Tra il sinuoso profilo di Scilla e le prime case di Reggio Calabria, l’autostrada passa attraverso numerose gallerie e, puntualmente, tra l’una e l’altra regala scorci mozzafiato sul Tirreno. Con la sagoma di Stromboli e le coste sicule che si stagliano nitide, tanto vicine che sembra quasi di toccarle con mano. Le onde rabbiose si infrangono sulle spiagge, unendosi al cielo livido, che in più occasioni sversa secchiate d’acqua sulla strada, catapultando questo finale di bella stagione nel pieno dell’autunno novembrino. Sebbene il calendario ci inchiodi ancora a settembre, ricordandoci che il campionato è da poco iniziato e – in genere – in molti ne approfittino per fare la spola tra l’ultima tintarella e le gradinate. Molto particolare, per me, ritrovarmi ancora una volta a queste latitudini. A distanza di qualche settimana dal bellissimo cicloviaggio che mi ha portato attraverso tutta la Calabria interna, dal Pollino all’Aspromonte, con traguardo finale proprio sul celebre Lungomare Falcomatà. Il vero e proprio “balcone” di quella che fu in origine Rhegion, antica e fiorente colonia greca, fondata nel III millennio a.C. dai popoli italici stanziati in questa zona e, successivamente, avamposto anche della marina militare romana. Un crocevia dove la storia ha insistito e lasciato i suoi segni, tanto da trovare – ancora oggi – nomi e dialetti che si rifanno al greco bizantino (nella zona Grecanica, per l’appunto), così come tutto uno stuolo di costumi e tradizioni che affondano nella radici millenarie di questa terra.
Dopo due fallimenti nel giro di poche stagioni, il popolo reggino si appresta a riabbracciare la propria squadra tra le mura amiche, al termine di un’estate che ha quantomeno riportato nome e simbolo storico al loro posto. Un andamento alquanto travagliato quello degli ultimi dieci anni. Un trapasso lento e doloroso dai tripudi della Serie A e del Granillo sempre esaurito, ai campi amari del dilettantismo. Per poi riconquistare la cadetteria nel 2020 e vedersi nuovamente esclusi, tre anni più tardi, per inadempienze finanziare. Costringendo un “nuovo” sodalizio a ripartire dalla Serie D, con il nome di Fenice Amaranto e con tutto ciò che ne è conseguito per la piazza. Basti pensare che in molti, lo scorso anno, hanno preferito non seguire le sorti del club, non riconoscendone ancora totalmente la legittimità e tornando soltanto questa stagione. Storie, quelle che hanno riguardato la Reggina e i suoi tifosi, ahinoi comuni e simili per molte altre società italiane. Tanto che ormai quasi non fanno più notizia. Storie che però vanno ineluttabilmente a colpire nel cuore tutto l’ecosistema di una tifoseria e della sua militanza. Dal seguito “normale” a quello organizzato. Inoltre, quando si parla di Reggio Calabria, c’è giocoforza da tener conto delle tante vicissitudini che hanno riguardato la Curva Sud negli ultimi dieci anni, con il progressivo avvicendarsi delle nuove generazioni ai gruppi che storicamente hanno composto e retto la colonna ultras per quasi trent’anni.
Faccio un lungo passo indietro. Stagione 1999/2000, la prima degli amaranto in Serie A. Ho il nitido ricordo della loro presenza allo stadio Olimpico. E non solo per i numeri (in quegli anni bene o male tutte le tifoserie meridionali erano solite portare grandi folle nella Capitale) ma soprattutto per la possenza e la continuità del tifo. Doti forgiate, sicuramente, anche dall’inaspettata vittoria per 0-2 (Cozza e Cirillo i marcatori). Probabilmente parliamo di una delle performance meglio riuscite per quel “sodalizio” composto e prodotto da Boys, CUCN, Ultras Gebbione e Irriducibili, in quel momento storico bravo a utilizzare come volano l’apice calcistico del club. E concretizzare un retroterra che comunque raccontava una storia notevole in fatto di tradizione e militanza. Con gruppi come i Warriors o i Position Fighters che si erano affacciati sugli spalti del vecchio stadio già negli anni settanta, aiutati anche dall’effervescenza di una città dove l’attività stradaiola, in fatto di militanza politica, era nota a livello nazionale già dall’inizio di quel decennio, con i Moti per Reggio Capoluogo capeggiati dall’attivista dell’MSI Ciccio Franco che avevano costituito la prima vera (e forse unica) occasione di violenta rivolta popolare nei confronti dello Stato nel dopoguerra, tanto da costringere il Ministero degli Interni a inviare l’esercito per acquietare la situazione. La prima metà degli anni duemila, dunque, è stata quella che ha probabilmente permesso di raccogliere i frutti coltivati nei decenni precedenti (anche grazie alle fortune sportive ovviamente) e ha suggellato personaggi e gruppi di quelle generazioni.
Tornando all’incipit del precedente paragrafo: da quella stagione in poi, mi è capitato in più di un’occasione di visitare il Granillo, da semplice tifoso ospite e non – come oggi – nelle vesti di cronista. E senza dubbio la genesi postuma alla mia ultima partita vista a queste latitudini, è stata importante e per certi versi di rottura. Come detto, ormai, tutti i gruppi storici hanno riposto gli striscioni, lasciando spazio alle nuove generazioni e al loro modo di intendere lo stadio. Concezione ovviamente figlia anche degli anni difficili in tema di repressione e oppressione istituzionale. La linea tracciata inizialmente dal gruppo 1914 – oltranzista sotto taluni aspetti, vogliosa di dare una sterzata ma anche di difendere il germe ultras, messo a serio repentaglio dalle rappresaglie statali, che in quel momento stavano inesorabilmente stravolgendo il mondo dello stadio tra tessera, divieti e nuovi slanci afflittivi aggiunti alle già severe e ridondanti leggi in fatto di violenza negli stadi -, sebbene abbia subito attacchi sfiancanti e mortiferi da parte delle Questure, è riuscita complessivamente a rimanere il fil rouge che ancora oggi guida “ideologicamente” la Sud. Con dei capisaldi che restano vivi e permettono quantomeno di non stravolgere troppo la forma mentis di ragazzi che non vogliono diventare burattini dei soliti noti per “esercitare” la propria fede. Sicuramente agli occhi esterni risaltano soprattutto due sigle che hanno contraddistinto in queste ultime stagioni la tifoseria calabrese: Dignità (dietro cui si riconoscevano i 1914 il primo anno di D) e Diffidati Liberi, allargata nei ranghi e confluita quest’oggi nel progetto Curva Sud – che lo scorso anno, per le questioni di nome e simbolo di cui sopra, aveva accantonato i loro striscioni in luogo di un significativo Identità e Tradizione. Insegne che hanno rappresentato momenti diversi ma complementari e che sono state fondamentali nella creazione dell’attuale progetto unitario, dove oggi sono convogliati anche alcuni esponenti dei vecchi gruppi o delle compagnie storicamente provenienti dalla provincia. E se è vero, come è vero, che anche io sovente mi chiedo se nell’era che viviamo abbia senso assumere posizioni troppo estreme, che giocoforza portano a pagarne le conseguenze con la morte o la fine di un movimento, è anche vero che d’altra parte, se non apprezziamo chi prova a portare avanti, anche per un breve segmento, un qualcosa di puro e ribelle, cosa resta davvero dello spirito ultras? E i giovani, le nuove generazioni, chi si avvicina oggi agli spalti, dovendo faticare dieci volte tanto in termini di ostacoli e repressione, hanno tutto il diritto di vivere le proprie esperienze e perorare il proprio credo. Anche e soprattutto per mantenere alto il nome di un settore e della tifoseria.
Arrivo nei pressi dello stadio quando mancano quarantacinque minuti al fischio d’inizio. Per l’occasione saranno 3.545 gli spettatori, di cui 2.239 abbonati. Numeri sicuramente importanti, anche tenendo conto del contraccolpo psicologico dovuto al doppio salto carpiato all’indietro di due anni fa, che ha portato gli amaranto direttamente dai playoff per la Serie A contro il SudTirol all’esordio sul neutro di Locri contro il San Luca, lo scorso anno, a stagione già cominciata. Per la prima volta sono pronto a metter piede sul manto verde del Granillo, cosa che nel mio piccolo ritengo alquanto emozionante. Questo prato è stato calpestato da alcuni tra i più grandi del calcio italiano. Da Totti a Baggio, passando per Ronaldo, Del Piero, Zidane, Toni, Crespo, Batistuta, Maldini, Nesta etc. Ma anche da mitici bomber di provincia come Hubner, Maniero e Di Natale. Qua si è consumata parte dell’epica impresa della Reggina di Mazzarri, che nel 2007 riuscì a salvarsi malgrado i quindici punti di penalizzazione inflitti per lo scandalo Calciopoli. E sempre qua, infine, nel 2006, presi talmente tanta acqua in un Reggina-Roma 1-0, che tornai a casa con 38.7 di febbre (sic!). Avversaria di turno è la neopromossa Scafatese, società che dopo anni di polvere mangiata nel dilettantismo campano è riuscita a rialzare la testa, grazie all’acquisizione avvenuta in estate da parte dell’ex proprietario del San Marzano, Felice Romano, che proprio a Scafati ha portato il titolo di questi ultimi. La piazza gialloblù ha risposto alla grande, affollando le gradinate sin dalla fase di presentazione dei giocatori e compattandosi dietro le sigle del tifo. In estate, dopo lo scioglimento della Nuova Guardia, il tifo canarino si è ricompattato dietro alcune nuove sigle, che sono andate a prendere posto in Curva Sud. Altra, positiva, novità per quest’annata. Faccio una dovuta premessa: se dicessi di appoggiare pratiche come ripescaggi o trasferimento di titoli da una città all’altra, direi una cosa per me contro natura. Tuttavia conoscendo un po’ l’abnegazione e la continuità con cui gli ultras scafatesi hanno seguito e lottato per la loro squadra, anche in anni in cui società di faccendieri improvvisati si sono messi al timone del club, mi sento di dire che la Serie D è comunque una categoria che li premia nella giusta misura. E che se disputata con i giusti “ritmi” può davvero restituire passione e attaccamento a una comunità decisamente folta, sia da un punto di vista della popolazione che delle tradizione sportiva.
In riva al Sarno sono stati staccati 187 biglietti, cifra di tutto rispetto se si considera che – eccezion fatta per quelle siciliane – con i suoi 470 km è la più distante del campionato e gli scafatesi vengono da annate anonime, in cui formare un seguito al di fuori dello zoccolo ultras era pressoché impossibile. Dal canto suo, la Sud è impegnata a preparare la cartata con cui saluterà l’ingresso delle formazioni in campo. Oltre al ritorno dello striscione centrale e del drappo Diffidati Liberi – presente in balaustra – sono tornati al loro posto anche i bandieroni, mentre nelle tribuna coperta si notano un paio di bandiere attaccate con la scritta Warriors, in omaggio allo storico gruppo amaranto. Quando mancano pochi minuti al fischio d’inizio sento i cori degli ospiti venire da fuori e intuisco che la polizia sta portando per le lunghe controlli e perquisizione. Infatti i campani vengono costretti a entrare alla spicciolata e tutti rigorosamente ripresi. Non voglio entrare nel merito del lavoro svolto dalla Questura di Reggio, ma ammetto di rimanere sempre basito da questa zelante capillarità in occasione di partite dove non sussiste alcuna rivalità e in stadi che, peraltro, hanno disputato campionati ben più ragguardevoli dal punto di vista del pericolo di incidenti. Ma del resto il morboso controllo dei supporter del Canarino andrà avanti per tutti i 90′, con particolare “censura” per il largo utilizzo della pirotecnica fatto durante il tifo. Momento populista: se si utilizzasse questo rigore e questo eccesso di controllo in altri comparti di questo Paese, probabilmente saremmo al pari della Svizzera. Ma è vero, quasi dimenticavo: ormai bisogna addirittura ringraziare il fatto che taluni organi concedano ai loro sudditi di seguire la propria squadra in trasferta. Permettendogli addirittura di spostarsi liberamente sul territorio nazionale e accedere a un luogo pubblico come lo stadio!
Quando le due squadre entrano in campo, finalmente inizia anche la sfida canora tra le due fazioni. I reggini si esibiscono in una bella cartata, sostenendo poi a gran voce la propria squadra. Nel primo tempo la performance degli amaranto è più che buona, caratterizzata da cori lunghi, a rispondere e dal continuo sventolio dei bandieroni. Caleranno leggermente nella ripresa, con la squadra in svantaggio, che si avvia lentamente verso la prima sconfitta stagionale. Un piacere notare la presenza di molti giovani in Sud, segno che il ricambio generazionale iniziato qualche anno fa è andato avanti appieno e inesorabilmente. Cosa non affatto scontata se si tiene conto dei tracolli sportivi e del poco appeal che questa categoria può avere sui più “piccoli”. Ecco perché il compito fondamentale delle vecchie generazioni è quello di tramandare la fede, il senso di appartenenza. Di sottrarre con la forza seguito e simpatie agli squadroni del Nord, instillando nella mente dei ragazzi l’importanza di rappresentare la propria identità, anche e soprattutto attraverso il calcio e i suoi colori. Un discorso che possibilmente va anche oltre lo stadio e che forse va anche contro i tempi e la tendenza corrente, poco incline a favorire la difesa delle identità, soprattutto se territoriali, in favore dell’omologazione più grigia e bieca.
Tornando al tifo, lodevole e davvero buona la prova degli scafatesi. Tanta voce dal primo al novantesimo minuto, bandiere al vento, una sciarpata finale e tanta pirotecnica, che non guasta mai. Stile campano al cento per cento: tanta assiduità e compattezza, nonché voglia di dimostrare che la Scafati Ultras è viva e vuol dimostrare tutto il suo valore. I tre punti, storici, maturati con fatica fanno ovviamente esplodere il settore, che dopo il triplice fischio accoglie e saluta la squadra con cori di giubilo. Un successo che conferma la bontà della rosa gialloblù e regala a un’intera città il sogno di poter competere fino alla fine nelle prime posizioni. Anche i calciatori di casa si portano sotto la loro curva, che li incita malgrado la sconfitta. Del resto il campionato è lungo e sicuramente non è questa la giornata per contestare. Lentamente il Granillo comincia a svuotarsi, mentre le nuvole che hanno minacciato pioggia per tutto il pomeriggio, vengono spazzate via dal vento. Mi aspetta un lungo viaggio di ritorno, ma la cosa non mi deprime né mi tedia. Tornare a Reggio Calabria a distanza di molti anni mi ha dato la possibilità di osservare la realtà locale con altri occhi e con altre elaborazioni mentali. A volte la lontananza geografica può non far vedere nitidamente cosa accade in un dato luogo, perciò c’è sempre bisogno di vivere almeno un giorno uno stadio, una curva, una tifoseria e coglierne i momenti salienti e gli umori più tangibili. Riguardo per l’ultima volta il maestoso panorama correre ai lati dell’autostrada, con la luce diurna che va nascondendosi all’orizzonte e le aspre bellezze di questa terra che mi danno appuntamento alla prossima volta. Un’altra stagione è ufficialmente iniziata e anche se non me ne rendo conto, anche se faccio fatica a riprendere i ritmi, mi preparo a mettere nero su bianco quanto ho visto e vissuto. Con la lunga distanza da casa mia, adesso idealmente assottigliata.
Simone Meloni