Il 7 maggio 2014 si è concluso il primo grado del processo riguardante le proteste di Pianura contro la riapertura della discarica. Il Tribunale ha accolto interamente la tesi del pubblico ministero, secondo cui gli eventi accaduti nel gennaio del 2008 non sono da inquadrare all’interno di una protesta legittima, ma sono il frutto dell’agire di un gruppo di soliti noti incline allo scontro fine a se stesso, allo stadio come in piazza. Per i venti imputati di questo processo (dei quali non tutti collegati con le proteste di Pianura, ma condannati unicamente per reati da stadio), sono state inflitte delle condanne che oscillano dai 12 ai 2 anni di reclusione, per reati di devastazione, associazione a delinquere, sequestro di persona, incendio, resistenza a pubblico ufficiale, e così via. La giuria ha emesso il suo verdetto. E molti, forse troppi, una volta stabilita la verità processuale reputano soddisfatto il proprio senso di giustizia. Il nostro senso di giustizia, però, non permette di rassegnarci alle pretese di chi stabilisce per legge la verità; piuttosto ci spinge a prendere posizione e ribadire con forza la nostra versione dei fatti. Ci hanno definito scagnozzi, meri esecutori utili ai fini elettorali di un politico locale. Ci hanno definito teppisti, sempre pronti ad approfittare di ogni momento di conflitto con gli esecutori degli ordini, per dar sfogo alla nostra presunta sete di violenza. Ci hanno definito camorristi, mentendo spudoratamente pur di screditarci sin da subito agli occhi dell’opinione pubblica. Ci hanno definito ultras, che nella loro accezione del termine vuol dire violenza gratuita e indiscriminata. Ci hanno condannato (anche se solo alcuni, è come se lo fossimo tutti) con la stessa veemenza con cui si colpisce chi ha compiuto una strage di mafia. Ma non una parola è stata spesa riguardo alla nostra presenza nel quartiere di Pianura, quartiere di appartenenza della maggior parte degli imputati. Nessun cenno riguardo gli effetti nefasti della discarica di Pianura e le sue ripercussioni, ancora oggi evidenti sulla popolazione e sull’ambiente circostanti. E che dire dell’assoluto silenzio sulle varie inchieste farsa, tutte concluse in un pugno di mosche, dove nomi e cognomi dei responsabili della reale devastazione del nostro territorio (o vogliamo chiamarla strage?) sono rimasti nient’altro che semplici parole su foglio di carta? Forse perché alcuni nomi sono più intoccabili di altri? O forse più semplicemente perché non è stabilire la verità quel che davvero interessa alla giustizia? A nostro avviso, qualcuno doveva pur pagare per la magra figura fatta dalle istituzioni durante le proteste di Pianura: la perdita di consenso e di controllo di un intero quartiere, l’incompetenza nel gestire la situazione e il fallimento dell’uso della forza per riportare l’ordine non potevano rimanere degli affronti impuniti. A nostro avviso, quel qualcuno siamo noi, e il processo che ci riguarda non rappresenta altro che una vendetta annunciata. Una vendetta, a dirla tutta, più di principio che altro: per chi l’avesse dimenticato, la discarica di Pianura non è stata mai riaperta anche a causa della stessa magistratura, che pose i terreni sotto sequestro proprio a causa dell’alto tasso d’inquinamento riscontrato. Una vendetta, per lo Stato, dal sapore più dolce a causa dell’indole e delle posizioni che ci contraddistinguono, poiché non siamo né integrabili né compatibili con questo sistema traboccante servilismo e infamità. Qualunque sia l’esito di questa farsa, non ritratteremo le nostre scelte. Abbiamo fatto ciò che reputavamo giusto, e siamo pronti a rifarlo altre mille volte. Agli avvocati il compito di smontare questa montatura giudiziaria. A noi quello di continuare a non abbassare la testa. Fratelli, amici, compagni e solidali, con voi, spalla a spalla nelle strade.
Alcuni degli imputati
Napoli, luglio 2014