delvecchiogol“Mi sono comprato uno smartphone di nuova generazione: sai che fine avrebbe fatto con un’esultanza dei bei tempi in Curva Sud? Manco al giorno dopo arrivava”. È il messaggio di un ragazzo a dare il “la” a quest’articolo.

Sulle esultanze è stato scritto parecchio dai calciofili. Perché parlare di un’esultanza è come descrivere un’orgasmo. Anzi, non giriamoci neanche attorno: che cos’è l’attesa di un’esultanza se non essa stessa l’orgasmo?

Poi ho ripensato a quanto è vera questa frase. E a quanto, oltre a esser impregnata del più catartico e grigio realismo, sia l’ennesimo segnale della tristezza che permea ormai sempre più inesorabile non solo il tifoso di calcio, ma un certo tipo di persone. Quelle un po’ più attaccate alle cose di cuore, alle emozioni, restie alla frenesia di tutti i giorni e al rincoglionimento di massa iniettatoci da gran parte della tecnologia, con il successo finale della sterilizzazione del nostro libero, in questo caso ludico, pensiero.

No, una volta quello smartphone sarebbe stato meglio non portarlo in curva. In Curva Sud. Perché io ho ricordi svaniti e sintetici del mio passato, anche quello recente, ma ho ben chiaro in mente ogni singola partita che ho assistito in quello spazio spesso angusto e asfissiante.

Io ricordo bene le entrate “a fiume” nei derby o con la Juve e il poco spazio vitale che trovavi anche con la Reggina o il Brescia. E poi c’è il gol. Il gol è un qualcosa che risulta difficile da spiegare. Per noi non è solo un semplice e asettico punto. L’obiettivo finale del gioco del calcio. Il mezzo per il quale, realizzandone più dell’avversario, si arriva alla vittoria. Ditemi voi, qualcuno ha mai pensato a un gol paragonandolo a un canestro o un set-point della pallavolo o del tennis? È impossibile. Perché anche se siamo stati e siamo amanti di altri sport, il gol è, come detto, un rito orgiastico che forse neanche la migliore pillola anticoncezionale saprebbe bloccare.

A questo punto che regalo vorrei per l’anno nuovo? Facile. Mi piacerebbe riprovare, anche solo per un minuto, quella sensazione. Una sensazione fanciullesca e forse pure idiota, che a Roma hanno trovato modo e maniera (e pure giustificazione, guarda che arrivo a dire) per uccidere. Il divertimento è reato. Ce lo insegnano le mimetiche dei militari in ogni angolo della città, oppure gli sguardi severi di polizia e carabinieri disseminati ovunque, per presidiare la Caserma-Capitale, un luogo dove non si deve vivere, ma difendersi. La sicurezza prima di tutto. Anche delle esultanze, dei cori e degli striscioni. Quelli nuocciono gravemente alla salute.

Eppure vorrei ripercorrere per una sera quel viale ed entrare in Curva Sud. Ancora con la gioia nel cuore, con la tensione dei tempi che furono e con quel pathos che ti prende lo stomaco fino a soffocarti, a buon bisogno. Tutta quella marea umana che marcia verso un’unica direzione. Anni fa, ma parecchi anni fa, lasciai casa della mia ragazza. C’era suo fratello, ancora bambino. Lei volle fargli vedere il mio biglietto della partita e i suoi occhi brillavano. E a distanza di anni, io invidio quegli occhi, perché quelli erano anche i nostri occhi. Gli occhi di tutti i bambini che hanno visto un biglietto dello stadio e poi, fortuna loro, ci sono anche entrati stando in silenzio per 90′ a causa dell’emozione.

Presi la metro quel giorno. Si giocava un Roma-Milan, di Coppa Italia. Col Milan era sempre una gara sentita e si avvertiva sempre quella tensione che ti assaliva già da Piazza Mancini, quando scendevi dal tram. Non era solo una partita di calcio, questo ci è sempre stato chiaro.

Andavo a scuola, i primi anni delle superiori. Ovviamente serate come queste erano il nonplusultra per me. Ah dimenticavo. Non era una gara qualunque. Era la finale, una meta tanto ambita quanto lontana per la Sud e i romanisti in generale. Visto le poche soddisfazioni che il campo ci ha dato. Ecco perché l’Olimpico già un’ora prima del fischio d’inizio si presentava pieno e caldo, scambiandosi con i dirimpettai i soliti complimenti di rito. Ma fermi tutti, il moralismo odierno ancora non aveva preso piede, quindi era tutto sommato lecito. E poi non c’erano militari e gendarmi sotto le metro e a ogni incrocio del centro storico, quindi la città era in generale meno sicura e più facilmente vittima della malvagità umana.

Ma parliamo di esultanze. Perché l’esultanza è vita. L’esultanza è il calcio. È una cosa che unisce il bambino all’anziano in fin di vita. Il mio giacchetto aveva già un paio di toppe, causate dagli zampilli delle torce accese a destra e a manca. C’è un calcio di punizione, manco a dirlo lo batte Totti. La porta è abbastanza distante. Saranno trenta metri. Il tifo era alto, ma in quei pochi secondi che sto per descrivere si abbassa. Si spegne quasi. I piedi della maglia numero 10 si muovono prima lentamente poi sempre più veloci, si ode quel soffice “Ehmmm”, poi la palla supera barriera e portiere e muore violentemente sotto al sette. Lasciate stare la vostra identità di tifosi. Di qualsiasi squadra siete, mi state capendo, lo so. “Gooooooooooooo“, la “L” non viene mai pronunciata. E tutte quelle migliaia di persone che ti cadono addosso. Non è normale. Affatto. Chi, nella società di tutti i giorni, si farebbe cadere addosso per una gioia? Se ricevete una promozione al lavoro o una bella notizia, per caso andare per strada e chiedete ai passanti di saltarvi sopra con il rischio di strangolarvi? Non credo. Forse vi porterebbero nel primo manicomio disponibile.

Invece in curva è, non solo legale, ma obbligatorio. Ho visto ragazzi rialzarsi con labbra e nasi sanguinanti o facce che la dicevano tutta sullo stato delle loro ossa. Eppure strillavano ancora. Più forte. E non per ammortizzare il dolore. Gridavano perché non lo sentivano proprio, tanta era la gioia e il trasporto.

Quella sera mi ritrovai almeno dieci file sotto, quasi in balaustra, dove nel frattempo diverse torce erano state accese, ovviamente bucando ancor più il tessuto del mio cappotto. Per buona pace degli improperi familiari.

Sapete come finì? 4-1. Per il Milan però. Eppure a quasi tredici anni di distanza ciò che mi è rimasto di quella serata è quella caduta libera in mezzo ai folli tifosi di calcio. Una follia smorzata nella Capitale. Su ambo le sponde. Sud e Nord. Unite per una volta nella loro storia. A riprova di come di la morte sia uguale per tutti. A Roma non solo è morto il tifo. Ma è morta la gioia di vivere lo sport e la città di tutti i giorni. Colpita dalla pesantezza con cui le istituzioni hanno lavorato sapientemente negli ultimi tempi.

La mia è un’utopia. Un sogno che forse potrò rivivere solo di notte. Ma sarebbe bello se per una volta tutti rientrassimo in Sud con i nostri Smartphone, attendendo un gol che ci faccia rotolare l’uno sull’altro e rompa in mille pezzi i nostri aggeggi tecnologici. Perché non varranno mai quanto quelle emozioni. Uniche e irripetibili.

Simone Meloni