Da più di un anno aspettavo questo momento: da quando, lo scorso anno, il derby di ritorno tra Perugia e Arezzo si giocò senza gli amaranto, per via delle assurde restrizioni che obbligavano la tifoseria ospite (come per la gara d’andata disputata in Toscana) a viaggiare su pullman organizzati e gestiti dalla Questura, violando palesemente qualsiasi principio relativo al libero spostamento sul territorio nazionale, “teoricamente” garantito dalla Costituzione. Venerdì, finalmente, quel momento è arrivato, e non ci ho pensato due volte: stacco prima da lavoro, salgo in macchina e mi dirigo verso il “Renato Curi”, pronto a vivere una serata speciale. Il viaggio scorre piacevole, con il tramonto che lascia spazio al buio di una fredda serata di novembre. Durante il tragitto, i pensieri sono già rivolti alla partita, ma soprattutto a ciò che questo derby rappresenta. Perugia e Arezzo, due città con una storia millenaria, che condividono radici etrusche e una rivalità che si è tramandata di generazione in generazione. Non si tratta solo di calcio: è un campanilismo che affonda la sua essenza in una competizione culturale e territoriale, alimentata nel tempo e che ancora oggi trova nel calcio il suo terreno più autentico. Prima di entrare nello stadio, mi concedo un giro nel museo del Perugia, una tappa obbligatoria per chi vuole capire davvero cosa significhi vestire il biancorosso. Un luogo affascinante, che racconta la storia di questa società: dagli imbattibili di Castagner agli anni d’oro delle competizioni europee, passando per l’amore viscerale di una piazza che vive il calcio con passione.
Si gioca nuovamente questa partita dopo anni di restrizioni che avevano privato le curve di quella presenza che dà senso alla rivalità. Durante il periodo Covid, le tribune erano rimaste vuote. L’anno scorso, come accennato in precedenza, le istituzioni hanno imposto regole insostenibili: prescrizioni che indussero la tifoseria aretina ad agire legalmente – come era avvenuto già qualche settimana prima per la trasferta di Pesaro -, inoltrando ricorso al TAR, che tuttavia venne respinto. Quest’anno le cose sono andate diversamente, e finalmente il “Curi” ha potuto ospitare entrambe le fazioni, seppur con l’obbligo di tessera del tifoso per i toscani. Una concessione che ha permesso loro di organizzarsi liberamente e tornare a popolare il settore ospiti, in netta contrapposizione a quanto accaduto appena due settimane fa nel derby tra Perugia e Ternana, quando ai tifosi rossoverdi è stato imposto nuovamente l’obbligo dei pullman. È evidente che esista un distacco crescente tra il mondo delle istituzioni calcistiche e quello delle tifoserie, un conflitto che si riflette in queste serate e in certe decisioni. Questa distanza si percepisce in moltissime sfumature, vedasi la scelta di ignorare le tragedie che toccano direttamente il mondo degli ultras, come la recente scomparsa del giovane Samuele. Una distanza culturale prima che organizzativa. I minuti di silenzio vengono spesso dedicati a figure estranee al calcio, mentre chi vive lo sport da protagonista, sugli spalti, non riceve la stessa attenzione. È un paradosso tutto italiano, specchio di un sistema in cui il potere sembra disinteressarsi completamente del tessuto sociale e umano che sostiene questo sport. In tal senso, ci hanno pensato come sempre le due curve a dedicare un pensiero a Samuele e gli altri 3 ragazzi foggiani che non ce l’hanno fatta.
Eppure, in queste serate, emerge un’altra faccia del calcio. Quella lontana dalle pay TV, dai popcorn sul divano e dall’omologazione di un calcio sempre più prodotto da vendere. Qui si vive ancora il football nella sua forma più pura: è passione, è goliardia, è appartenenza. È la voce di una curva, il colore di una sciarpata, il brivido di un coro che unisce centinaia di persone. È la risposta tangibile a chi pensa che il calcio sia solo spettacolo da consumare davanti a uno schermo. In Serie C, e in serate come questa, si riscopre l’essenza vera di questo sport. Non importa il risultato o la categoria: ciò che conta è l’esperienza, quella sensazione di vivere qualcosa di autentico, non ancora contaminato dalle logiche di mercato che stanno seppellendo le leghe maggiori sotto montagne di diritti TV.
L’atmosfera è di quelle che lasciano il segno. Il settore ospiti, con 440 tifosi aretini, si accende in una spettacolare torciata al momento dell’ingresso in campo delle squadre, con lancio delle stesse nel rettangolo di gioco. Non mancano cori di scherno e fumogeni, a sottolineare quanto sia sentita questa sfida. Sul fronte opposto, la curva perugina risponde con una sciarpata che avvolge la Nord in un mare biancorosso. Un botta e risposta continuo, fatto di cori, bandiere e provocazioni, che rende questa partita un evento stimolante anche per chi come me la guardava da esterno. In campo, il Perugia impone il proprio gioco sin dai primi minuti. La rete del vantaggio arriva dopo un quarto d’ora, premiando un avvio arrembante del Grifo. Dopo il gol, la squadra di casa controlla con autorità, concedendo poco all’Arezzo, e chiudendo i conti nel recupero del secondo tempo con il gol del 2-0.
La partita è finita, ma il suo significato resta. Perugia-Arezzo non è solo un derby: è una testimonianza di ciò che il calcio dovrebbe sempre essere: passione, rivalità, identità. È il calcio che resiste, che ancora riesce a essere un rito collettivo, capace di unire e dividere con la stessa intensità. In un’epoca in cui lo sport sembra sempre più una merce da vendere, partite come questa ci ricordano che quanto sia fondamentale lo spettacolo vissuto sugli spalti, tra cori e bandiere, dove la gente continua a raccontare la propria storia attraverso i colori della propria squadra. E per fortuna c’è ancora chi, in una fredda sera di novembre, prende posto sulle gradinate per ricordarcelo e raccontarcelo!
Testo Marco Meloni
Foto Marco Meloni e Simone Meloni