Renato Cesarini. Un calciatore che, segnando negli ultimi minuti di gioco, è diventato un modo di dire. La famigerata zona Cesarini, termine abusato e di cui forse, in molti, ignorano la reale primogenitura.

Che poi a dire zona Cesarini verrebbe da pensare che chissà quanti goal negli ultimi scampoli di partita avesse segnato il buon Renato… e invece – incredibile a dirsi – Cesarini siglò, nella sua carriera, soltanto quattro reti nei minuti finali, tre in incontri di campionato della massima serie (rispettivamente contro l’Alessandria nel 1931, contro la Lazio nel ’32 e contro il Genoa nel ’33) con indosso la maglia della Juventus e uno (il più importante) lo mise a segno il 13 dicembre del 1931 al mitico Stadio Filadelfia di Torino vestendo le insegne della nostra Nazionale contro l’Ungheria (3-2 il risultato finale che arrise ai colori azzurri) che all’epoca rappresentava una delle migliori selezioni del mondo e che si contendeva contro l’Italia (e contro Cecoslovacchia, Austria e Svizzera) la cosiddetta Coppa Internazionale che in pratica fu un’antesignana del Campionato Europeo per Nazioni e che raccoglieva all’epoca il meglio del Calcio dell’Europa Centrale, trofeo che la nostra Nazionale si aggiudicò per due volte (nel ’30 e nel ’35) e che si disputava con la classica formula dei gironi all’italiana, con partite di andata e ritorno.

Un goal importantissimo ma che sarebbe divenuto immortale soltanto una settimana dopo e per merito d’un noto giornalista sportivo dell’epoca, Eugenio Danese (che fu una sorta di “patriarca” del cosiddetto Calcio dei numeri – fatto di tabellini e statistiche – e a cui va anche attribuito il merito dell’introduzione della moviola nello sport) che in occasione dell’incontro di campionato Ambrosiana Inter-Roma, per il goal del definitivo 2-1 che sancì la vittoria dei nerazzurri sui capitolini a opera della rete del calciatore Visentin siglata al minuto 89, scrisse che quella marcatura era stata messa a segno in zona Cesarini. Ancora non lo si sapeva, ma quell’espressione avrebbe fatto epoca ed è ancor’oggi un modo di dire, usato e conosciuto da tutti e ch’è indifferentemente adottato anche al di fuori dell’ambito calcistico e sportivo in genere, tanto da esser stato inserito nel più noto dei vocabolari della lingua italiana, lo Zingarelli.

Renato Cesarini nasce nel 1906 a Senigallia da genitori italiani (il padre era calzolaio) ma quando non ha ancora compiuto un anno di vita, emigra (come milioni di nostri connazionali dell’epoca) coi suoi genitori in Argentina in cerca di fortuna. Sono tempi duri per la famiglia Cesarini che si stanzia nel cosiddetto barrio Palermo di Buenos Aires, uno dei quartieri più grandi e popolosi della città. Per un po’ il giovane Renato segue le orme paterne, riparando scarpe, ma ben presto sente che quella non è la sua strada. Scopre d’avere sorprendenti doti funamboliche e acrobatiche (facoltà che gli sarebbe rimasta e ch’avrebbe successivamente sfoggiato durante le esultanze a seguito dei propri goal), pare che fosse addirittura stato scritturato da un circo, finché inizia a giocare al Calcio e appena diciottenne viene schierato tra le fila del Chacarita Juniors, club espressione della cittadina Villa Maipú non molto distante dalla metropoli Buenos Aires e che giocava (e credo giochi ancora) con l’inconfondibile camiseta negra, blanca y roja a bastones, ovvero la casacca a righe verticali nere, bianche e rosse che personalmente ho sempre associato al simpaticissimo logo della Permaflex (la nota fabbrica italiana di materassi a molle) con l’omino in pigiama accoccolato in posizione dormiente e con le mani messe a cuscino sotto la testa.

Nel 1930 Renato Cesarini viene acquistato dalla Juventus e torna in Italia quasi venticinque anni dopo la sua partenza, avvenuta quand’era ancora in fasce. È un ragazzo assai diverso quello che torna sul suolo patrio da cui era partito poco più che pezzente: adesso ha moneta e la spende, gli piace vestir bene, pare cambiasse camicia tre volte al giorno, sfoggia una poderosa collezione di cravatte variopinte, dorme in lenzuola di seta. Ama le donne, il tango e la bella vita. La società bianconera che lo aveva acquistato dal Chacarita Juniors cerca di fargli capire – nelle persone del presidente Edoardo Agnelli e del vicepresidente barone Mazzonis – che esiste uno stile Juve a cui attenersi… ma il nostro non ha intenzione di intendere. Fa vita notturna, si dice frequenti case chiuse e maîtresse d’alto bordo, gli piace suonare la chitarra, giocare a poker e fare le ore piccole, tanto da arrivare in ritardo agli allenamenti per via delle numerose feste a cui partecipa e a cui a cui si dice si fosse presentato – una volta – addirittura in pigiama e foulard. Ma in campo è uno dei migliori, sbalordisce e segna, conquistando con le casacche a righe bianconere della Vecchia Signora ben cinque Scudetti consecutivi (dal 1931 al ’35) divenendone al contempo uno dei calciatori più illustri e rappresentativi. Era la cosiddetta Juve del Quinquennio d’Oro, squadra straordinaria per numeri e gioco espresso, inferiore forse soltanto a quella attuale dei sei titoli consecutivi e a quella inarrivabile a cavallo degli Anni ’70/’80 del ciclo Trapattoni.

Fuori dal campo però, Renato Cesarini continua a “provocare” – anticipando di oltre sessant’anni il “divismo” dei nostri calciatori attuali – e a perpetuare uno stile di vita poco in linea con la popolarità e la conseguente “responsabilità” intesa come esempio che sempre dovrebbe contraddistinguere i campioni sportivi con atteggiamenti di sobrietà e moderazione. Cesarini fuma un pacchetto di sigarette al giorno, apre una sala da ballo – una tangheria con musicisti abbigliati da gauchos! – in pieno centro a Torino, in Piazza Castello, gira per la città con una scimmia al seguito (!) e fugge dai ritiri pre-gara svignandosela dalle finestre degli alberghi per andare a far baldoria come il più incallito e indisciplinato dei monelli.

È rimasto celebre un episodio legato alla sua permanenza in casa Juve, quando – durante l’orario di allenamento a cui non s’era presentato – il presidente Agnelli lo “pizzica” in un ristorante e – per fargli intendere chi comandasse – gli fa recapitare dal cameriere una bottiglia di champagne. Per tutta risposta, senza minimamente scomporsi, Cesarini contraccambia con cinque bottiglie (dodici secondo alcuni), sempre di champagne, con allegato un biglietto con su scritto “Domani vinciamo e segno”… cosa puntualmente avvenuta.

Con la Juventus totalizza uno score di 128 presenze in sei stagioni, realizzando 46 marcature. Nella stagione 1935-36 fa ritorno in patria, al Chacarita Juniors, il suo primo amore (dove precedentemente all’approdo in casa Juve aveva comunque già totalizzato la bellezza di 50 goal) fino a vestire, la stagione seguente, la più prestigiosa casacca bianca con riga rossa diagonale del River Plate, uno dei club più famosi e titolati d’Argentina oltre che dell’intero Sudamerica, totalizzando 23 presenze e 7 reti.

Il suo contributo alla Nazionale italiana è sì determinante ma assai breve, 11 presenze e 3 reti (di cui, come visto, la più importante è quella siglata contro l’Ungheria nel 1931). Per il suo temperamento anarchico e libertino, Cesarini non tarda infatti  a entrare in rotta di collisione con la ferrea disciplina imposta dal grande tecnico torinese Vittorio Pozzo, uomo d’altri tempi e princìpi, austero e tutto d’un pezzo, che in quegli anni guida la panchina azzurra e che dispone d’uno squadrone (con Meazza e Piola su tutti) capace di vincere – caso unico nella storia – due Campionati Mondiali consecutivi, rispettivamente nel ’34 e nel ’38. Per quanto descritto poc’anzi – sulla bizzarria e sulla perfetta sintesi genio/sregolatezza compiutamente incarnata da Cesarini – va da sé che non può durare il sodalizio con uno come Pozzo che ha come parola d’ordine “ël travai”, “il lavoro” appunto.

Per via della doppia nazionalità, nel periodo precedente il suo soggiorno in Italia, Cesarini ha anche l’onore di vestire la blasonata casacca albiceleste della Nazionale argentina per due volte, mettendo anche a segno una marcatura.

Dismessi i panni di calciatore, all’età di 34 anni, Renato Cesarini inizia una formidabile carriera da allenatore che non farà rimpiangere quella precedente. Dal 1940 al ’42 siederà sulla panca del River Plate (dove, come visto, aveva indossato anche i panni di calciatore) che con lui diverrà una squadra straordinaria per gioco e risultati da essere soprannominata la Máquina, cioè la Macchina, tanto perfetto e oleato era il suo gioco. Máquina che propugna un Calcio totale – con cinque attaccanti – e che anticipa di decenni moduli e schemi di gioco rivoluzionari di gente del calibro di Cruijff, Sacchi e Zeman. Nella stagione 1946-47 e in quella successiva, Cesarini torna in Italia come tecnico della Juventus. Sono però gli anni del Grande Torino e dunque anche l’eterna corazzata bianconera deve arrendersi allo strapotere granata che soltanto la tragica fatalità di Superga riuscirà a piegare. Comunque in quel biennio, Cesarini ha il merito di condurre in entrambi i campionati le zebre al secondo posto, lanciando al contempo un promettente giovane che avrebbe scritto la storia della Juve stessa e del nostro Calcio: Giampiero Boniperti.

Dopo una lunga parentesi sudamericana, che lo porta lungo quasi tutti gli Anni ’50 a guidare ancora club del suo Paese adottivo (Banfield, Boca Juniors e River Plate) alla fine del decennio, Renato Cesarini ritorna nuovamente in Italia, per la terza volta, ancora alla corte della famiglia Agnelli anche se in qualità di direttore sportivo, affiancando sulla panchina juventina il grande ct Carlo Parola (quello rimasto nell’immaginario collettivo per la mitica rovesciata impressa per sempre sui pacchetti delle figurine Panini) e portando con sé un suo pupillo scoperto in patria da pochi anni e che volle con sé alla Juventus a tutti i costi: Omar Sivori, giocatore straordinario sotto ogni punto di vista, uno dei più grandi di tutti i tempi. Proprio Omar Sivori – un altro che, al pari dell’atleta oggetto di questa chiacchierata, difficilmente si piegava alle logiche del quieto vivere e del formalismo e che mai abbassava la testa difronte ad alcuno – chiamava Cesarini “maestro”.

Un altro significativo aneddoto sul rapporto quasi padre-figlio che ebbero i due fuoriclasse sudamericani riguarda le parole espresse da Sivori il giorno della morte del suo mentore, avvenuta a Buenos Aires nel 1969 per un’embolia al cervello, quando asserì che – secondo lui – Renato Cesarini era stata la persona al mondo più competente di Calcio.

Oltre alla sua figura, quella d’un uomo e d’un atleta quasi sempre sopra le righe, oltre ai suoi goal, alle sue giocate e alla sua innovazione in termini di schemi e moduli apportata al mondo del Pallone soprattutto in qualità di allenatore, ciò che più è rimasto di Renato Cesarini è la sua “filosofia” di gioco e di vita (che spesso si mescolano nello sport in chiave allegorica) . E la famosa zona Cesarini ben si presta a rappresentare un modus vivendi prima ancora che un’ingenua fase di partita. Ovvero la “filosofia” del non mollare mai anche e soprattutto nella vita, del crederci fino all’ultimo secondo, di non darsi per vinti finché c’è ancora un respiro di vita, nella speranza (che talvolta rimane tale ma guai se non vi fosse) che ogni situazione, ogni avversità, ogni oscuro presagio di fallimento possa alfine essere ribaltato, sconfitto, catartizzato.

È questa la “lezione” che ci ha voluto tramandare, forse suo malgrado, il grande Cesarini. Questo il suo lascito finale. Una partita che non è soltanto una squadra contro l’altra, un pallone che non è soltanto una sfera di cuoio che rotola sul manto verde, un goal che non è soltanto una palla che rimbalza in fondo alla rete, ma un Calcio metafora e maestro di vita che diventa la vita stessa e che ci sprona a superare difficoltà di qualsiasi genere e a gettare il cuore oltre l’ostacolo, sempre, o quantomeno di provare a farlo. E quand’anche non dovesse tornarci utile quell’ultimo minuto di gioco o quell’ultimo secondo di recupero per raddrizzare o ribaltare la situazione: domenica prossima ci sarà comunque una nuova partita per riprovarci, ancora tempo e modo di tornare a far vedere agli altri, al mondo, chi siamo. Ci saranno sempre altre storie da raccontare e un’altra zona Cesarini in cui sperare.

Luca “Baffo” Gigli.

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