È tornato, prepotentemente, di attualità l’argomento razzismo all’interno degli stadi nostrani. Dopo quanto avvenuto in occasione della sfida di campionato tra l’Inter ed il Napoli, il Giudice Sportivo, ieri pomeriggio, è intervenuto sentenziando l’obbligo di “disputare due gare prive di spettatori e ulteriore gara con il settore secondo anello verde privo di spettatori alla società Internazionale per cori insultanti di matrice territoriale, reiterati per tutta la durata della gara, nei confronti dei sostenitori della squadra avversaria, provenienti dalla grande maggioranza dei tifosi assiepati nel settore indicato e percepiti in tutto l’impianto. Nonché per coro denigratorio di matrice razziale nei confronti del calciatore del Napoli Koulibaly.”

Unanime è stata la solidarietà espressa dall’intero mondo del calcio nei confronti del difensore della formazione partenopea. Calciatori, allenatori e dirigenti hanno inteso voler dire la propria, pubblicando messaggi, post, stories, foto, sottolineando fermamente la propria condanna nei confronti del razzismo e della discriminazione in generale.

In un mondo utopisticamente ideale tutto questo, in effetti, potrebbe essere considerato giustissimo e assolutamente condivisibile. Il problema, però, è che viviamo nel mondo reale. Ed in questo stesso mondo reale, le lezioni di moralità, espresse e manifestate da chi invece non si comporta altrettanto correttamente, risultano per lo meno false e soprattutto ipocrite.

Tanto più in Italia, dove solo pochi anni fa, nel 2014 per l’esattezza, ai vertici della Federazione veniva eletto un certo Carlo Tavecchio che, dalle sue incredibili affermazioni sulle donne calciatrici (“finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sulla resistenza, sul tempo, sull’espressione anche atletica e invece abbiamo riscontrato che sono molto simili”) a quelle sui giocatori stranieri in Italia (“noi diciamo che Opti Pobà è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”), passando per quelle nei confronti degli ebrei e degli omosessuali registrate e diffuse da Soccerlife (“non ho niente contro gli ebrei, ma meglio tenerli a bada” e “io non ho niente contro gli omosessuali. Però meglio lontani da me, io sono normalissimo”), non ha di certo dimostrato di essere un esempio di rettitudine. Eppure lo stesso è rimasto ai vertici del calcio italiano, senza particolari levate di scudi o problemi, fino all’infelice eliminazione degli azzurri allo scorso mondiale.

“Ora basta, non tolleriamo che tali comportamenti rovinino il calcio” ha dichiarato invece a gran voce, ieri, il nuovo presidente della FIGC, Gravina, attuale massimo esponente dell’istituzione calcistica nostrana per antonomasia. Quella stessa istituzione calcistica italiana che, guarda caso, si è totalmente dimenticata tutti questi buoni precetti ideologici quando si è trattato di incassare i 20 milioni di euro provenienti dall’Arabia Saudita per far giocare la finale di Supercoppa Italiana a Doha.

Un accordo annuale, con l’opzione per le prossime due stagioni, raggiunto con una nazione che dal 2015 conduce una guerra spietata contro lo Yemen, con un utilizzo sconsiderato della forza sulla popolazione civile. Quella stessa nazione dove solo da pochi mesi è stato concesso alle donne di poter guidare un’automobile. Quella stessa nazione che ha versato oltre cinquecento milioni di euro all’Italia dopo aver stipulato un accordo per le forniture militari.

Ma in questo caso, ovviamente, la morale sui diritti umani, anche quelli più basilari, sono stati totalmente accantonati, nel nome e per conto del dio denaro.

E che dire allora del comunicato diramato dalla società dell’Inter, che recentemente, lo ricordiamo, è stata acquisita, a suon di milioni di euro, dal colosso industriale cinese Suning, e nel quale si afferma che “noi abbiamo detto no ad ogni forma di discriminazione e per questo ci sentiamo in dovere oggi, una volta di più, di affermare che chi non dovesse comprendere e accettare la nostra storia, questa storia, non è uno di noi”. Verrebbe da chiedere se questa zelante battaglia contro ogni tipo di discriminazione sia stata condotta, dalla nuova proprietà nerazzurra, anche nella Repubblica Popolare Cinese, per la salvaguardia e la difesa dei diritti dei lavoratori, ad esempio, o, anche in questo caso, dei più elementari diritti umani in quel del Tibet.

In quella stessa Cina (e non solo) dove solo pochi anni fa, è giusto ricordarlo, è scoppiato lo scandalo relativo allo sfruttamento del lavoro minorile, non ancora del tutto risolto in realtà, da parte di numerose multinazionali come la Nike, la Puma, l’Adidas e l’Asics: tutti brand che investono (e guadagnano), guarda caso, milioni di euro nel mondo del calcio.

Alla luce di queste semplici constatazioni, quindi, risulta davvero difficile non evidenziare l’ipocrisia del mondo pallonaro. Che non può di certo essere cancellata da alcuni segni rossi sul viso dei calciatori, da alcune magliette indossate all’ingresso in campo dalle squadre o dalla lettura di questo o quel determinato autore prima del fischio d’inizio delle partite.

Ma tanto si sa, in Italia sono più pericolosi, ed importanti, gli striscioni, gli adesivi e i cori di insulto e di scherno da parte dei tifosi negli stadi, nei confronti dei propri avversari e di qualche ragazzino straviziato e strapagato che corre dietro ad un pallone. E non di certo le battaglie, quelle vere, contro le reali discriminazioni e per la salvaguardia dei diritti, in Italia e nel mondo.

Comprendiamo, evidentemente, che tutto questo può essere accantonato senza alcun problema per qualche milioncino di euro in più. Però, almeno, risparmiateci l’ipocrisia e le lezioni di moralità.

Grazie.

Daniele Caroleo