C’è chi guarda al mondo ultras dall’alto in basso, con presupponenza. Come se essere, nascere o crescere tifoso di una squadra dell’estrema provincia calcistica, foss’anche la squadra della propria città, quella la cui terra è humus della propria vita ma che s’arrabatta in categorie infime, sia meno nobile di chi invece decide di seguire una squadra solo in base al suo palmares, senza altre velleità identificative oltre la sete di facili vittorie.

Parlando dal nostro punto di vista di osservatori, ci sono quelli che oltre a questa narrazione fuorviante, originano il proprio approccio in maniera ancora peggiore, cavalcando il lato morboso e virale degli eventi senza nemmeno muoversi dalla propria scrivania: strategia persino efficace per vendere magliettine o altri gadget, un po’ meno se si considera l’aderenza al reale o il versante etico della cosa. “Comodo, ma come dire poca soddisfazione”, parafrasando Lindo Ferretti: metterci la faccia, sporcarsi le mani nel fango della quotidianità è ancora importante, forse persino urgente considerando la situazione attuale dell’informazione.

Da queste premesse però, si generano poi incontri bellissimi ed interessanti. Come quello che c’è toccato in sorte con i ragazzi di Pordenone (e i loro ospiti) lo scorso sabato, 16 giugno. Alla proposta di animare un dibattito all’interno della loro festa abbiamo subito aderito con entusiasmo. Quantomeno per la voglia di cui sopra di metterci sempre la faccia nelle cose che facciamo, senza barricarci dietro un monitor. Anche se poi da un punto di vista puramente “emozionale” non è altrettanto semplice farlo, sia perché di solito sono gli ultras i protagonisti e noi al massimo ne raccontiamo umilmente le gesta, prospettiva che in quest’occasione s’è ribaltata. Sia poi perché un conto è scrivere, a mente (semi) fredda sugli eventi, un altro parlare in pubblico.

Un momento del dibattito

Per prossimità geografica (320 chilometri, alla faccia della prossimità!) vengo designato dal resto della redazione per questo compito. Arrivo a destinazione alla fine della prima tornata di partite del torneo di calcetto “Pordenone siamo noi”, fulcro di questa due giorni attorno alla quale sono appunto stati innestati il dibattito e tutta una serie di altre iniziative. I ragazzi finiscono di sgambettare in un campo di gioco lungo il cui perimetro sono esposti gli striscioni di tutti i gruppi presenti. Oltre ai “Supporters” padroni di casa, che festeggiano così il loro decennale, affiancati esattamente come allo stadio dai “Bandoleros”, mi cade subito l’occhio su “Panthers” Fano che non vedo da un po’ e stranamente mi ritrovo a incrociarli qui a km di distanza, nonostante i pochi che quotidianamente ci separano. Con loro, dalle Marche, presenti anche i ragazzi di Jesi, mentre più da vicino ma non meno importante la presenza degli “Ultras Udinese 1995”. Infine, e spero di non dimenticare nessuno, ci sono anche gli “Fdp al seguito” della Sanvitese (San Vito al Tagliamento, per i meno informati).

Di lì a breve, aiutati dalla chiusura della spillatrice di birra molto più interessante del sottoscritto, con l’aggiunta di altri ultras di altre parti d’Italia presenti a titolo personale (chi per amicizia con ragazzi del posto, chi perché in zona per motivi lavorativi), ci si ritrova riuniti tutti in cerchio a discutere di mondo ultras e repressione. Di come cioè queste due forze uguali e contrarie, si sono vicendevolmente fronteggiate per cinquant’anni e oltre, contribuendo ognuna ai mutamenti di forma dell’altra.

Dalle violenze istintive che accompagnavano i primi incontri sportivi già prima dell’avvento degli ultras, al ’68 con il suo carico di ribellismo politico e giovanile a fronte del quale sembrava una benedizione che le masse confluissero, con i nascenti gruppi organizzati, all’interno di spazi circoscritti e ben controllabili come le curve. Di pari passo una forza pubblica inizialmente permissiva, ha poi dovuto mostrare il pugno di ferro per rispondere ai primi rigurgiti di violenza non più spontanea ma sempre più organica e programmatica. Il dato di fatto è che per quanto la militarizzazione degli stadi, la loro settorializzazione rigida, l’inasprimento delle pene e delle regole d’ingaggio poliziesche fossero la più ovvia delle reazioni ai primi gravi episodi di turbativa dell’ordine, allo stesso tempo queste scelte hanno portato a un innalzamento della tensione che in breve ha generato un’escalation della violenza che da territoriale, simbolica e auto-regolamentata, è divenuta sempre più organizzata, cruenta e massiva.

Il discorso è ben presto scivolato su tutti gli ultimi sviluppi attuali, dalla tessera del tifoso al suo presunto superamento con il Protocollo del 4 agosto scorso. Per mia somma gioia s’è poi anche allargato al resto dei presenti, alcuni dei quali hanno portato le proprie esperienze personali con le quali si è stemperata la seriosità (o noiosità, a seconda dei punti di vista…) del monologo. Qualche equivoco ha anche rinfocolato ulteriori discussioni intorno al tema “Away Card”, per quanto già ampiamente dibattuto nel passato e non centrale in questa occasione, ma dato lo spessore degli interventi, la dialettica è sempre stata molto corretta oltre che ricca di spunti nel suo confronto d’opinioni.

Alcuni degli striscioni presenti

Anzi, volendo trovare un difetto, insito nella natura stessa di qualsiasi dibattito ultras, pubblico o privato che sia, fra intimi o in un consesso allargato come questo, il problema è nel rischio difficilmente eludibile di parlarsi addosso. Di dirsi niente di nuovo fra persone che la pensano esattamente alla stessa maniera e non hanno bisogno di convincersi vicendevolmente di alcunché.

Non a caso ho cercato di mettere a fuoco e condannare – non so riuscendoci fino a che punto – quel certo “complottismo” che da sempre accompagna gli ultras allorquando si tratta di repressione o confronto istituzionale. È normale, è persino giusto evidenziare tutti gli abusi del potere, ma è anche necessario spogliarsi dai panni della vittima per non finire costantemente immolati per attitudine e quasi per rassegnazione.

Senza che questo necessariamente comporti lo snaturamento delle proprie prassi, ma esattamente come allo stadio si è riusciti sempre a mutar pelle per eludere la morsa del “nemico”, alla stessa maniera si dovrebbe cercare di fendere colpi più efficaci sia in sede puramente comunicativa verso l’esterno, che di azioni di contrasto pratico alle istituzioni e/o di confronto laddove necessario. Ovviamente delegando a rappresentanti terzi per non mortificare il lato antagonista del mondo ultras, istituzionalizzandolo a sua volta e facendolo così metabolizzare dalle stesse istituzioni che, in tal modo, potrebbero fare addirittura sfoggio di slanci di democrazia ipotetica, che concretamente si realizza solo fingendo di ascoltare una controparte poi costantemente ignorata in sede decisionale. Come superare questo corto-circuito fra il ribellismo e lo svuotamento di potere o l’imborghesimento che la delega o anche solo il semplice confronto comportano? La riflessione è tanto ampia quanto necessaria, già solo essere riusciti o anche solo aver tentato di buttare un sasso nello stagno è motivo di conforto.

Proprio in questi termini, la domanda più importante l’ha posta una signora del tutto estranea al mondo ultras, madre di un ragazzino affascinato dalle curve e che perciò voleva conoscere da vicino questo fenomeno senza cedere alle facili risposte del luogo comune. La sua domanda verteva su curiosità apparentemente banali eppure a cui era arduo dare una risposta esaustiva o convincente, mettendosi nei suoi panni. Eppure la sfida è proprio questa: riuscire a farsi media di se stessi bypassando i media istituzionali che ascoltano e diffondono solo la voce del più forte. Senza rinnegare niente. Senza inutile contro-retorica stagnante. Dando con estrema sincerità un quadro ampio e credibile del mondo del tifo. Evitando le barricate su valori o ideali strettamente interni. Assumendosi responsabilità e guardandosi schiettamente allo specchio dell’autocritica.

Non è un caso se, chiuso per esigenze di tempi il dibattito, ci si è dispersi in vari capannelli a confrontarsi e più di qualcuno cercava di spiegarsi con la signora e spiegare 50 anni di movimento ultras e tutte le diverse sfumature da città a città. Mentre tale difficile compito e tutti i crocchi di gente andavano dissolvendosi, ci si è in automatico spostati chi intorno ai campi, chi al bancone e di chiacchiera in chiacchiera, di birra in birra, di torcia in torcia ci si è inoltrati fino a notte fonda con lo stessa immutata voglia di fare aggregazione di svariate ore prima. Il senso di comunità del mondo ultras è uno di quei tanti particolari che ne caratterizzano la longevità ed è importantissimo se anche in minima parte, anche solo ad una persona per volta, questo movimento riesca a rompere il muro dell’isolamento che forse è la cosa peggiore che la repressione ha saputo fare, dividendo (per imperare) in cittadini di Serie B o tifosi non fidelizzabili se non sottomessi a un pezzo di plastica o a un principio giuridicamente assurdo.

La mattina dopo, con pochissime ore di sonno godute, partirò presto da Pordenone per assolvere ad altri obblighi familiari e personali, perdendomi le ultime fasi del torneo. Portando via con me però, esperienze umane molto positive, oltre alla certezza, ribadita anche in sede di dibattito, che il lagnoso ritornello “gli ultras sono ormai morti” è una nostalgica bugia da vecchi: come ad ogni giro di vite, gli ultras hanno sempre saputo reinventarsi e ancora oggi continuano a farlo, nonostante una repressione che ha affinato le sue tecniche e i suoi strumenti in maniera terribile. A maggior ragione, chi ancora cerca di portare avanti questo modo di vivere spesso deprecato, in qualsiasi angolo dello Stivale, con qualsiasi seguito numerico, purché sempre con onestà e passione merita di festeggiare ancora altri cento di questi compleanni.

Matteo Falcone.