Cominciamo dando i numeri. Ventotto, sono le ore di pullman macinate per raggiungere Plzen, simpatica e graziosa località della Repubblica Ceca, famosa per essere mamma della celeberrima birra Pilsner, e posta a pochi chilometri dal confine con la Germania. Il ritardo in partenza, la chiusura del San Bernardo e il caotico traffico su buona parte della autostrade tedesche hanno caratterizzato questa vera e propria “scalata”. Fortuna che non manchi mai il passeggero che ti rivolge la parola o l’incontro ravvicinato del terzo tipo con il viandante cerebralmente fuori dal normale, in grado di allietare anche solo qualche minuto di queste ore erranti. Non vi preoccupate, vi evito filippiche sul viaggio, sui paesaggi e quant’altro possa risultare difforme ai contenuti di questo piccolo, e spero piacevole, spaccato di un vero e proprio blitz nella Boemia occidentale. Ma tanto dovevo per la cronaca.

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Ritorna l’Europa League e con essa la magia di questo torneo, figlio legittimo di quella Coppa Uefa che per molti di noi ha segnato diverse stagioni della nostra vita. In mancanza della competizione a mio modo di vedere più bella, la Coppa delle Coppe, e con un calcio che sempre più tende ad auto includersi in un’aura di falso splendore, con i grandi club a tirare le fila di un baraccone ormai più mediatico e di avanspettacolo che sportivo, leggere i nomi dei club che vengono sorteggiati in questa kermesse è una vera e propria boccata d’ossigeno. Se le società italiane, inoltre, fossero lungimiranti, capirebbero anche l’importanza di aggiudicarsi questo trofeo. Ma si sa, lor signori tendono sempre ad avere la pappa pronta, tanto che come premio per le figure barbine raccolte in Europa League, e non solo, negli ultimi anni, l’Italia nel 2018 tornerà ad avere quattro posti per la Champions League. Mandando ranking e logica sportiva a farsi benedire. Questione di interessi, ci dicono. Morte dello sport, già annunciata, e fine di qualsiasi criterio competitivo, traduciamo malignamente.

Le ore di ritardo accumulate dal torpedone mi consentono quanto meno di arrivare nella centralissima stazione di Praha Florenc quasi in concomitanza con uno degli ultimi bus che da là partono alla volta di Plzen, per gli ultimi 90 chilometri della giornata. La capitale ceca per me evoca dolci ricordi d’adolescenza, con il classico viaggio delle scuole superiori. Ormai quattordici anni fa. Tanto che mi accorgo di non ricordare la maggior parte delle forme di questa bellissima città. Ma non c’è tempo per filosofeggiare e una seconda visita è rimandata a un futuro prossimo. Il presente è rappresentato da un sano “scassone” a quattro ruote, ribollente di calore e “armato” di autoctoni che, come tipico nei paesi dell’Est, inizialmente ti squadrano poco ammiccanti, quasi a chiedersi perché mai tu sia su quel pullman e cosa tu vada a fare a Plzen. Ovviamente la comunicazione con gli autisti è pari allo zero. Il loro inglese post sovietico, e il mio post Craxiano, sono destinati a scontrarsi pesantemente. E allora si va avanti a gesti, cosa buona e giusta, oltre che convenzionale in questi casi.

Attraversato buona parte delle campagne boeme, e rivolto un pensierino religioso al massimo rappresentante di zona, Zdenek Zeman, eccomi a destinazione in quello che è il quarto centro della Repubblica Ceca. Sono le 16, mancano tre ore alla partita, e già le vie sono disseminate di tifosi con sciarpe e magliette del Viktoria Plzen. Ammetto la mia ignoranza primordiale su questa tifoseria. Fatta eccezione per le due praghesi (e neanche tanto), non ho ben chiaro il quadro del tifo ceco. Rispetto ad altri Paesi dell’Est ho sempre creduto che da queste parti il fenomeno ultras fosse pressoché nullo, ma devo dire che oggi verrò in parte smentito. Con mio sommo piacere, peraltro.

È pur vero che il piccolo Viktoria Plzen può vantare una storia ultracentenaria. Fondato nel 1905, per anni, come avveniva spesso nei Paesi dell’Est, ha assunto il nome dell’azienda cittadina più importante, la Skoda, tornando alla denominazione originaria soltanto nel 1992. Non è certo un caso che tale cambiamento sia avvenuto in concomitanza con la dissoluzione della Cecoslavacchia, e la conseguente creazione di due tornei nazionali, sotto le distinte egide di Praga e Bratislava. Il Viktoria, non essendo mai stato un club di primo livello, ricominciò dalla seconda divisione, vivendo stagioni travagliate tra promozioni e retrocessioni. È stata la gestione societaria oculata degli ultimi anni a portare vittorie, trofei e fama anche nel cuore del piccolo centro di 170.000 abitanti. Basti pensare al rifacimento dello stadio Města Plzně, trasformato da classico impianto vecchio stampo (modello a cui io giuro eterna fedeltà), a gioiellino rispondente a tutti i criteri Uefa, ma non per questo oppressivo e stringente nei confronti dei supporter. Anche questo vuol dire non affidare certi lavori agli illuminati (?) cervelli degli sceriffi italiani. Un vero e proprio orgoglio per una tifoseria che vive alle porte di una potenza, sociale prima che calcistica, come Praga. Tutti fattori che, sempre onestamente, non avevo considerato e che ancora una volta mi hanno confermato come il pallone, quando di mezzo ci sono meno soldi e meno fama, possa ancora essere un vettore tramite cui conoscere storie e arricchire il proprio bagaglio culturale.

Un bel sole estivo bacia la Cattedrale di San Bartolomeo, con gli operosi mercatini impegnati a smerciare vivande varie. Tanti si riversano nei pub a degustare la birra locale. Soltanto attorno allo stadio si contano due stabilimenti che producono tale nettare, venduto alla modica cifra di 40 Corone, 1.50 Euro all’incirca. Roba accessibile per tutti, ancor più per noi che in queste situazioni riceviamo il contentino dalla moneta unica. Il clima fondamentalmente è più che tranquillo e, avvicinandosi allo stadio dopo l’ultimo boccale pomeridiano, sembra un po’ di essere tornati ai primi 2000, quando la Coppa Uefa ti catapultava in posti come Nova Gorica o Silkeborg. Di certo non c’è la tensione che si può respirare fuori a un impianto polacco, bulgaro, ungherese e russo. Ma credo che già a Praga la questione possa essere completamente differente.

Inoltre c’è da tenere conto che oggi la curva di casa sarà chiusa per razzismo, in relazione alla gara di playoff contro il Ludogorets. Mi sono sempre dichiarato contrario a divieti, barriere e settori chiusi. Oggi lo sottolineo ancor di più: sono scelte senza senso e dettate da quel moralismo tronfio di cui ormai l’Europa si è fatta alfiere. Peccato che poi tali interdizioni, così come quelle per il fair play finanziario, vadano quasi sempre a intaccare club di seconda fascia o appartenenti a determinate aree geografiche, evidentemente invise al massimo organo calcistico continentale. Infine, cosa più importante: chiudere una curva, soprattutto fuori dall’Italia, dove non esistono biglietti nominativi e spesso neanche abbonamenti per le competizioni internazionali, non vuol dire disfarsi di quel dato settore che, proprio come accaduto in questa gara, può spostarsi in un’altra zona dello stadio. Fortunatamente, aggiungo. Un comportamento becero non si combatte con una disposizione becera. In Italia come ovunque.

Prima di entrare opto per un giretto attorno allo stadio, notando come siano stati attrezzati dei prefiltraggi molto di fortuna. Teloni blu presidiati da qualche steward, che blandamente controllano i biglietti. Decido finalmente di entrare. Le gradinate si stanno riempiendo e il settore ospiti mostra già tutti i suoi vessilli. Sono 350/400 i tifosi della Roma giunti in terra ceca. Una presenza tutto sommato buona, se si considera che gli amanti del “calcio che conta” quest’anno daranno forfait, non potendo udire l’inno della Champions, e che sin da poche ore dopo il sorteggio prenotare un aereo per Praga era diventata roba da Pascià. Con il tassativo obbligo di scegliere percorsi alternativi e spesso frastagliati. Oltre che lunghi e laboriosi. Anche questo è un sintomo di come il boicottaggio dello stadio Olimpico da parte di molti, abbia portato a una spasmodica “voglia di curva”, e l’Europa diventa senz’altro uno scenario ideale dove soddisfare questo desiderio.

Faccio inizialmente fatica a individuare i padroni di casa, fino a quando il suono di un tamburo funge da vera e propria stella polare. Stanno là, in piccionaia, dando subito una bella prova di compattezza. Se la squalifica del loro settore li ha penalizzati da un lato, dall’altro gli ha dato l’opportunità di radunarsi ancor più a ranghi serrati in uno spazio piccolo e compatto, sebbene più lontano dal campo.

Le squadre entrano sul terreno di gioco e il pubblico le saluta in maniera alquanto calorosa. Un pubblico che, va detto per i sommi capi della Questura di Roma e dell’Osservatorio, oltre che per i solerti media di regime che in questi mesi hanno giustificato barriere, repressione e abusi con la scusa del “modello europeo”, segue la gara in piedi, sulle scale e rumorosamente in tutti i settore dello stadio. Da sottolineare la birra, rigorosamente Pilsner e alcolica, venduta dentro lo stadio a un prezzo addirittura inferiore rispetto ai pub: 30 Corone! Fattore che probabilmente renderà il Viktoria Plzen la mia seconda squadra del cuore da qui all’eternità.

Veniamo ora alla contesa dei canti, delle manate e dei colori. Che in fondo è quella che più ci interessa e per il quale il pallone ha senso di esistere. Ottima la prestazione degli ultras di casa. Pensavo di trovarmi di fronte una massa di sprovveduti e improvvisati tifosotti disorganizzati, mi ritrovo invece a commentare una discreta curva, che ha cantato per tutta la partita, realizzato una coreografia e mostrato un ottimo stile, con battimani e cori tenuti a lungo, spesso conditi dal coreografico saltellio di tutti i presenti. Promossi a pieni voti. Non so se si muovano anche in trasferta, ma non mi sembra di ricordare grosse presenza a Napoli, qualche anno fa. Tuttavia si vede che, anche da queste parti, il seme del tifo organizzato è stato gettato e ora cominciano a raccogliersene i frutti. Ovvio, ça va sans dire, le società ritengono gli ultras una parte integrante e fondamentale del club e, persino in paesi che noi, in maniera talvolta ignorante e arrogante, crediamo meno evoluti del nostro (sic!), eventuali episodi di violenza non sono puniti requisendo e vietando megafoni, tamburi, striscioni e bandiere. Tutto materiale che ha libero accesso e che viene apprezzato anche dal pubblico normale, visibilmente coeso con la curva, oggi lontana fisicamente, ma ugualmente seguita dalla gente delle tribuna con la voce e con le mani. Buon pubblico, davvero.

Su fronte giallorosso il tifo è subito fomentato dall’iniziale vantaggio siglato da Perotti su calcio di rigore. Un gol che illude poco, visto il quasi immediato pareggio casalingo (1-1 sarà anche il risultato finale), ma che in fondo sposta poco sulla prestazione dei supporter ospiti. Tante manate, ottimo come sempre il coro a rispondere “Forza Roma, Roma campione” e voce tenuta sempre in alto. Da segnalare uno striscione, in zona Fedayn, contro le ultime multe piovute per l’occupazione delle vie di fuga dello stadio Olimpico (scusate, ma ho i conati al solo pensiero di ciò che accade nella mia città ogni volta che metto piede in uno stadio dove le cose funzionano normalmente).

Il match sul campo va man mano spegnendosi, e sugli spalti si consumano gli ultimi cori. Al triplice fischio molto bello il comportamento di squadra e pubblico di casa. La prima si intrattiene diversi minuti sotto a ogni settore, lasciando l’ultima scena, manco a dirlo, al tifo organizzato, che applaude e invita i propri beniamini a battere la mani insieme per diversi minuti. Molto più “snello” e veloce il saluto della Roma verso il settore ospiti, ma questo credo ormai sia uno dei tanti spartiacque tra un calcio tutto sommato ancora popolare, come può essere quello ceco, e un altro plastificato e smaterializzato come è quello della nostra Serie A.

Fatte le ultime considerazioni e seguita la conferenza stampa, anche per me si è fatta ora di tornare indietro. La strada è lunga, ma stavolta almeno sarà l’aereo a riportarmi nella Capitale. Il peccato è stato vivere il tutto in maniera abbastanza frettolosa e compressa, ma se ne esce comunque con un’esperienza in più e una storia di calcio da raccontare. Per certi versi lontana anni luce dal nostro pallone avvelenato e inacidito che continua a rotolare sempre più bucato e tristemente solo. Ma questa è un’altra storia, oggi vi ho raccontato quella dei romanisti a Plzen, del Viktoria e del suo pubblico. Se vi capita, passateci almeno per un paio di birre.

Simone Meloni.