Lo dico francamente: nell’incedere verso lo stadio Olimpico dalla stazione metro Ottaviano un solo pensiero mi tormenta: “Stavolta cosa scrivo su questa partita?”. Fossi ancora un malato calciofilo, attento alle azioni, alla tattica, al respiro dei calciatori, non avrei questo problema. Me la caverei elogiando i venti minuti giocati magistralmente da un Cassano che per poco non regala un insperato pareggio ai suoi, oppure analizzerei l’incapacità realizzativa di una Roma in lenta ripresa, ma ancora lontana da standard ottimali. Però no. A me il calcio, fondamentalmente, non piace più. E più mi ci avvicino, più lo tocco e più ne provo ribrezzo e noia. Certo, se mi metti di fronte una partita di Serie D, o di Eccellenza, la musica cambia: là ancora riesco a intuire che in campo scendono uomini, e non macchine mascherate da metrosessuali più attente a vestirsi in tiro per apparire in questo o quell’altro sponsor televisivo che a segnare per esultare sotto ai propri tifosi. Magari scavalcando la rete per sentirne l’urlo fin dentro i timpani.

No. Non va così. Vogliamo parlare di tifo? Non mi fate ridere, per carità. Se tocchiamo questo argomento mi vengono solo rabbia, sconforto e tristezza. Se penso dove sto andando, se immagino che tra un paio di chilometri entrerò dentro a quell’Alcatraz versione capitolina, mi chiedo come e perché dovrei amare il calcio. Allora chiudo gli occhi e faccio una masochistica opera di nostalgia. La nostalgia è una sensazione infame e infima. Perché ti regala un qualcosa che non c’è più, almeno per qualche minuto, te ne lascia il sapore sulle labbra ma, quando ti riprendi, è come se ti arrivasse una betoniera di cemento in volto. Terribile. E poi, si può vivere di nostalgia o di ricordi? No, non si dovrebbe. Perché facendo ciò si tende a dimenticare il presente e a idealizzare il passato in maniera esagerata e a volte persino patetica.

Mi ritorna in mente un pomeriggio di dodici anni fa. Tanti eh? Era il 2004. All’Olimpico c’erano ancora i seggiolini azzurrini, quelli vetusti, ancor più sporchi di questi, che bastava un’esultanza o un calcione per toglierli (ancora ricordo gente uscire con i seggiolini in mano dopo una finale di Coppa Italia con l’Internazionale). C’era il sole nonostante fosse dicembre. C’era la Sampdoria, appena tornata in Serie A dopo qualche anno di purgatorio in cadetteria. La curiosità è che quella stagione fu la seconda dell’Ancona in Serie A, e proprio prima del match tra giallorossi e dorici l’Italia fu “spenta” dal grande black-out. Ve lo ricordate? Non c’entra nulla, ma ci tenevo a dirlo. A costo di uscire fuori da una traccia che non ho tutta questa voglia di rispettare.

Insomma, tornando a quel pomeriggio di dicembre. In cui c’era il sole, nonostante il freddo. Il settore ospiti contava ben 3.000 tifosi blucerchiati, con tanto di coreografia al seguito. Spettacolo scenografico proposto anche dalla Sud. Il tutto per una normale partita. La volete rapportare a oggi? Sappiate che questi comportamenti, almeno a Roma, sono stati dichiarati fuori legge e forieri di “illegalità”. Povera Italia. Sì, perché se a Roma c’è l’esaltazione della deriva poliziesca italiana, nel resto della Penisola le cose non vanno poi tanto meglio. Io me lo ricordo come fosse oggi il 7 marzo 2007. Giorno in cui Osservatorio e affini misero in atto tutto quello scellerato protocollo che vietava l’utilizzo di tamburi, megafoni e obbligava i tifosi ad autorizzare il proprio materiale, anche a scopi coreografici. Poi negli anni ognuno ha fatto come meglio credeva. Si sa, in Italia “paese che vai, usanza che trovi”. Sta di fatto che però nel posto in cui viviamo, lanciare un coro col megafono e ritmarlo col tamburo è equiparato a portare una lama e tentare di varcarci i tornelli. Fate voi.

Non ci distraiamo. In quel pomeriggio soleggiato di dicembre i doriani tifarono in maniera esemplare. Ma vennero caricati. Dalla polizia. Pesantemente. Uno di loro fu aggredito da dieci agenti che lo ridussero davvero male. Il motivo? Uno sterile lancio di bottigliette con i tifosi normali della Curva Nord. Ricordo, come se fosse oggi, il corista della Sud che invitò tutti a solidarizzare con i tifosi genovesi scandendo cori contro la polizia. Sapete, l’attuale Questore di Roma ha detto che ai tifosi non è permesso esprimersi contro le istituzioni. Non è possibile oltraggiarle. Ai tempi le oltraggiarono. Le oltraggiammo. Lo feci anche io. Lo rifarei. Perché il mio oltraggio era giustificato dal vile pestaggio di ragazzi che avevano avuto la colpa di scambiare un paio di bottigliette con i loro “avversari”. Un po’ come massacrare di botte tuo figlio solo perché gli è scappata una parolaccia. Ma del resto in Italia non siamo mai stati dei geni sotto questo punto di vista.

Quel pomeriggio passò. Un ragazzo, vicino a me, disse: “Ammazza, che belli i doriani”. Una volta ci interessava. Guardavamo nel settore ospiti, giudicavamo, studiavamo. Pure e soprattutto se erano tifoserie rivali. Perché il rispetto doveva essere alla base di tutto. Ma quel pomeriggio di dicembre ancora non erano arrivati social network e moralismo imperante a distruggerci l’esistenza. E allora un minimo ragionavamo. Uscivamo dallo stadio passando vicino alla Palla e superando Ponte Duca d’Aosta senza che qualcuno ci dovesse aprire cancelloni e prefiltraggi. Fortuna nostra l’abbiamo vista quell’epoca (fortuna mia ne ho vissuto un piccolo pezzetto, vista la mia giovane età, ma almeno l’ho vissuta). Possiamo dire che esisteva.

Se questa sera mi facessero addormentare, proprio mentre il silenzio avvolge le due squadre intente a giocare, e mi facessero risvegliare di soprassalto, indietro di dodici anni, con i 3.000 doriani davanti che saltano e cantano a ritmo dei loro tamburi, colorando il settore con i bandieroni, mentre la Sud canta e accende fumogeni, forse piangerei per la felicità e riprenderei a credere che ha senso amare il pallone mentre rotola oppure sentire il blocco allo stomaco quando l’attaccante avversario, con la tua squadra avanti di un gol, al 93′ entra in area, calcia a botta sicura ma tira alto di due centimentri. E il tuo stomaco si sblocca e senti solo il triplice fischio dell’arbitro. Ma non si può. Quando eravamo piccoli usavamo la penna per riavvolgere il nastro delle cassette. Oggi con la penna siamo costretti a scrivere quanto questa società, questo pallone e questo mondo del tifo siano diventati anonimi, grigi e malinconici.

Testo Simone Meloni.
Foto Cinzia Lmr e Lorenzo Contucci.