e chi osserva con attenzione la scena locale e nazionale lo sa – abbiamo spesso visto belle realtà come Sciacca in splendida forma; in passato luoghi come Mazara, Marsala, Alcamo e chissà quanti ne dimentico, erano contraddistinti da un tifo organizzato davvero notevole. Centri che ovviamente – e qua abuso ancora di questo paragone – non hanno una densità di popolazione come l’area vesuviana e che, in una regione davvero grande e complicata per gli spostamenti come la Sicilia, spesso muoiono sul nascere proprio per la mancanza di tutto quel “materiale” che altrove funge da propellente per la vita e la durata di gruppi e curve.
Tornando alla performance dei nisseni, invece, poco da dire: novanta minuti ben fatti. Con un’intensità impeccabile e una voglia di farsi sentire forte e palese. Sì, è vero, qualcuno potrà dire che da primi in classifica e nella giornata più importante della stagione è tutto più facile. Vero? Falso? Non lo so, ma penso di aver acquisito un minimo di intuito per dire che se si lavorerà bene, a partire da questa base, qualcosa di buono si può ricavare. Certo, questo è un mio giudizio, da persona che ormai si avvia verso i gli “anta” non riesco ad apprezzare appieno tanti risvolti moderni, spesso dettati da trending topic dei social, ma di contro mi rendo pure conto che quando avevo vent’anni, chi all’epoca ne aveva quaranta magari non sopportava alcune “nostre” fisse. Tutto sta nella tolleranza, nel dialogo e nel voler smussare alcuni aspetti, senza fossilizzarsi in maniera oltranzista sui propri punto di vista (ma, ovviamente, mantenendo invalicabili alcune visioni, alcuni valori centrali).
Posto che in uno stadio del genere è quasi impossibile sentire in maniera nitida da una parte all’altra il tifo delle curve, quando mi porto sotto i favaresi confermo l’idea che mi stavo facendo vedendoli da lontano: ottima prestazione anche qui. Tanta voce, tante mani, bandiere sempre in altro e una bella sciarpata nella ripresa. Anche tra le loro fila molti ragazzi e la speranza che si riesca a dare continuità, anche al cospetto di tutti i problemi che questi piccole piazze della “periferia” siciliana possono avere (non dimentichiamoci mai che parliamo di posti spesso “svuotati” dall’emigrazione). Sta di fatto che raggruppati dietro le insegne della Curva Nord, gli ultras gialloblù sfoggiano tutto il loro repertorio – compresi diversi fumogeni e alcune bombe – e alla fine esultano quasi increduli per una vittoria che arriva in rimonta e che riapre incredibilmente il campionato, portando la Pro Favara a sole tre lunghezze dalla Nissa. L’apoteosi, nella tana del nemico che era già pronto a fare festa, è ovviamente comprensibile e si protrae per diversi minuti dopo il fischio finale. Tanto che alla fine lo speaker è costretto a invitare i tifosi favaresi a lasciare il proprio settore, cosa che i gestori dell’ordine pubblico hanno previsto prima del deflusso casalingo (allora quando si vogliono evitare problemi i modi ci sono? Vero signor Questore di Siracusa? Tanto per citare una figura a caso).
La sconfitta, forse inaspettata, non intacca comunque l’umore della curva biancoscudata, che a fine gara chiama a gran voce la squadra sotto al settore con l’intento di rinfrancarla e ricordarle che la Nissa è ancora prima in classifica e da loro dipendono le sorti del campionato. Un applauso che alla fine contagia tutto lo stadio: credo che più di qualcuno – a prescindere dal risultato – abbia apprezzato questa domenica e, chissà, la speranza è che magari si senta pronto a ripetere l’esperienza nel prossimo futuro. Mi godo anche io gli ultimi sgoccioli di questo pomeriggio, mentre il freddo comincia a farsi sentire e mi ricorda di non avere poi tantissimo tempo in vista del pullman che partirà alla volta di Catania alle 18:15, soprattutto perché dovrò farla a piedi fino al capolinea dei pullman. Mi concedo un ultimo giro in tribuna, per ammirare lo stadio dall’alto e avere un’ultima visuale della mia esperienza nissena. In fondo avevo cerchiato in rosso sul calendario questa partita e le aspettative sono state ampiamente ripagate. Tendo a suddividere le annate per regioni e questa sto cercando di dedicarla alla Sicilia, anche se rimane sempre un luogo insidioso sia da raggiungere che nel programmare partite in base a presenze, divieti e orari. Ma quando ti capitano giornate come queste, quando incamminandoti sulla salita che va verso l’autostazione ti lasci alle spalle lo stadio e senti di essere soddisfatto, pensi che tutti gli sforzi fisici e organizzativi siano valsi la pena. E allora riguardi il biglietto che hai preso per la tua collezione e ti senti stupidamente bambino, ancora legato a quelle passioni primordiali e ancora voglioso di scoprire ciò che non conosci.
Adesso il pullman è partito e percorre al contrario la strada fatta in mattinata. La mia giornata non è finita, c’è un Catania-Monopoli ad attendermi. Chiudo gli occhi per un po’ di riposo, sapendo già che sarà sufficiente per ricaricare le energie e sentire l’adrenalina quando mi troverò a pochi passi dallo stadio. Ogni chilometro conferma la scelta, ogni metro mi suggerisce di rifarlo!
Simone Meloni