Quando l’urna associa la Real Sociedad alla Roma ci sono due reazioni naturali: la prima è l’eccitante curiosità di metter per la prima volta piede nei Paesi Baschi, a casa di una tifoseria che gode di una discreta fama. Dall’altra il timore di dover affrontare, come spesso accade su suolo iberico, la solita dose di repessione e aggressività da parte della polizia autoctona. Diciamo che a conti fatti non mancherà nessuno di questi ingredienti. Ma il dado è tratto, quindi occorre organizzare il viaggio nella maniera più minuziosa, anche perché ormai le compagnie aeree hanno capito alla perfezione la maggior parte dei giochini di chi ne è assiduo frequentatore e cerca sempre di risparmiare. Pertanto i prezzi, da qualche anno, sono lievitati, divenendo in prossimità di partite o concerti quasi vergognosi.

La tabella di marcia prevede uno scalo a Londra, l’arrivo a Santander e la prosecuzione in pullman fino a San Sebastian. Di fatto quasi una giornata di viaggio. Ormai abbiamo fatto il callo nell’incontrare facce familiari in ogni pezzo d’Europa, impegnati in scali improbabili e viaggi della speranza. Eppure penso di poter parlare a nome di molti, dicendo che questo modo bizzarro di muoversi regali molte più emozioni di un’asettica business class e di un lussioso taxi che ti porta fino in albergo. Spostarsi senza farsi spellare richiede ingegno, conoscenza della geografia e una grande dose di pazienza. Insomma, tre doti che nel mondo contemporaneo non sono propriamente scontate!

Dopo la piccola sosta a Santander, comprensiva di pranzo e solite esagerazioni alcoliche a cui ormai la Penisola Iberica ha abituato un certo tipo di trasfertisti amanti del vino, si sale su un pullman della compagnia Alsa alla volta di Donostia (nome basco di San Sebastian). Sottolineare l’utilizzo di questi pullman è anche per rammentare la poca simpatia e lo scarso senso dell’umorismo dei suoi autisti, che ci faranno rimpiangere persino qualche buzzurro conducente dell’Atac e il suo tragicomico inglese pure su linee che trasportano pelopiù turisti. Della serie “non c’è mai fine al peggio”. Che poi, quando di fronte hai soggetti che per un paio d’ore si sono rimpinzati di pintxos (la versione basca delle tapas, crostini di pane su cui viene messo ogni ben di Dio, dai calamari, ai formaggi e salumi) e vari tipi di crianza (vino rosso) c’è poco da fare gli scorbutici!

San Sebastian è uno di quei posti che non può non rimanerti dentro. Prima ancora di parlare del suo stretto rapporto con la Questione Basca, e del suo ruolo politico e sociale in una zona molto delicata della Spagna, ad appena venti chilometri di distanza dal confine con la Francia, occorre sottolinearne le bellezze paesaggistiche. Con un centro cittadino piccolo e grazioso, in cui spicca Plaza de la Constitucion con i suoi tipici edifici iberici, colorati da quelle che in Portogallo chiamano azulejas. Ciò che più colpisce è la visuale dalle due colline, che specularmente fungono da cesura alla magnifica spiaggia cittadina della Concha (la conchiglia, per la sua forma), che giace su questo lembo di Mar di Cantabria (un’articolazione dell’Oceano Atlantico). Da una parte il Monte Iguelda, dall’altra il Castello che sovrasta la città vecchia. E al centro della Concha il bellissimo Palazzo Miramar, sede sporadica – in passato – della famiglia reale spagnola durante le vacanze estive. Osservando le centinaia di persone che già si avvicendano sulla spiaggia, giocando a pallone, prendendo il sole e facendo il bagno, non si rimane sorpresi nel sapere che questa è una delle località costiere migliori di tutto il Paese. E sapete cos’altro colpisce in positivo? Malgrado i Paesi Baschi abbiano la nomea di zona più cara della Spagna – essendo una regione economicamente forte e industrialmente sviluppata grazie alla lavorazione del metallo – la vivibilità per noi italiani (abituati ormai a salassi pure per una birretta in centro) è davvero notevole. Cosa che concilia assolutamente con il posto che si visita, oltre a mentenere alta l’identità, favorendo il divertimento e lo “struscio” da parte della gente del posto.

San Sebastian è la terza città dei Paesi Baschi (dopo Bilbao e il capoluogo Vitoria) con i suoi 185.000 abitanti e deve il suo nome alla presenza dell’ominimo monastero. Anche se, va sottolineato, la radice del nome va ricercata innanzitutto nel basco Donostia. Done, infatti, significa Santo. Ed è l’appellativo più antico. Prendendo spunto da questa osservazione linguistica cominciamo con il dire che la provincia della Gipuzkoa, di cui San Sebastian è capoluogo, è quella più bascofona (su circa seicentomila abitanti, almeno la metà parla, scrive e comprende il basco) delle tre. Con la Biscaglia e l’Alava che invece contano rispettivamente il 25 e il 16% dei parlanti. Per capire quanto la storia e le tradizioni di un popolo possano essere effettivamente autodeterminate e longeve, occorre sempre prestare attenzione alla lingua. Una delle migliori cartine al tornasole dal punto di vista storico e antropologico. Il basco (euskara) è una lingua paleoeuropea, vale a dire una lingua parlata dapprima dell’avvento del ceppo indoeuropeo, padre di tutti gli attuali idiomi e delle loro pregresse trasformazioni. Il basco (che attualmente è la lingua madre del 20% dei residenti nella regione) è ciò che rimane, quindi, di un vasto sistema linguistico che riguardava il nostro continente millenni fa. Un sistema di cui faceva parte anche l’aquitano. Queste due, assieme, sono infatti conosciute come lingue vasconiche.

Ma effettivamente quando parliamo di popolo basco, a cosa facciamo riferimento? Si tratta di un’area compresa tra i fiumi Ebro e Garonna, menzionata dai romani per la presenza di tribù quali proprio vasconi e aquitani e che, nell’Alto Medioevo, era conosciuta per l’appunto come Vasconia. Abitata da un popolo ostile e guerrigliero, citato peraltro nella celebre Chanson de Roland, che narrando la Battaglia di Roncisvalle evidenzia la ribellione delle popolazioni autoctone, talmente cruente da costringere alla ritirata le truppe di Carlo Magno. Tuttavia attorno alla genesi dei baschi rimane sempre un alone di mistero, c’è chi li lega strettamente agli iberi, rendendoli quindi tra i primi colonizzatori della penisola, chi sottolinea come l’euskara e altre lingue caucasiche siano residui di una fitta rete linguistica cancellata poi dall’invasione indoeuropea e chi addirittura azzarda la clamorosa ipotesi di un’origine indoeuropea del popolo. Sta di fatto che le loro radici si perdono nella notte dei tempi e una tempra arcigna, oltre a una forte difesa dellae proprie tradizioni, ne ha preservato parte dell’identità da invasioni, rappresaglie e tentativi di “conversione” in epoca moderna, vedasi soppressione da parte dello stato franchista di qualsiasi tipo di autonomia in favore di una centralità linguistica e culturale completamente castigliana.

Da un punto di vista geopolitico non vanno confusi il popolo e la regione autonoma esistente nello Stato spagnolo (l’Hegoalde, Paesi Baschi del Sud) la quale è sicuramente quella in cui la cultura basca resta più radicata. Ciò non esclude quella parte del territorio francese (Labourd, Soule e Bassa Navarra) chiamata Iparralde (Paesi Baschi del Nord), che fa storicamente parte della Vasconia. Inoltre si deve tener conto dell’importante diaspora avvenuta soprattutto nella prima parte del ‘900, quando dopo aver preso parte alla Guerra Civile Spagnola su fronte repubblicano (fatta eccezione per i baschi di Navarra), alla vittoria di Francisco Franco la popolazione venne repressa e privata di qualsiasi autonomia. Solo nel 1975, con la morte del caudillo e il ripristino della democrazia, lo stato spagnolo tornerà a concedere quelle autonomie (attualmente la Comunità è dotata di un proprio parlamento, di un tribunale, di un Ararteko – cioè una sorta di garante che si accerta non vengano calpestati determinati diritti dallo Stato Centrale – e un Administración General del Estado, che rappresenta invece il governo spagnolo) storicamente già presenti nel sistema dei fuero – una sorta di privilegi creati alla nascita del Regno di Castiglia per uniformare l’aspetto legislativo ma concedere alcuni privilegi laddove necessario – che per secoli erano stati garantiti a questa regione. Concessioni che non porranno però fine alla lotta volta all’autodeterminazione dei territori, portata avanti in particolar modo dall’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Paese basco e libertà) – un’organizzazione armata, di principale stampo marxista-leninista – e politicamente dal partito Batasuna, disciolto poi dalle autorità spagnole perché ritenuto braccio destro dell’ETA.

A chi si trovi a girare nelle strade di San Sebastian, Vitoria e soprattutto Bilbao risalterà certamente la presenza su molti balconi, ma anche presso alcuni esercizi, di bandiere, adesivi e drappi di Etxerat, associazione che dal 1991 si batte per la liberazione di prigionieri ed esiliati a causa della loro lotta per l’indipendenza. Senza dubbio fa un certo effetto vedere simili rivendicazioni in un’Europa – almeno quella occidentale – che crediamo ormai scevra da certe dinamiche, ma dove invece (i recenti scontri di Derry insegnano) alcune tematiche non sono realmente sopite o morte, ma ardono sotto i carboni e rischiano di rivenire a galla di tanto in anto.

In tanti, anche nelle nostre curve, fanno bella mostra della Ikurrina (la bandiera basca) conoscendo poi ben poco di tutto quello che c’è dietro questo semplice pezzo di stoffa. Assodata l’inutilità – e la dannosità talvolta – di anteporre idee politiche alla militanza ultras nel 2023, la presenza di questo vessillo è senza dubbio un segno tangibile di come la suddetta Questione Basca abbia sovente rappresentato la volontà di resistere alle oppressioni statali per preservare diversità e cultura. Nella fattispecie l’ikurrina (dal neologismo ikur’ina, e a sua volta dal termine ikur, che significa simbolo) è stata creata nel 1894 dai fratelli Luis e Sabino Arana, fondatori del Partito Nazionalista Basco. Sullo sfondo rosso (colore della Biscaglia) si staglia una croce di Sant’Andrea verde e una di San Giorgio bianca, colore del cattolicesimo. La bandiera che vediamo sventolare oggi in disparate manifestazioni di piazza e in numerosi stadi, è riuscita persino a spodestare l’antica aquila nera, simbolo del Regno di Navarra. Conosciuta in basco come Arrano beltza.

Peraltro, ricollegandoci al cuore di questo racconto, sono in molti a riconoscere l’importanza di questa regione nell’importazione e diffusione del football su suolo iberico. La particolare importanza commerciale del Golfo di Biscaglia, infatti, ha favorito a inizio secolo i più disparati contatti e non è casuale che le principali squadre basche abbiano una fondazione prossima all’inizio del ‘900. Senza contare che antichi giochi sferistici come la pelota basca e lo Jal alai rappresentano un segno tangibile del retaggio paleoeuropeo di questo popolo.

Chiaramente il calcio ha preso il sopravvento per interesse e seguito. Mantenendo un ruolo importante nella rivendicazione della propria identità. Oltre al celebre modello Atheltic Bilbao – che da sempre tessera solo ed esclusivamente atleti baschi o cresciuti in club e strutture basche – non tutti sanno che esiste una vera e propria selezione “nazionale” (non riconosciuta da FIFA e UEFA), attiva sin dagli anni ’30 del Novecento. Un aneddoto esemplare risale al 1937, in piena Guerra Civile. L’allora Lehendakari (il presidente del consiglio della Comunità Autonoma) spinse per formare una selezione nella quale fossero annoverati alcuni tra i migliori calciatori di Spagna, con la finalità di realizzare un tour mondiale e raccogliere fondi utili a perorare la causa Repubblicana e, di conseguenza, legittimare ancor più l’autonomia della comunità basca. Furono diverse stelle dell’epoca ad accettare e la tournée, dopo diverse tappe continentali, riuscì a valicare i confini europei portandosi dapprima in Messico e poi in Argentina. A quel punto la FIFA dichiarò illegittima Euzkadi, impedendo ai giocatori di scendere in campo. Per eludere tale divieto il sodalizio tornò in Messico, affiliandosi alla federazione locale e disputando il campionato nazionale sotto il nome di Club Deportivo Euzkadi (piazzandosi terza).

Il successivo avvento del franchismo e l’impossibilità di dar sfogo a qualsiasi corrente nazionalista non spagnola, portarono al fermo di qualsiasi attività. Si riprese a giocare solo nel 1979, “esordendo” contro l’Irlanda in un’amichevole finita 4-1 tra le mura amiche del vecchio San Mames di Bilbao. Mentre bisognerà attendere il 2007 per vedere – sett’antanni dopo – giocare la selezione in trasferta, e più precisamente in Venezuela.

Da una pur breve analisi storica è lapalissiano dedurre un profondo scontro sociale e politico che ormai da secoli attraversa la Spagna. Frizioni che si riverberano anche negli stadi, dove negli anni non sono mai mancati striscioni, cori e riferimenti a tutto ciò. Parlando di San Sebastian, ad esempio, resta agli archivi uno degli episodi più cruenti accaduti a margine di una partita della Liga: nel 1998 fuori allo stadio Vicente Calderon, prima della sfida tra l’Atletico e la Real Sociedad, un tifoso basco viene ucciso da alcune coltellate. Proprio in un periodo in cui la trattativa tra lo Stato e l’ETA era in una fase delicatissima, con l’organizzazione basca che lentamente cominciava ad accusare la forte repressione attuata dal governo del primo ministro Aznar. Quando si parla di movimento ultras spagnolo è inevitabile tener conto delle dinamiche – molto ma molto diverse dalle nostre – che riguardano quel Paese e che giocoforza si attengono a una storia nazionale travagliata, scombussolata da importanti e forti richieste di autonomia, non solo su fronte basco.

Per capire come questa zona ripudi la presenza delle simbologie nazionali, è sufficiente constatare la totale assenza di bandiere spagnole su palazzi istituzionali. Sostituite ovviamente dalla Ikurrina. Così come l’autonomia della regione le permette di possedere un proprio corpo di polizia, la Ertzaintza. La quale tuttavia non differisce molto dal modus operandi della Guardia Civil o della Policia, come avrò modo di spiegare a breve.

La sera precedente al match un giro attorno allo stadio è d’uopo. Le tenebre lasciano risplendere un impianto rinnovato sei anni fa e inaugurato relativamente da poco. Fino al 1993, infatti, los Txuri-urdin (i biancoblù) giocavano le proprie gare interne presso l’Atotxako futbol zelaia, anche chiamato Estadio de Atocha. Un impianto situato a ridosso della stazione ferroviaria, con una capienza di 26.000 spettatori e una struttura vecchio stile, a dir poco affascinante. Un tempio dove la Real ha conquistato i suoi due titoli nazionali (1981 e 1982) e che è ricordato con nostalgia da diversi tifosi. Il trasferimento all’Anoeta (che prende il nome dall’ominimo quartiere) ha sicuramente portato giovamento in fatto di capienza (39.313), sebbene ci siano voluti quasi trent’anni per eliminare la scomoda pista d’atletica che non rendeva giustizia a chi era abituato a vedere la partita praticamente attaccato al campo.

Può sembrare strano, considerata la geopolitica di quest’area, ma il club deve il suo nome all’interessamento di Re Alfonso XIII, che favorì la scissione della Sociedad de Foot-Ball de San Sebastian dal San Sebastian Sport Club, primo sodalizio cittadino. Una storia che, come detto, ha visto il proprio apice negli anni ’80, con la conquista di due campionati e una semifinale di Coppa dei Campioni nel 1983, nonché di alcune coppe del Re sul finire del decennio. Il club è tornato a ottimi livelli da qualche anno, dopo la retrocessione avvenuta nel 2007 (la Real non finiva in Segunda Division da quarant’anni) e diverse amministrazioni tutt’altro che virtuose. Nel 2020 è arrivata la terza Coppa del Re e grazie a un’ottima gestione societaria – approntata dal presidente Aperribay – e a un bel progetto tecnico (forgiato dal tecnico basco Imanol Alguacil), il club stanzia ora tra le prime della classe, divertendo e mettendo in difficoltà le più blasonate compagini di Spagna, in una Liga che ormai da tanti anni ha perso lo spirito della competitività ad appannaggio dei colossi di Madrid e Barcellona. Insomma, un coacervo di grande idee e abnegazione per arrivare almeno a sfiorare potenze economiche attualmente irraggiungibili. Non chiamatela favola, ma programmazione!

In tutto ciò il pubblico non ha mai fatto mancare il proprio sostegno e anche in questa occasione tutti i tagliandi sono andati sold out. Si parte dal 2-0 dell’andata e l’ambiente sa che non sarà una passeggiata ribaltare il risultato. Il giorno della partita decido di avvicinarmi allo stadio quando mancano due ore al fischio d’inizio. Voglio assaporare l’aria e capire come vivono il calcio da queste parti. Qualche indizio l’ho già avuto dalla presenza massiccia di bandiere, gagliardetti e vessilli del club in quasi tutti i bar in cui sono entrato. Addirittura in più di un esercizio il titolare veste proprio la maglia biancoblù. Il sodalizio vanta peraltro numerose sezioni (calcio femminile, hockey su campo, atletica leggera, pelota basca e subacqua), il che lo rende ancor più popolare in città.

Avvicinandomi all’Anoeta sento sempre più l’inconfondibile rumore di cori ritmati dal tamburo. Diverse centinaia di ragazzi e ragazze – che sono evidentemente l’anima della curva di casa – stanno facendo il loro pre partita a suon di birre, musica, cori e bandieroni. Fin qui tutto normale, la situazione appare infatti tranquilla e rilassata. Diverse torce vengono accese e qualche bomba carta fa da allegro sottofondo. Questo momento ludico viene interrotto dal passaggio dei pullman con i tifosi romanisti a bordo. Immediatamente parte una discreta carica da parte dei baschi che, armati principalmente di sedie, si dirigono verso i giallorossi, che non si fanno pregare e scendono dai torpedoni fronteggiando i dirimpettai. Manco a dirlo l’intervento della polizia non solo è possente, ma a dir poco cruento, soprattutto nei confronti dei supporter capitolini. Un’ondata di tifosi baschi arretra per sfuggire ai lacrimogeni e alle cariche di allegerimento della Ertzaintza. La quale, però, non ha finito la propria opera e dopo aver posto in stato di fermo alcuni tifosi ospiti, provvederà a manganellare gratuitamente e senza motivo diversi ragazzi presso i tornelli d’ingresso. Un atteggiamento fin da subito aggressivo, in regola con quanto visto da sempre in Spagna.

La domanda, tuttavia, è una soltanto: come si può pensare di far transitare i pullman dei tifosi romanisti proprio davanti al punto di raccolta degli ultras locali? Come si può organizzare un’apposita fan zone, indicare il mezzo di trasporto e millantare una sedicente organizzazione per evitare tumulti, se poi neanche le più basilari regole dell’ordine pubblico vengono rispettate? Se è vero che “paese che vai, usanza che trovi”, devo ammettere che qua mi sono sentito davvero a casa, purtroppo (sic!).

Sta di fatto che le tensioni tra giallorossi e polizia si protraggono quasi fino all’inizio della partita e alla fine, in virtù di quanto successo e per rispetto dei ragazzi fermati, il contingente ospite non esibirà alcuno striscione e non farà tifo, salvo cori per i diffidati, contro la polizia e in favore del movimento ultras.

Un pensiero anche sull’atteggiamento dei baschi: all’andata non era successo nulla, anzi tra tifosi normali c’era persino stato uno scambio di sciarpe. Non so se in questo astio possa aver giocato un ruolo importante l’amicizia tra alcuni gruppi della Roma e il Frente dell’Atletico Madrid (in relazione a quanto successo nel 1998, come detto in precedenza), di sicuro in Europa ormai non esistono più gite e le tifoserie italiane sono attese al varco. Per molti “arrivano i maestri” e come tali vanno accolti, con la voglia di dimostrare che anche in altri luoghi del Vecchio Continente, il movimento è progredito e non è più disposto a concedere scampagnate o giornate tranquille. Un po’ come funzionava da noi in passato quando a farne le spese erano hooligans o sedicenti firm inglesi.

Venendo all’ambiente dell’Anoeta: prima della partita nella curva della Real Sociedad spicca la presenza di un palco su cui il gruppo Brigade Loco si esibisce. Per carità, a ognuno i suoi gusti e le sue tradizioni, ma personalmente l’ho trovato alquanto trash. Capisco il legame con la musica e capisco quanto questa debba rappresentare la sottocultura da stadio da queste parti, andando a toccare anche altri punti focali come il l’indipendentismo basco e l’appartenenza politica, ma è un po’ come se da domenica prossima a San Siro o all’Olimpico poco prima del fischio d’inizio all’interno delle curve, magari al posto dei lanciacori, ci fosse la band preferita dalla tifoseria e suonasse come nulla fosse. Forse, per come siamo abituati noi a vivere la curva, sarebbe un po’ violare la sacralità di un settore e quella del pre partita che, per forza di cose, dovrebbe avere l’obiettivo di caricare la squadra intenta a fare riscaldamento. Già dobbiamo sorbirci musichette e jingle provenienti dagli altoparlanti, addirittura produrle noi mi sembra troppo!

Comunque una celebre canzone del gruppo succitato, Bultzada (letteralmente “spingere”), viene da qualche anno trasposta su stoffa e rappresenta l’insegna con cui il tifo più caldo di San Sebastian gira la Spagna e l’Europa. Quando l’ingresso delle squadre sta per avvenire, tutto lo stadio si colora con una coreografia a tre settori. Alla mia sinistra dei cartoncini formano una grande Ikurrina, mentre nella tribuna di fronte si legge la scritta Real e nella curva degli ultras appare un gigantesco disegno che comprende diverse figure tradizionali Euskaldunak, completato dallo striscione che tradotto signfica: “Se andiamo insieme la vittoria è nostra!”. L’universo curvaiolo della Real Sociedad non è esattamente un qualcosa di aperto e facile da interpretare. Gli ultras comunicano poco e – per diverse ragioni a cui neanche mi sento di dar torto – portano avanti una linea di massima diffidenza nei confronti del mondo esterno, giornalisti in primis. Resta dunque davvero complicato andare a leggere le loro peculiarità e spiegare il loro modus vivendi (almeno se si pretende di farlo in una giornata sola). Cominciando proprio da questa scenografia. Quello che si può dire, sicuramente, è che gli è ben riuscita. Malgrado il profilo Twitter della Roma l’avesse spoilerata il giorno prima, riprendendo i preparativi (tra cui proprio il telone) durante l’allenamento di rifinitura. Cosa che ha fatto infuriare molti nell’ambiente biancoblù (anche se forse non è il massimo lasciare una coreografia dentro lo stadio ventiquattro ore prima del match, sotto gli occhi di tutti e nell’era dell’iper comunicazione).

Parlando prettamente di tifo, gli ultras della Erreala (altro nomignolo con cui è conosciuto il club) caricano l’ambiente e offrono una discreta prestazione. Di sicuro non il catino infernale promesso dal loro allenatore, ma un buon ambiente, quello sì. Diversi bandieroni, alcune sciarpate e buone manate. Diciamo che per essere su suolo iberico un’ampia sufficienza l’hanno guadagnata. Certamente anche l’andamento del match non aiuta, con uno scialbo 0-0 che si trascina fino al 90′, facendo gioire gli uomini di Mourinho ma portando applausi anche ai padroni di casa, che sono comunque arrivati agli ottavi di una competizione difficile, confermando la loro ottima annata.

Lo stadio si va gradualmente svuotando, e anche per me è giunto il momento di abbandonare gli spalti. Ovviamente mi concedo un altro giro nei pressi della curva di casa, ma stavolta tutto è tranquillo e rilassato. Non resta altro che osservare la folla diradarsi e cercare un ultimo baretto in cui ingollare pintxos e vino rosso. A differenza di altre città iberiche, San Sebastian sembra meno votata alla vita notturna, tanto che a mezzanotte – anche in una giornata dove si è disputata una partita con quarantamila spettatori – i locali cominciano ad abbassare le saracinesche. Le ultime bandiere della Real Sociedad sventolano sul pennone posto al centro del palazzo dove sono di stanza. La notte sarà breve, a causa del pullman che di prima mattina dovrà portarmi a Bilbao.

Mi lascio alle spalle due giorni che sicuramente sono serviti a darmi leggermente un’idea più chiara su luoghi finora visti e letti solo in rete. Calpestare con i propri piedi determinati suoli serve ad accendere la curiosità, motore fondamentale per corroborare e ampliare il proprio sapere. D’altro canto resto desideroso di conoscere più approfonditamente tutti gli spaccati sociali di questa parte d’Europa, che ha miliardi di storie – magari anche non condivisibili – da raccontare. E la visita di Bilbao conferma solo questa mia sensazione. Ma sarebbe una storia che meriterebbe un articolo a parte.

Per ora mi fermo qua. Guardando per l’ultima volta l’Ikurrina e pensando al suo significato originale, sicuramente molto più nobile e pretenzioso rispetto a quello commerciale che tanti le hanno conferito. Ripenso però anche alle strade d’Europa, che oggi vedono noi ultras italiani cercati, desiderati e obiettivo di confronto. Le generazioni cambiano e la storia si scrive altrove, mentre da noi sarebbe il caso di fare serie riflessioni per non gettare alle ortiche cinquant’anni di movimento. Posto che piazze come Roma ancora sanno difendere il proprio ideale e ancora non tirano dritto di fronte alla provocazione avversaria. Resta tuttavia un monito importante, per il nostro futuro. Prossimo e lontano.

Simone Meloni