Il Brasile d'Europa. Copertina.Accostarsi ad un libro che parla di calcio giocato è complicato di questi tempi. Il calcio, diciamocelo chiaro, si riduce veramente a poco una volta nettato dalle spettacolarizzazioni televisive per vendere il loro maledetto prodotto, dai giochetti di gambe fini a se stessi del funambolo di turno, ripetuti mille volte in slow motion, mentre qualcuno dalle dubbie competenze ci ripete continuamente quanto sia “Ccezionale” o ci urli manco gli stessero accoltellando la nonna.

L’errore più grossolano sarebbe quello di cadere nella nostalgia inversa di magnificare il passato in maniera acritica o decontestuale.

Paolo Carelli riesce nel difficile compito di volteggiare in equilibrio su questa linea sottile, raccontando l’epopea del calcio all’interno del sogno interculturale della Federazione Jugoslava. Un sogno di non meno complicato equilibrio fra religioni, popoli ed identità storico-geografiche diverse che però, per lungo tempo, fu una solida realtà anche nel calcio. Questo almeno dal punto di vista teorico, perché poi, all’atto pratico, le rappresentative nazionali e locali della Jugoslavia, si dimostrarono tutte di una bellezza tanto affascinante quanto eternamente incompiuta. Il soprannome di “Brasile d’Europa” ruota appunto intorno agli estremi di bellezza tecnica del calcio balcanico, che si rivelava però altrettanto spesso lezioso e poco pragmatico.

Tante le storie raccontate da Carelli, da quelle più famose dell’ultima Jugoslavia estromessa agli Europei del 1992 per la guerra ormai divampata, alla vittoria di Prosinecki e compagni nel mondiale under 20 in Cile nel 1987 o della storica Coppa Campioni alzata dalla Stella Rossa a Bari dopo aver sconfitto l’Olympique Marsiglia. Le velika cetvorka, le grandi quattro (Partizan, Hajduk e Dinamo oltre alla già citata Stella Rossa) che si spartirono la maggior parte dei titoli jugoslavi. Le squadre minori di Belgrado come l’OFK, le squadre delle corporazioni come lo Zeleznjcar dei ferrovieri, quelle di comunità come il Vojvodina di Novi Sad, che già dal nome incarna l’identità di tutta la regione autonoma incastonata ai confini con Ungheria e Romania. Tante altre squadre meno note come potrebbero esserlo il Radnicki Nis, lo Sloboda Tuzla o la triestina Ponziana, ammessa nel campionato jugoslavo in una sorta di sottile guerra di propaganda  sui confini con l’Italia (di cui alcuni strascichi si trascinano ancora oggi) che, in epoca precedente, ammise l’istriana Fiumana nel campionato di Serie B.

Poi ancora i derby di Mostar, di Sarajevo, quello eterno di Belgrado, i campioni insinuatisi nella memoria collettiva con la loro classe sopraffina come Dragan Stojkovic, icone del nostro calcio passato come Baka Sliskovic o Davor Jozic, oppure quelli persi nell’oblio del tempo come Dzajic, Bobek o Zebec senza dimenticare gli allenatori come Bora Milutinovic o il “nostro” Vujadin Boskov, tutti contraddistinti dalla stessa propensione al multiculturalismo che voleva incarnare il proprio ideale di nazione.

Visto che siamo in termini di ideali, l’autore è riuscito nel compito che tutti i narratori di storie onesti dovrebbero prefissarsi, ossia quello di raccontare i fatti e non di giudicarli. Da qualsiasi verso lo si giri, questo libro di certo non potrà passare per l’apologia della Jugoslavia Titina piuttosto che dei successivi nazionalismi e localismi rifioriti; non si pone in testa ardue interpretazione geopolitiche su territori e storie controversissime come quelle del Kosovo o della Repubblica Sprska, ma ne racconta sic et simpliciter le vicende e le vicissitudini calcistiche.

Anche sotto l’aspetto che più ci riguarda, quello del tifo, tutto sommato è buona la chiave di lettura che offre, anche se bisogna dire che (giustamente, oserei dire) restano molto marginali nel quadro d’insieme: la storia della Torcida di Spalato è ben tratteggiata, mentre in quella dei BBB Dinamo Zagabria ha il merito di citare le forti contrapposizioni che ci furono con il presidente croato Franjo Tudman per il cambio coatto di nome in Croatia Zagabria, sempre per sciatta propaganda.

Mi convince meno, onestamente, quando centralizza il ruolo degli ultras della Stella Rossa nelle questioni politiche e belliche, vizio di forma comprensibile data la discutibile fonte a cui fa riferimento (quel “Dio, Calcio e milizia” la cui lettura, come avevo avuto occasione di dire, mi aveva destato grossissime perplessità…).

Non riesce altrettanto bene a divincolarsi, come nel caso dei BBB Zagabria, dal mito storico (che è diverso dal fatto storico puro) che aleggia intorno alla vicenda. Che i Delije avessero propensioni nazionalistiche è chiaro, che subissero il fascino della figura forte di Arkan ci sta, che tanti di loro abbiano ingrossato le fila della Guardia Volontaria Serba è un dato di fatto. Ma che lo stesso Arkan fosse un ultras, ancor più il capo degli ultras è un po’ una banalizzazione equivoca: banalizza la carica antagonista degli ultras, proprio a schermo della quale fu posto Arkan, uomo in nero della Belgrado politica; banalizza lo spessore criminale della stessa “Tigre” e dei suoi sgherri. Quanto è credibile che dei professionisti del crimine debbano subordinarsi militarmente a dei “monelli da stadio”? Quanto è credibile che un uomo che solo a metà degli anni ’80 è tornato a Belgrado, in poco più di 5 anni e con tutti i traffici a cui aveva da badare, senza militanza attiva, che passava più tempo con la squadra che con gli ultras, ne sia diventato il loro capo assoluto ed indiscusso? Ce lo vedete Arkan megafono alla mano a coordinare cori e battimani? “Daiii, su quelle cazzo di mani!”. Soprattutto, l’ha mai veramente visto qualcuno? Tutti ne parlano, eppure non c’è mezza testimonianza video-fotografica in merito. E poi ancora, questo non stride fortemente con il quadro psicologico di Arkan che tanti (lo stesso autore di “Dio, Calcio e Milizia” fra questi) dipingono come quello di un “mentalista”, di un uomo discreto, schivo agli eccessi e alle sbruffonate in pubblico?

Ci sono contiguità, è fuor di dubbio, fra Arkan, la criminalità e gli ultras, ma non sono la stessa indistinta cosa, e trattarli come tali o non riconoscerne le diversità specifiche o i rispettivi spazi di autonomia, non giova alla credibilità della narrazione, della verità storica più in generale. La colpa, beninteso, non è nemmeno di Carelli che tratta marginalmente di ciò, ma dei vettori di propagazione di certi riadattamenti cinematografici della storia stessa. Credevano forse di scrivere la sceneggiatura di un film e non un libro a carattere storico con necessità di fonti più solide de “La Repubblica”.

Resta comunque un neo infinitesimale di un libro in definitiva bello. Bella anche la copertina ed è un miglioramento importante in casa “Urbone” a cui, in passato, avevo sempre rimproverato proprio la scarsa cura delle copertine.

Impossibilitato da cause contingenti a individuarvi le migliori offerte in rete, vi lascio il riferimento della casa editrice per l’acquisto online (www.urbone.eu) e l’ISBN che è 978-80-87797-96-9, qualora vogliate ordinarlo nella vostra libreria di fiducia. Il libro costa 12 € ma magari, se vi adoperate un po’ con un motore di ricerca, riuscite a trovare voi stessi qualche sconto. Doveste anche pagare il prezzo pieno, fidatevi e prendetelo: ho una memoria claudicante, ma credo di poter dire che questo sia il più bel libro tra quelli letti e recensiti per la “Urbone”.

Matteo Falcone.