Più di ogni scenografia elaborata e hollywoodiana. Più di ogni spettacolo preconfezionato e calcolato con metro e goniometro fino all’ultimo centimetro. Più di ogni foto da mettere come sfondo, di ogni immagine adatta a costruire reel e di ogni telone computerizzato e realizzato senza anima e senza sudore. Bandiere. Sciarpe. Torce. Fumogeni. I quattro elementi essenziali. I quattro elementi che neanche divieti, restrizioni e proibizionismo sono riusciti mai completamente a debellare. I quattro elementi basilari con cui il tifo da stadio è nato e con cui, un giorno, morirà. La bandiere fatte in casa, comprate alle bancarelle, fatte cucire alla sartoria di zona. Le bandiere con i colori della propria squadra e che solo a guardarle trasmettono la passione primordiale, infantile, quel sentimento che sin da bambini ci ha fatto vedere la sfera di cuoio prima e gli spalti poi con occhi differenti. Segnando un solco tra l’essere semplici appassionati di calcio e diventare ossessionati seguaci della propria squadra e delle sue tradizioni. Ecco perché questo genere di scenografie riesce a “fare proseliti” in modo trasversale, ad accalappiare anche la persona più distante e avulsa dal contesto ultras, che giocoforza si sente però coinvolta, parte dello spettacolo.
Con un comunicato diffuso nelle settimane precedenti la Curva Sud ha chiesto a tutta la tifoseria di venire allo stadio con una bandiera riportante gli esatti colori sociali: giallo ocra e rosso pompeiano. Un invito che ha scatenato una vera e propria caccia al lembo di stoffa e ha messo in moto un meccanismo collettivo, di vera passione popolare applicata al calcio. Forse è questo che ha fatto veramente notizia e che inconsciamente ha fatto strabuzzare gli occhi a molti. Mica perché sia una novità vedere uno stadio italiano imbandierato. Mica perché sia una novità portare aste e stoffa sulle gradinate. Ma perché è certamente l’eccezione nell’epoca dell’estetica minimalista che spesso parte proprio dai gruppi organizzati e dal loro total black. Perché l’autoreferenzialità di cui sovente gli ultras sono protagonisti, si è trasformata in trasversalità omnicomprensiva, diventando la scenografia dei romanisti. E non una scenografia solo e soltanto della Curva Sud. La grandezza di questa serata sta “tutta” qua, ancor più che nella mastodontica e maestosa riuscita. Se delle migliaia di bandiere se ne è parlato per giorni, è perché francamente ha colpito vedere percorrere le vie e i ponti che portano all’Olimpico da migliaia di tifosi che tenevano tra le mani il “feticcio” giallorosso e lo agitavano al cielo, già prima di entrare sulle gradinate. Perché questo ha dato un senso di popolo e attaccamento invincibile di fronte a qualsiasi sconfitta. Ma anche di fronte a qualsiasi decisione proibizionista di matrice prefettizia o questurina!
Il voler coinvolgere tutti i settantamila non è una novità per la tifoseria romanista. Nella fattispecie questa serata richiama appieno un’altra storica giornata, lontana ormai trentanove anni: quel Roma-Juventus del 16 marzo 1986 in cui tutto l’Olimpico venne ricoperto di strisce giallorosse. Sotto a un sole già cocente della primavera capitolina anticipata – che ci regala tutt’oggi foto e video dai colori quasi bruciati – l’idea “folle” di Fausto Iosa (mente pensante e operativa del CUCS) prese corpo e con tutta probabilità spinse in rete i tre palloni calciati da Graziani, Pruzzo e Cerezo, con cui la squadra di Eriksson strapazzò i bianconeri. Un’epoca lontana, a tratti mitologica, che in queste reminiscenze rivive e trasmette anche ai più giovani quel senso di imponenza necessario a considerarsi parte integrante di quanto avviene durante e ai margini di una partita della propria squadra del cuore. Certo rispetto a trentanove anni fa ci sono musiche e speaker che provano a rovinare il tutto, sovrapponendosi e ovattando i cori del pubblico. Che però salgono imperiosi durante l’inno, confondendosi dietro la coltre di fumo che qua e là si leva all’accensione dei fumogeni e protraendosi durante i novanta minuti, accompagnati sempre dallo sventolio e dal tappeto giallo ocra e rosso pompeiano.
Peccato non poter assistere a un confronto vero e proprio con la tifoseria ospite, i cui ultras sono rimasti bloccati in Spagna a causa di problemi con i voli, non riuscendo dunque ad arrivare a destinazione. Durante la sfida viene ricordato Roccia, storico esponente del tifo udinese scomparso in settimana, mentre in Nord viene esposto uno striscione dal carattere sociopolitico (“No U€, No War”) con chiaro riferimento alla situazione ucraina. In campo l’Athletic passa in vantaggio in apertura di secondo tempo, venendo poi successivamente ripreso dal gol di Angelino e superato, nel recupero, dalla rete di Shomurodov che fa letteralmente esplodere l’impianto di Viale dei Gladiatori. Questo articolo esce dopo che la gara di ritorno si sia disputata. Dopo che, quindi, la qualificazione è stata conquistata dai baschi grazie al 3-1 del San Mamés. Resta tuttavia il boato alla marcatura dell’uzbeko, un’esultanza che ha avuto il merito di suggellare la serata per il pubblico romano e, in un certo senso, premiare lo spettacolo visivo e l’atmosfera creata dal tappetto di bandiere, esibite fino all’ultimo secondo nel post partita. A diversi chilometri dallo stadio ci sono ancora macchine con finestrini aperti e aste che fuoriescono, inoltrandosi verso le periferie e tornando nelle proprie case. Verranno riposte, qualcuno le riporterà in trasferta e qualcun altro ancora le incornicerà scrivendoci data e partita. Perché il ricordo di questa serata, alla lunga, sarà più forte e dolce di qualsiasi dispiacere sportivo e tra tanti anni sarà sicuramente verrà ritirato fuori davanti a figli e nipoti, affermando semplicemente: “Io c’ero!”.
Simone Meloni