Quando nel 1995 lo stadio Giglio venne inaugurato, la Reggiana disputava il campionato di Serie A, mentre il Sassuolo era impegnato nel Campionato Nazionale Dilettanti. Nessuno avrebbe immaginato che diciotto anni più tardi, quello che all’epoca era un fiore all’occhiello di Reggio Emilia e una vanto per il club granata, sarebbe diventato un aspro terreno di confronto/scontro in grado di coinvolgere uno dei più grandi gruppi imprenditoriali della zona, una parte della classe politica, la squadra cittadina e, per l’appunto, il sodalizio neroverde. Questione complessa, dove sicuramente è facile schierarsi ma meno semplice argomentare. Questione che, da qualunque prospettiva la si guardi, calpesta la dignità e il senso di appartenenza di entrambe le tifoserie. E questa è la prima cosa che penso vada sottolineata con il pennarello rosso. Reggiani quanto sassolesi – magari in modo diverso e con differenti trame – sono vittime del “modello Sassuolo”. Un modello sicuramente efficiente dal punto di vista progettuale e sportivo, un po’ meno sotto il profilo dell’identità e della convivenza. Fatto che nel pallone non va mai dimenticato, perché prima o poi ti si ritorce contro. O, comunque, alla lunga è destinato a prevalere.
Non voglio tornare per la milionesima volta su tutta la genesi della questione Mapei/Stadio/Politica/Tentativo di convertire la fede di una città, perché a rispondere a tutto ciò ci sono i numeri portati dal Sassuolo in A – malgrado ottimi campionati, l’Europa e i dati palesemente gonfiati nei tabellini dei quotidiani -, ma provare a parlare di questa sfida e di ciò che oggi queste due comunità rappresentano e rivendicano. Al netto di tutta quella stampa che per anni ha spalleggiato determinati poteri economici e fatto finta che fosse tutto normale. Quella stampa che magari ancora oggi, a sentirla parlare, descrive i tifosi del Sassuolo che giustamente rivendicano lo stadio Ricci e la loro città come unica casa del club, come “immaturi” o peggio ancora “provinciali”. “E allora a Milano cosa dovrebbero dire? Non si fanno venti o trenta chilometri a domenica per raggiungere San Siro?”, affabulano costoro, come se veramente si potesse paragonare una metropoli che fa calcio a livelli internazionali da cent’anni, che affonda le proprie tradizioni in una città che conta trenta volte il numero degli abitanti di Sassuolo, a una realtà sicuramente cresciuta e abile nel muoversi nel mondo del pallone, ma dalle radici indubbiamente provinciali (e questo termine, chi mi conosce sa bene che non lo uso con un’accezione dispregiativa, anzi: la provincia è l’anima del calcio italiano, il luogo dove ancora oggi respiri un minimo di purezza). Un certo tipo di stampa si diverte a raccontare come Reggio Emilia senza la Serie A dei neroverdi abbia perso un importante indotto economico, oppure stravolge una realtà che numericamente parla di uno stadio quasi sempre vuoto se non occupato in massa dalle tifoserie ospiti. E allora la mia domanda è provocatoria: come sarebbe stato investire soldi nella città di origine del club, ammodernare o costruire un nuovo impianto, e giocare là gli anni di gloria della massima divisione? Un quesito che in realtà non è neanche tanto provocatorio, ma veritiero. Perché è chiaro che i cinquanta chilometri da percorrere ogni due domeniche per giocare “in casa” non hanno contribuito a formare nuove generazioni di tifosi. Checché ne vogliano dire i propagandisti della prima ora. La verità è che a pochi è interessato dei tifosi e di ciò che essi possano rappresentare: del resto come si può pretendere ciò da chi con leggerezza sposta un club da una città all’altra manco fosse una franchigia NBA?
Ciò che più inquieta è che tutte le categorie impiegate in questi anni per distorcere il naturale corso della storia e creare una narrativa ad hoc, ancora oggi sembrano non volersi piegare a una logica che è incontrovertibile: non puoi spostare una squadra, una tifoseria, una tradizione da una città all’altra e pensare che la gente si senta comunque parte integrante del progetto. Puoi acquisire uno stadio, provare a scalzare la squadra che ne è idealmente proprietaria pure se ha perso l’asta, puoi smantellarne i simboli all’interno e cancellarne nomi, colori e riferimenti. Ma non puoi invertire l’ordine dei fattori determinati dall’appartenenza. La squadra di Reggio Emilia era, è e resterà per sempre la Reggiana. Se si avesse avuto l’intelligenza di capire sin da subito tutto ciò ne avrebbero giovato anche (e soprattutto?) i tifosi sassolesi. Mi esimo, come detto, di tornare sulle vicende legali e su tutte le teorie complottiste e mal pensanti che si potrebbero fare, ma mi limito a dire che buona parte della dirigenza del Sassuolo, assieme a una frangia della politica e dell’imprenditoria locale, non ha fatto nulla per rendersi quantomeno “simpatica” o al massimo indifferente. Non lo è stata a Modena per i pochi anni dove i neroverdi hanno giocato, non lo è nella città del Tricolore, dove, anzi, è riuscita nell’impresa di tirarsi dietro l’antipatia di buona parte dell’Italia del calcio. Impresa titanica se ci si pensa: di solito il tifoso medio e il fruitore più grossolano del pallone, ama ciò che viene spacciato come favola. In questo caso suddetto idillio è durato, forse, quattro mesi. Fatevi una domanda, datevi una risposta.
Nell’estate passata, il gruppo che dal 2019 ha riportato il discorso ultras al seguito del Sassuolo ha organizzato una serata per dimostrare come sia ancora possibile restituire la squadra alla propria città. Un tentativo da non sottovalutare, né minimizzare. Un tentativo che, ovviamente, trova lo scetticismo anche di molti stessi tifosi neroverdi, che vedono nella grandezza delle opere targate Mapei un punto inamovibile e difficile da ricollocare nella città di appartenenza. Eppure, la questione sta tutta qua: bisogna uscire dalla prigionia della narrazione ufficiale e cercare di vedere le cose da una normale prospettiva. La prospettiva di tanti club europei provenienti da piccoli centri ma ugualmente competitivi e, soprattutto, “padroni” della propria casa. Viene da chiedere, ad esempio, perché nel tempo ci si sia impegnati a costruire strutture come il Mapei Center (grande area dotata di diversi impianti, tra cui quattro campi di calcio, inaugurata nel 2019 per ospitare differenti comparti del Sassuolo Calcio, nonché magazzini e una sala stampa) e mai a trovare uno spazio adatto dove erigere un nuovo impianto, semmai il Ricci non si fosse creduto idoneo a una ristrutturazione adatta alla categoria (eppure in vista del salto in Serie B era stata fatta anche una prima bozza di progetto…)? Tra stadio di Reggio Emilia, Mapei Center e opere varie, il denaro speso, il tempo e gli sforzi impiegati sarebbero stati più che sufficienti per riavvicinare il club alla propria gente. La risposta forse è sempre quella: interessi più grandi e convenienti hanno fatto sì che a pochi – se non a nessuno – interessasse della propria gente. Ecco perché con questo articolo ci tengo che emerga anche l’altra parte della medaglia. Perché va sottolineato come le vittime siano veramente su ambo i lati. Anzi, la vittima principale è una sola: il calcio intenso come sport di aggregazione e appartenenza. Quello con cui siamo cresciuti nelle strade, anziché negli uffici e nelle sale istituzionali.
La partita di questa sera, dunque, non è certo lo scontro e il confronto fra le tifoserie. Ma la rivendicazione tout court dell’anima del pallone. Non a caso tra le due tifoserie non esiste nessun tipo di acredine, ognuno ha le sue rivalità e le sue antipatie. Anzi, volendo vederla in modo trasversale, stasera sia sassolesi che reggiani hanno espresso tutto il loro disappunto. Su fronte granata, ovviamente, era prevedibile e scontato. Tra cori, striscioni e un’eloquente coreografia in Tribuna, i padroni di casa hanno rivendicato tutto quello per cui lottano da oltre dieci anni. Quel grido “Via il Sassuolo da Reggio Emilia” non l’ho sentito come un canto ostile verso i tifosi dirimpettai, ma come la normale reazione a un corpo estraneo che da troppo tempo viene percepito come sgradevole invasore. Ed esattamente come avviene al cospetto di un invasore, infatti, il pubblico della Regia in questi anni si è compattato, ha allargato ulteriormente i ranghi, ha marciato insieme per le vie della città sfidando i fattori e i personaggi avversi (spesso serpi in seno, diciamolo), e ha occupato le gradinate del Città del Tricolore (che poi, secondo me, è il nome più degno che questo stadio possa avere, eludendo qualsiasi riferimento commerciale come possono essere Giglio e Mapei). Dall’altra parte, i neroverdi – come accennato – hanno sottolineato con uno striscione come anche per loro non sia una gioia essere sempre in trasferta e anche generazioni che il Ricci non l’hanno mai vissuto concordino sull’importanza della comunità e del rapporto con la stessa. Quanti di noi avrebbero cominciato a seguire la squadra del cuore da piccoli se la stessa avesse giocano a decine di chilometri pure quando disputava le partite casalinghe? Sappiamo bene che soprattutto in realtà di paese, è la vicinanza, l’essere stretti gli uni agli altri, a creare seguito e unità. Non certo la grandezza di uno stadio perennemente vuoto!
Al netto delle solite, ridicole, limitazioni targate Osservatorio Nazionale sul Nulla (concedetemi la licenza poetica), gli spettatori presenti sono circa diecimila, con 729 biglietti venduti a Sassuolo. Tanti? Pochi? L’analisi di cui sopra sicuramente spiega perché i neroverdi non possano aver ampliato in modo importante la loro base in questi anni. Aggiungiamoci che parliamo pur sempre di una città di quarantamila abitanti, incastonata tra veri e propri mostri sacri del calcio italiano come Reggiana, Modena, Parma e Bologna. In zone dove, peraltro, la percentuale di tifosi milanisti, interisti e juventini è notevole. Anzi, aggiungo che se negli ultimi anni non si fosse ricostituito un contingente ultras, probabilmente stasera al seguito del Sassuolo ci sarebbero stati meno spettatori. Perché sì, piaccia o meno, da Nord a Sud il motore che traina e crea quell’entusiasmo indispensabile a viaggiare e creare un sentimento comune è rappresentato proprio dal tifo organizzato. E su questo tema bisogna, dunque, dar atto ai ragazzi che hanno ripreso striscioni, megafono e tamburo, sfidando l’essere militanti nel 2024 e rimettendo mese dopo mese un mattoncino in più per costruire qualcosa. A me la loro prestazione di stasera è piaciuta: colore, tifo per tutti i novanta minuti, un paio di sbandierate, qualche flash acceso e la netta sensazione che la discesa in cadetteria gli abbia fatto più che bene, dandogli la possibilità di viaggiare al di fuori di stadi tanto belli quanto noiosi come quelli di Roma, Milano e Torino, e assaporare di più il proprio percorso. Cosa che sembra avergli anche avvicinato la porzione di tifoseria meno calda. Le cose bisogna sempre vederle nella loro proporzione e nel loro contesto. Quindi a Sassuolo e non a Reggio Emilia. In trasferta al Città del Tricolore e non nella curva di casa. E per quanto spesso si tenda a fare di tutta l’erba un fascio, penso sia indubbio che questi ragazzi abbiano un loro pensiero e provino con fatica e convinzione a portarlo avanti ed espanderlo nella loro città.
D’altro canto il pubblico e gli ultras della Reggiana non hanno bisogno del mio elogio, sicuramente. Sono un’entità la cui storia parla da sé e che queste ultime stagioni hanno contribuito a riportare in un campionato che la città aspettava da anni e che oggi è chiamata a difendere con le unghie e con i denti. A differenza dei dirimpettai che, come dimostrerà lo 0-2 finale, sono attualmente di un altro livello sul terreno di gioco. Il tifo dei granata sarà continuo per tutta la partita, come sempre diviso tra la Sud e la parte di Tribuna dove prende posto il Gruppo Vandelli. Molto belle le due sciarpate eseguite prima e durante la partita, colorate da numerosi fumogeni accesi. Al triplice fischio il pubblico di casa richiama la squadra per applaudirla e spronarla, conscio della differenza di valore con l’avversario odierno ma volenteroso di comunicare tutta la propria vicinanza. Un leggera nebbia comincia a scendere, mescolandosi all’umidità che rende lo stadio tutt’altro che ospitale. Rimango un altro po’ all’interno delle gradinate, il tempo necessario per vedere l’abbraccio tra il Sassuolo e i suoi tifosi e sentire gli ultimi cori con cui i reggiani rivendicano il proprio spazio e il proprio stadio. Intorno alle 23 abbandono la tribuna, incamminandomi verso la stazione, dove l’ultimo treno utile mi porterà a Bologna, giusto in tempo per prendere il pullman con destinazione Roma. Al di là del tifo e degli ultras, penso che questa fosse una partita storica nel suo genere, a cui assistere per avere l’ennesima conferma su quanto detto per buona parte di questo articolo: l’appartenenza non la cancelli con le categorie o mischiando le carte. Sarebbe bello se tutti gli attori in gioco riuscissero a fare un passo indietro, facendo tornare ognuno al proprio posto e ridando l’opportunità a Sassuolo di riabbracciare la propria squadra dopo oltre un decennio. Chissà se questa rimarrà per sempre un’utopia. Sicuramente però un concetto ne esce nitido: magari gli stadi si vuoteranno e a seguire le gesta di ventidue sconosciuti dalla tecnica discutibile rimarranno in pochi, ma nella storia nessuna bandiera si muoverà dalla propria terra senza essere difesa e rivendicata.
Simone Meloni