Come detto in altre occasioni, in questo periodo storico meglio non farsi passare davanti un derby o una sfida segnata da una sentita rivalità in cui possono presenziare entrambe le fazioni. La normalità non è più cosa del nostro mondo e ormai il fattore sorpresa è paradossalmente rappresentato da una trasferta aperta. Figuriamoci se poi sono due, una di seguito all’altra, come in questo caso. Gli aretini, infatti, ritornano al Curi a cinque giorni dalla sfida di campionato. Dopo ben tredici anni di assenza forzata dall’impianto umbro. E questo è quanto basta a farmi mette in marcia sulla E45, con destinazione finale Perugia. Quello tra biancorossi e amaranto è uno di quei derby di cui ho sempre sentito parlare sin da piccolo. Uno di quei confronti che hanno reso l’Italia degli stadi celebre in ogni parte d’Europa, rimarcando la nostra anima contradaiola e il nostro spirito campanilista. Il Derby dell’Etruria – volendo far riferimento alla porzione di terra che in età augustea ospitava entrambi i comuni – richiama a epiche battaglie ma anche a un’epoca in cui le rivalità nascevano spontaneamente e crescevano negli anni, ogni qual volta ci si affrontava. Senza programmare nulla e senza darsi appuntamento sui social, come sovente avviene oggigiorno anche per ovviare all’annosa croce dei divieti che ormai flagella ogni turno di campionato o coppa.
Il centro del nostro Paese, il suo cuore verde diviso tra Umbria, Toscana, Lazio e Marche, è da sempre un susseguirsi di inimicizie e strenue difese anche di piccoli appezzamenti di terra. Perugia e Arezzo sono divisi da soli novantacinque chilometri. Una distanza percorribile in poco più di un’ora, lambendo le sempre fascinose sponde del lago Trasimeno. Quasi logico, dunque, che tra le tifoserie non corra affatto buon sangue. E non soltanto perché nel medioevo Arezzo si professava Ghibellina e Perugia convintamente Guelfa, ma anche perché questa divisione si è lentamente espansa a macchia d’olio, permeando le menti delle rispettive cittadinanze e instillando il germe del campanilismo. Una contesa che si trasferirà ufficialmente sul manto verde dei campi di calcio nel 1975, al termine della sfida che al vecchio Santa Giuliana di Perugia vide gli umbri sconfiggere per 3-2 gli avversari, approdando per la prima volta il massima divisione e condannando i toscani alla Serie C. Un “tradimento” secondo questi ultimi, dato che l’anno precedente la loro società aveva testimoniato in favore di quella biancorossa, accusata di aver provato a comprare la partita contro il Parma (nello stadio della città ducale venne rinvenuta una valigetta con venti milioni di Lire). La testimonianza dell’allora presidente Montaini evitò al Grifo la retrocessione d’ufficio in C e, probabilmente, più di qualcuno l’anno dopo si aspettava un trattamento di favore in riva al Tevere. Cosa che non avvenne, accendendo definitivamente l’acredine.
Un’odio che si è tramandato di generazione in generazione. Oggi, nell’era del proibizionismo sfrenato, per un ragazzo poco più che maggiorenne può risultare difficile – se non impossibile – vedere “in faccia” almeno una volta il suo rivale storico. Un dato di fatto che va (forse appositamente) contro il trend che negli ultimi anni registra un importante ricambio generazionale all’interno dei nostri settori popolari e che rischia, nel giro di pochi anni, di appiattire definitivamente il nostro piccolo grande mondo, già di suo estenuato da quasi vent’anni di lapidazione sistematica (oltre che mediatica e repressiva). Anche in questa occasione, come per il campionato, sebbene la trasferta agli aretini sia stata aperta senza obbligo di viaggiare in pullman organizzati dalla questura, la stessa è strettamente legata al possesso della tessera del tifoso. Elemento ostativo ritornato ampiamente in auge nel dopo Covid e usato ormai come arma per non far viaggiare le tifoseria. L’assioma è il seguente: se hai la tessera chiudo il settore in base alla tua provenienza geografica, se non ce l’hai permetto di comprare il biglietto ai soli tesserati, così non mi puoi dire che ho vietato. Però, gira che ti rigira, tu, ultras, allo stadio non ci metti piede! Ormai il giochino è chiaro e collaudato. Motivo per il quale anche la frase “eh ma se avessi avuto la tessera del tifoso…” risulta invecchiata male.
Tornando alla sfida del Curi: rispetto ai 440 biglietti venduti cinque giorni prima, oggi sono 199 i tagliandi staccati ad Arezzo. Fatta la proporzione con le limitazioni e con una competizione che ha una valenza sportiva pari allo zero, il numero si può considerare discreto. Del resto basta guardarsi intorno in occasione di queste gare: salvo in alcune semifinali e nella finale, gli stadi sono sempre, desolatamente, vuoti (oggi il dato ufficiale parla di 1.591 presenze). Con il solo zoccolo ultras a presenziare. Il che fa tristemente ridere se si pensa alla meticolosità con cui la Serie C parla di diritti televisivi, immagine e prestigio di un campionato dal livello tecnico pari a quello degli oratori in cui tutti siamo cresciuti negli anni ottanta e novanta. Ma non voglio infrangere i sogni e le convinzioni di chi racconta queste favolette, quindi contenti loro che ci credono… contenti tutti!
Con il calcio d’inizio fissato alle 20:30 e la strada che corre tutto sommato vuota e veloce, raggiungo il parcheggio dello stadio con lauto anticipo. Tanto da potermi permettere di entrare in tutta tranquillità e osservare il lento ingresso alla spicciolata prima degli ospiti e poi della curva di casa. Oggi quello che conta è la sostanza, chi ama folle oceaniche o giudica il contenuto di una partita in base alla capienza, ha fatto bene a rimanere a casa. Quando le squadre fanno il loro ingresso in campo, perugini e aretini hanno già cominciato a “beccarsi” da qualche minuto. La Nord leva le sciarpe al cielo, sventolando i propri bandieroni e accendendo qualche torcia, mentre gli aretini – come loro consueto – colorano il proprio settore con una miriade di stendardi, bandierine, qualche bandierone e un discreto utilizzo della pirotecnica. Come detto le due fazioni non se le mandano a dire e ciò che più apprezzerò delle due sfide ravvicinate, sarà la costanza di insulti, cori e striscioni che gli uni dedicano agli altri. Una serie di atteggiamenti fortunatamente “normali”, che richiamano alle altrettanto “normali” domeniche di qualche lustro fa, dove la regola minima di queste sfide era la goliardia e lo sfottersi su principi territoriali radicati da decenni, se non da secoli. Decido di passare un equo tempo sotto ogni settore, per avere una migliore percezione delle rispettive performance e godere appieno gli umori dei presenti. Il bello di queste partite è che non ci trovi mai il moderno calciofilo munito di statistiche relative ai calciatori o intento a dare consigli tecnici all’allenatore e disquisire con il vicino di quanto il 4-4-2 simmetrico non sia conforme ai componenti della rosa. Qua al massimo ci trovi il tifoso che bestemmia per il gol subito e trenta secondi dopo è intento a seguire ancora più forte il coro lanciato dal megafono. Ci trovi l’essenza. Almeno ciò che ne rimane.
La Nord perugina si raggruppa tutta nella parte centrale, sopra gli striscioni storici dei gruppi, rendendosi protagonista di una bella prova per tutti i novanta minuti, malgrado la sconfitta che matura in campo. Gli ultras del Grifo, come sempre molto attenti alla sostanza, nonché a tenere alta la disputa con i dirimpettai, colorano il proprio settore con diversi bandieroni e stendardi, facendosi sentire a più riprese con fragorosi battimani per la squadra e contro gli aretini. Durante i 90′ espongono un paio di striscioni in risposta a quelli mostrati dai rivali in campionato, dando un bel filo continuativo alle due gare ravvicinate e onorando appieno il confronto. Stessa cosa si può dire dei toscani: per loro, oltre al consueto colore e al materiale curato fino ai minimi dettagli, va evidenziato un tifo compatto e costante, che viene premiato dal secondo successo ottenuto nella sua storia dall’Arezzo al Curi (l’ultima volta era datata addirittura 1986). Le due reti che permettono agli amaranto di espugnare Pian di Massiano vengono festeggiate con l’accensione di diverse torce, seguite da cori tenuti a lungo e potenti battimani. Una performance che è sicuramente fomentata da una vittoria che riesce in parte a cancellare la brutta serata patita in campionato. Dopo il triplice fischio c’è innanzitutto tempo per le due squadre sotto ai settori, momento seguito dal “terzo tempo” (vi ricordate quando leghe e Federazione hanno provato a imporci pure ‘sta buffonata presa in prestito dal rugby?!?) rivisitato in salsa ultras: ultime offese, uno striscione ironico esposto dagli amaranto (“Ma quando”) ai cori provocatori dei biancorossi e schermaglie che resto volentieri a osservare, prima di riporre tutta l’attrezzatura e lasciare il campo, nel frattempo diventato poco ospitale tra freddo e umidità.
Non sono fatalista o complottista di natura, ma penso di avere un barlume di ragione per cogliere alcune, tristi, sfumature che aleggiano attorno al nostro mondo ormai da qualche tempo. So che aver assistito due volte in cinque giorni a questo derby non è affatto scontato e so bene che esiste la possibilità – neanche tanto remota – che non venga mai più giocato alla presenza di entrambe le tifoserie. Per quanto ciò mi affligga e colpisca nettamente una mia grande passione, il nostro piccolo, complesso, controverso e meraviglioso universo, ho capito che devo cominciare a farmene una ragione e vivere l’essenza di quello che resta. Le ultime gocce. Un po’ come se gli ultimi fiumi utili a irrigare i campi si stessero prosciugando e noi fossimo coscienti di poter portare a tavola le ultime colture, prima di rimanere senza. E dover cercare cibo altrove. Benché non sarebbe uguale per l’alimentazione e la vita di tutti noi. Così come non sarebbe la stessa cosa dover dirottare le proprie passioni altrove. Anche perché questa degli stadi, degli ultras, ha il grande pregio di convogliare tutta una serie di sottogruppi delle mie passioni (scrittura, storia, geografia, viaggi, rapporti interpersonali, crescita intellettiva, antropologia etc etc) e unirle sotto un unico comune denominatore. Se è vero come uomini ci adattiamo a tutto, è giusto avere l’intelligenza di capire quando un percorso è seriamente a repentaglio e tutte le sue sfaccettature sono avversate da un potere troppo più grande se messo in moto per bene. Magari rimarrà solo una mia spunta pessimistica, me lo auguro. Intanto posso raccontare questo Derby dell’Etruria. E la cosa momentaneamente mi appaga!
Simone Meloni