Si respira profumo di storia al “Romeo Neri” di Rimini, dove in settimana i biancorossi hanno alzato al cielo la Coppa Italia di C dopo il pareggio a reti bianche contro il Giana Erminio, già battuto all’andata a Gorgonzola. Davanti a 6.029 spettatori (tutta esaurita la disponibilità di biglietti), si è vissuta una giornata d’altri tempi, un ritorno di fiamma dopo anni di fallimenti e delusioni. Già l’anno scorso la compagine presieduta da Stefania Di Salvo c’era andata vicinissimo, fermandosi sfortunatamente solo in semifinale contro il Catania (1-0 all’andata, 0-2 al ritorno).

Questo recente trionfo è quanto di più prossimo ai gloriosi anni del patron Vincenzo Bellavista e a quel quinto posto in B della stagione 2006-07. Anni in cui i romagnoli potevano sognare anche la Serie A attraverso la lotteria dei playoff, se non fosse per la contemporanea presenza di Juventus, Napoli e Genoa che cannibalizzarono la classifica, invalidando da regolamento gli spareggi finali visti i dieci punti di distacco tra terza e quarta.

Dopo la morte di Bellavista nel maggio di quello stesso 2007, la maglia a scacchi biancorossi conobbe due fallimenti, tre retrocessioni e quattro salvezze ai playout, ragion per cui questo minimo di continuità recente, unita ai progetti in cantiere per il nuovo stadio, sembrano davvero oro che luccica, seppur la tifoseria organizzata non sia di certo preda a facili idolatrie o isterismi.

Mi aspetto dunque una sorta di passerella d’onore per la squadra di mister Buscè, così approfitto per tornare anche io a Rimini, dove nei miei primi anni da romagnolo adottivo saltavo massimo una-due gare l’anno, ora invece ne faccio massimo una-due per stagione, ritornandovi non a caso dopo il derby contro il Cesena del febbraio 2024. Bella partita per inciso, con i cesenati forti della loro indiscutibile maggior tradizione, ma riminesi veramente carichi e motivati.

Peccato però non aver messo in conto la pioggia, pesante e insistente al punto che, solo cinque giorni dopo il record positivo di spettatori, si registra quello che teoricamente è il peggior dato numerico dell’anno. Numeri alla mano non sarebbe così, visto che le 2.753 presenze dichiarate attestano questo match al di sopra di diversi altri giocatisi quest’anno, ma è incontrovertibile che la stragrande maggioranza dei 2.005 abbonati abbia deciso quest’oggi di evitarsi un bagno prima della stagione estiva. Si potrebbero aprire due parentesi, a questo punto: una sul conteggio posticcio degli spettatori che include sempre e comunque tutti gli abbonati e non gli effettivi sugli spalti; due, chiedere perché nel ventunesimo secolo si debba pagare un occhio della faccia per una partita, per vedere spettacoli spesso discutibili e in più, come in quest’occasione, ricevere pure un’influenza come ringraziamento. Certo, l’epica del tifo si alimenta anche di avversità e sono spesso proprio giornate meteorologicamente nefaste a comporre il libro dei ricordi più particolari, ma a questo punto almeno abbassassero i prezzi.

Restando sulle volgarissime questioni numeriche, sono 402 i biglietti venduti a Campobasso e anche qui, volgendo lo sguardo al settore riservato agli ospiti, viene più di qualche ragionevole dubbio sull’effettiva presenza di tutti. All’inizio la discrepanza è vertiginosa, in pratica il calcio d’avvio avviene al cospetto di una manciata di tifosi rossoblù, e solo qualche minuto dopo faranno irruzione sulla scena i gruppi del tifo organizzato campobassano. Dopo aver sfilato sui gradoni, fra gli applausi dei loro compaesani già presenti, sistemano in tutta fretta l’unico striscione “INDEGNI” (in seconda battuta sormontato dalla piccola pezza “Diffidati con noi”) e altrettanto celermente, si compattano e iniziano a tifare con veemenza.

Se devo essere sincero fino in fondo, mi sorprende la radicale presa di posizione dei molisani: mi stupisce che una compagine neopromossa, ormai prossima al dichiarato obiettivo salvezza, venga così contestata. D’altro canto è pur vero che dopo un inizio con il coltello fra i denti per arrembare la categoria, la loro compagine si sia un po’ seduta sugli allori, perdendo quello spirito iniziale e pensando più a gestire il vantaggio che costruirselo con impeto e il prima possibile. Fra le gare che non si riesce a vincere, ai tifosi notoriamente piacerebbe piuttosto perderne qualcuna in più combattendo, che non pareggiarle tutte ma solo col mestiere. Poi comunque, come nel frangente odierno, gli ultras non fanno mai mancare il loro generico appoggio alla maglia, impostando la pur dura critica in termini costruttivi, quindi alla fine hanno ragione loro, a maggior ragione che di questa realtà ne conoscono virtù e vizi, dunque chi meglio di loro può sapere cos’è giusto fare o no?

Oltre all’assenza di striscioni o pezze di gruppo, il loro stile risulta nel complesso molto asciutto. Nessun’altra bandiera o due aste (se non una bandierina palestinese), puntano tutto fortissimo su mani e voce. Prediligono per lo più ritmi cadenzati e secchi ma non disdegnano stemperare con un po’ di ritmo, di tanto in tanto. Nei loro motivi c’è l’italiano, c’è l’inglese (Wolf! Wolf! Wolf!), c’è anche il dialetto: insomma c’è tutto. Gli intervalli fra un coro e un altro sono abbastanza netti, ma quando ripartono lo fanno sempre tutti insieme, compatti e convinti per un tifo che è davvero molto, molto positivo. Avvalorato ancor più da una gara in campo in cui i loro non entusiasmano, non si vedono letteralmente mai dalle parti del Rimini, a sua volta vicino al goal in due occasioni ma evidentemente troppo pago per spingere sull’acceleratore. In tal senso è opportuno ricordare che la vincente della Coppa Italia è qualificata di diritto ai playoff, saltando oltretutto la fase intra-girone ed entrando in campo direttamente nella successiva fase nazionale. Ergo, perché giocare forte con il rischio di farsi male e perdere qualcuno per la più importante coda finale della stagione?

Fin dall’inizio, in assenza di dirimpettai, è stata la Est di casa a catalizzare il mio sguardo. Sinceramente ammetto di avere un debole per la tifoseria riminese, perché Rimini è stata la mia prima casa della mia vita da “adulto”, o più probabilmente perché, con il mio background passato di ultras di una squadra minore, mi rispecchio molto più volentieri negli ideali e negli approcci di una tifoseria relativamente piccola, conscia dei suoi limiti, che testardamente prova a spingere ogni volta più avanti. Altrettanto onestamente ammetto che i numeri mi lasciano molto deluso, non mi aspettavo certo gli stessi seimila di Coppa ma nemmeno così pochi. E sì che la pioggia cade copiosa, ma alla fine, e come sempre, gli unici a cui inversamente dovrebbero rivolgersi tutti, calciatori compresi, tributando un onorifico applauso sono proprio gli ultras. Hanno attraversato ogni tipo di avversità e sono sempre lì, dopo esser passati indenni a tutte le alterne fortune calcistiche, le ondate repressive, lo stillicidio di diffide, gli scioglimenti naturale o obbligati.

L’assenza che fa più rumore è quella del resto del pubblico, quello non ultras, quello di clienti con cui i vertici del mondo del calcio vorrebbero attuare quella sorta di “sostituzione etnica” (uso un termine complottistico inesatto: sarebbe, al massimo, più una sostituzione “di classe”) che in parte è già avvenuta. Lo si evince proprio in questi sbalzi numerici atroci a cavallo fra grandi eventi e partite ordinarie. Lo si evince (in linea generale) anche da un punto di vista qualitativo, con la partecipazione del cosiddetto “pubblico normale” che è diventata molto più sporadica se non del tutto assente: in passato era comune trovare curve intere (a volte due) con il sangue agli occhi, a sostegno fattivo del tifo degli ultras, con i distinti e talvolta anche le tribune a fare al massimo da appoggio sonoro con battimani e unendosi a qualche coro coinvolgente nei momenti clou. Oggi è rimasto lo zoccolo duro dei gruppi a tifare incessantemente, tribune e distinti per lo più silenti e quella schiera di sostenitori estemporanei che lì vi si trovava, pare per lo più essersi spostata ai margini delle curve, dove di tanto in tanto batte le mani o canticchia qualche coro all’inizio o dopo i goal.

Nella Est quest’oggi e con il diluvio universale in atto, sono rimasti letteralmente solo gli ultras. Disposti più verso la destra del settore, laddove nelle gare con il pienone scelgono il centro per coordinare meglio il tifo. Si raccolgono dietro lo striscione principale, “Curva Est Rimini”, sormontato al centro dalla pezza giallorossa “1923” dei gemellati di Cattolica (di cui si vede anche una bandierina). Sfidando il cielo e l’acqua che le appesantisce, sventolano con buona costanza tre bandieroni, mentre dall’ingresso delle squadre in campo (quando è naturalmente molto più corposa…) in poi, si intravede diversa pirotecnica. Sempre innescata di nascosto, fra le gambe dei presenti che di sti tempi una torcia costa penalmente come un pugnale inferto al cuore di qualcuno. Il loro tifo vocale è proporzionalmente molto positivo. All’occhio sembrano meno compatti dei dirimpettai, un po’ più dispersi nel settore dove trovano molta meno partecipazione dal pubblico normale, ma forse perché conoscono la logistica e l’acustica del proprio impianto come la loro seconda casa, riesco a sentirli bene anche nel primo tempo, quando mi trovo sotto il settore ospiti. Una piacevole alternanza fra cori secchi, ripetuti e più ritmati, accompagnati da tantissimi battimani di supporto: la loro prova risulta in definitiva sorprendentemente positiva e continua, di gran lunga superiore a quel che la giornata lasciasse sperare.

Pochi gli stimoli dalla gara in campo che il Rimini sembrava non avesse interesse a dominare e il Campobasso non ne avesse invece i mezzi. Una classica gara da fine campionato in cui si gioca a non farsi male, uggiosa più del cielo plumbeo. Questo fino al minuto 69′ quando Gagliano del Rimini spezza l’equilibrio. Vantaggio che dura cinque minuti visto che Bifulco realizza il più classico goal degli ex. Poi di nuovo il nulla più cosmico fino al triplice fischio del signor Gandino di Alessandria, che arriva come una benedizione a porre fine a questa lunga doccia non richiesta. Gli ultras di casa, guardando ben oltre le contingenze odierne e ancora ebbri per la coppa, si abbracciano idealmente con la propria squadra accorsa sotto al settore prima di rientrare negli spogliatoi. Braccia alzate in campo e sugli spalti e cori congiunti a ribadire la sinergia fra le parti, in attesa di giocarsi tutte le proprie chance nella futura lotteria dei playoff.

Totale l’indifferenza dei tifosi ospiti verso il proprio undici invece, anche se ormai la salvezza è a un passo e manchi solo la benedizione della matematica a sancirlo. Anche oggi la sensazione, o se vogliamo, quello che i tifosi rimproverano, è che si sia assolto a nulla più che al solito compitino. Che sia vero oppure no, che non sia questione di voglia ma di bagaglio tecnico e umano che più di questo non consente, fatto sta che gli equilibri in casa rossoblù sono saltati. Non resta che aspettare la fine della stagione e ricominciare a tessere daccapo la tela, sicuri di poter contare come sempre sulla tifoseria organizzata. Esattamente come un genitore forse troppo severo, o come un’amante indispettito, non sono certo le difficoltà a poter far venire meno l’amore innato per la squadra che rappresenta la loro terra. Nel secondo tempo li ho visti dalla parte opposta dello stadio, sono rimasti sempre molto compatti. Il poco colore è compensato alla grande da una bella sciarpata. Tante le manate e per quanto visibilmente si diano da fare e, a giudicare dal numero di mani alzate, siano in tanti a partecipare, li sento un po’ meno, anche se trovandomi nei pressi dei locali che hanno continuato a cantare con buona continuità, difficile dire se ciò sia effettivamente dato da un calo o meno.

Complessivamente parlando, la loro prestazione che già solo nei numeri ho trovato superlativa, è stata davvero positiva. Hanno cantato tanto, hanno cantato quasi tutti, nonostante l’acqua e nonostante l’idillio finito con la squadra: li avevo visti l’ultima volta in Romagna Centro-Campobasso, era passato non molto tempo dallo scioglimento degli Smoked Heads e chi ne aveva raccolto il testimone, non era riuscito a rinverdirne i fasti, anzi si può dire tranquillamente che quello è stato forse il loro periodo più buio, a livello ultras, forse degli ultimi venti anni o anche più. Nel caso specifico nemmeno si presentarono alla trasferta. Quella che ho ritrovato è invece una tifoseria rinata, in salute, compatta, pronta a dire la propria o anche addirittura ad imporsi sulla scena appena la propria compagine saprà accendere la miccia dell’entusiasmo.

Ultimato qualche scatto e salutato un paio di amici che erano il motivo principale per cui tornavo su un campo comunque già ottimamente coperto dal collega Giobo Poggi, riguadagno la via di casa con la pioggia che non ne vuol sapere di smetterla. Concedendomi un francesismo, una giornata di merda che però è stata ampiamente ripagata da due ottime tifoserie. Non le voglio e non le posso paragonare alle big del gotha ultras italiano, ma costituiscono quella che è la vera forza e ricchezza della nostra scena nazionale: belli i derby serbi, ungheresi, bulgari o polacchi, ma al di là di questi eventi o delle massime categorie, inabissarsi nei meandri del calcio e trovare la stessa proliferazione quantitativa e qualitativa di gruppi ultras, è un lusso che si possono permettere in pochi. Sperando che l’Osservatorio e i suoi sgherri ce ne concedano ancora il beneficio.

Matteo Falcone