Come sostengo spesso (scherzosamente, meglio specificarlo vista la ridda di moralisti) ho pochi pregiudizi ma ben solidi, e li coltivo con ostinazione perché più volte mi hanno salvato la vita. Uno di questi riguarda la pallacanestro e il suo tifo, verso i quali ho sempre nutrito parecchie riserve. Questo fine settimana però, l’amico Simone decide di lambire la Romagna con le sue incursioni da instancabile mitomane, per cui, dopo la sua presenza al derby Fano-Vis Pesaro, ci diamo appuntamento per VL Pesaro-Pistoia del massimo campionato italiano di basket, a pochi km da casa mia. Conoscendo la mia idiosincrasia verso la palla a spicchi, questa è una dichiarazione d’amicizia non indifferente che avrebbe meritato il dono del biblico vitello grasso, ma mi faccio bastare la birra e la possibilità di intrattenere discorsi surreali con il mio amico formato tascabile.
Sempre nell’ottica della scarsa predilezione, prima di guadagnare l’ingresso, mi perdo in saluti e convenevoli con Antonio, un altro dei nostri di ritorno da Fano offertosi di accompagnare Simone a Pesaro. Ingenuamente credevo che la palla a due sarebbe stata scodellata alle 18:30 e quando entriamo becchiamo l’evento giusto per il rotto della cuffia.

Individuata la postazione migliore tra quelle rimanenti, piazziamo tutta la nostra attrezzatura e ci immergiamo in questa partita. A Simone il compito di realizzare qualche video, mentre io cerco di focalizzarmi sulle immagini che mi si parano davanti, immortalandole fotograficamente e fissandole per il mio racconto posteriore.
Per prima cosa l’occhio, quasi per deformazione, mi cade verso il settore ospiti. I pistoiesi saranno un centinaio o poco più. Un “numerone” considerando le mie esperienze precedenti alla Adriatic Arena. Per l’idea che mi ero fatto dei pistoiesi, in base al materiale che riceviamo in redazione dalla loro città, avevo delle aspettative molto alte. Forse non conoscendo a fondo la pallacanestro, mi aspettavo addirittura di più numericamente, memore anche di una loro presenza stratosferica a Bologna, ma dal punto di vista della qualità devo dire che non rimarrò affatto deluso.

A rappresentare i pistoiesi c’è lo striscione della “Baraonda”, oltre ad altre sigle minori quali i “Paranoids” ed una serie di pezze di varia natura, tra queste una del Granducato di Toscana sulla quale io e Simone ci lambicchiamo per un po’ prima di venirne a capo. Restando in considerazioni di tipo estetico, il loro tifo è limitato a ciò che uno spazio chiuso come un palazzetto consente, quindi qualche bandierina che sventola più insistentemente, oltre ad un paio di bandieroni, molto belli ma che appariranno più episodicamente. Coreograficamente i loro battimani sono un valore aggiunto in questo senso mentre, avanzando ulteriormente a considerazioni sul tifo vero e proprio, non si può che far loro i complimenti per la continuità e i bei picchi di potenza espressi.

Il ritmo ospite (come quello dei tifosi di casa) è inoltre cadenzato dal suono di un tamburo che, sembrerò pure noioso a ripeterlo, sentirlo non mi stanca mai e mi fa cedere sempre alla malinconia del tempo andato. In barba a chi ha conosciuto solo la schiacciante omologazione del tifo moderno e ritiene pacchiane le espressioni dello stile italico, solo perché non acquistabile lautamente come i capi di alta sartoria inglese (prodotti in Cina o nel sudest asiatico) che fanno tanto “status symbol”.
Il repertorio canoro sarà molto aderente al classico canone calcistico, compresa qualche sortita su tormentoni tipo quelli di ispirazione sudamericana o il “Da quando sono al mondo…” che, sempre per pregiudizio, odio a morte. Eppure, per onestà della cronaca, devo ammettere che lo eseguono in maniera esemplare.

Venendo ai padroni di casa, passando qua di tanto in tanto, li trovo nuovamente cambiati dalla mia ultima visita: lo striscione “Vecchia Guardia” ha lasciato il campo ad un “Pesaro 1946”, più qualche piccola pezza ai margini che aggiunge una piacevole nota di colore. Colore irrobustito da un paio di bandiere, oltre ad un altro paio di bandieroni (molto bello quello dedicato al compianto Alphonso Ford) che, oltre all’uso meramente “di supporto”, assumono valenza di disturbo, venendo sventolati freneticamente per deconcentrare gli avversari in lunetta.

Il palazzo è positivamente pieno e presenta pochissimi spazi vuoti. Bella questa prova di affetto e vicinanza alla propria squadra in un momento non di certo esaltante. A dispetto di ciò, lo zoccolo duro che alla semplice presenza fisica aggiunge anche il tifo vocale, è molto risicato. La macchia di t-shirt rosse al centro della curva è, verosimilmente, addirittura inferiore quantitativamente all’opposta fazione, ma molto generosamente i ragazzi non lesinano impegno, riuscendo a tenere testa agli avversari perlomeno in continuità.

I primi due quarti si giocano testa a testa, tanto sul parquet quanto sugli spalti, dove onestamente gli ospiti prevalgono leggermente, ma al contempo non mi sento di imputare colpe ai Pesaresi che – come detto – danno fondo a tutte le loro energie per fronteggiare i pistoiesi e dare forza alla propria compagine la quale, sul campo di gioco, sembra ricambiare mettendo la stessa identica passione su ogni palla.

Dopo l’intervallo lungo alla fine del secondo quarto, quando l’americanizzazione becera di questo sport tocca l’apice esattamente come il mio disgusto, il terzo quarto segna in certo qual modo una svolta. Non è tanto l’equilibrio della gara a cambiare, con Pesaro e Pistoia che se la giocano sempre punto su punto, quanto quello del tifo. In questa terza parte di gioco, infatti, “Baraonda” e soci capiscono che è il momento di tirare fuori gli artigli e colpire. I loro decibel si elevano al fine di suonare la carica al quintetto e prendere definitivamente il largo. Più che per merito dei toscani, la contesa cambia per demerito dei padroni di casa, che spero non me ne vogliano per la schiettezza di questo mio giudizio seguente mosso da assoluta sincerità.

Cruciale è una contestatissima decisione arbitrale verso la fine di questo terzo quarto, decisione che porta il tifo pesarese a scendere in massa sotto canestro. Gli attimi immediatamente successivi sono veramente molto caldi, il fiato sul collo e la rabbia si trasmettono concretamente sul parquet, ma poi la tensione va man mano scemando anche grazie al cronometro che esaurisce il suo conto alla rovescia.

Il cuore del tifo biancorosso, forse tradito dal buon riscontro iniziale, si intestardisce nella scelta e rimarrà a bordo campo fino alla fine. Esaurita la carica agonistica, verranno però fortemente penalizzati dalla logistica: isolati in basso e distanti dalla loro curva ormai semi vuota, tanto che li si nota solo per alcuni battimani e qualche coro secco. Molto poco, troppo poco ed è oltretutto un vero peccato perché la loro VL riesce, con il solito grande orgoglio, a non mollare un buon parziale avversario e rimettere in discussione tutto ancora una volta. Proprio in questo momento sarebbe stato decisivo incendiare il catino e infondere nella squadra fiducia ed energia per capovolgere il destino. Invece, come detto, giusto qualche coro e qualche manata dispersi dallo stesso isolamento in cui hanno scelto di cacciarsi.

In tutto questo, da habitué degli stadi, ambienti di gran lunga più esasperati dei palazzetti, mi ha stupito in positivo il comportamento delle forze dell’ordine: schieratesi a cordone per arginare la discesa verso il parquet, si limitano a controllare senza provocazioni e senza ergersi a improbabili risolutori. Alfano e la sua accolita di rancorosi (kapò di polizia, istituzioni calcistiche e politiche varie, servi mediatici, ecc.) dovrebbero portare qua le loro armate di Robocop e i loro castelli di carte repressive: laddove da cinquanta anni non può il loro approccio militaresco, la miopia idiota di (tentare di) eliminare violenza muovendo altrettanta violenza uguale e contraria, potrebbe sicuramente meglio un minimo di buonsenso.

Quando soluzioni così semplici e lampanti non vengono rincorse, legittimo è il dubbio che la perpetuazione isterica dello stato d’emergenza, sia atta solo a raccogliere facile consenso. D’altronde la pochezza morale del nostro paese è perfettamente riassumibile nella pochezza morale dei nostri rappresentanti politici, che inventano verità per propaganda. Ipocrita, meschina ed immorale come quella che da sempre cavalcano quando gonfiano il petto parlando con grave tono da baritoni di “violenza negli stadi”.

Tornando alla cronaca, Pistoia sguazza e giganteggia davanti alla possibilità del monologo, mentre sul “legno”, grazie anche ad un po’ di mestiere, ha la meglio su una Victoria Libertas che non ha affatto demeritato, giocando con il coltello in mezzo ai denti fino alla sirena finale. Non posso dire (purtroppo) altrettanto della sua tifoseria che, dopo due quarti e mezzo degnamente condotti, ha optato per il suicidio del tifo, compromettendo la prova proprio mentre gli avversari la impreziosivano. Tra le cose non menzionate, merita citazione una bella sciarpata pesarese mentre, infine, nessun coro ostile si segnala tra le parti.

Tornerò comunque e ancora a Pesaro, nonostante tutto, perché se anche i tempi d’oro dell’Inferno mi sono sembrati lontani secoli, questa piazza cestistica mi ha fatto vedere di meglio nel recente passato ed ha un potenziale, un amore che è ampiamente dimostrato dal numero di persone accorse a sostenere una squadra che ha vissuto stagioni senza dubbio migliori.
Tornerò ancora a Pesaro con la speranza di trovare altre tifoserie ospiti dello spessore dei pistoiesi, capaci di dire la loro anche di fronte a tante tifoserie calcistiche, ormai “vive” solo sugli allori del passato preistorico.
Tornerò ancora in un palazzetto, anche se l’invadenza dello speaker mi fa salire istinti criminali, anche se la spettacolarizzazione dell’evento fa quasi (quasi!) sembrare il deprecato “calcio moderno” al pari di una genuina partitella fra dopolavoristi. Tornerò ancora perché alla fine, chi si ferma davanti ai propri pregiudizi si perde sempre tante cose belle.

Testo e foto di Matteo Falcone.
Video di Simone Meloni.