Arrivo volutamente con una settimana di ritardo sulla pubblicazione di questo articolo. Prima che da osservatore abituale delle vicende romaniste ho voluto far emergere il mio giudizio da abituale frequentatore degli stadi, nonché da appassionato di questo fenomeno di massa – il tifo – che ancora oggi rappresenta personalmente l’espressione più bella, schizofrenica e socialmente emozionante cui l’uomo possa dare vita. Avevo quindi bisogno di qualche giorno per lasciar diradare la sbornia visiva e rumoreggiante lasciata in eredità dalla serata dell’Olimpico. In poche parole credo che lo spettacolo offerto dai 65.000 presenti possa esser riassunto in un semplice, quanto abusato, aggettivo qualificativo della lingua italiana: bello.

Ma prima di dar vita a questo concetto ho cercato di immaginare la stessa serata con vesti diverse. Magari per altre squadre e altre tifoserie. E sono arrivato alla conclusione che a prescindere da chi ne fosse stato artefice, quello prodotto dal pubblico romanista durante la partita col Bodo resti un qualcosa che può solo scaldare il cuore di chiunque abbia lo stadio tatuato nell’anima. Pure fosse il peggior nemico. Perché “noi” viviamo per queste serate e per questo immenso carico emozionale.

Dirò una frase scontata ma che questa volta davvero rende bene il concetto: cosa sarebbe il calcio senza tutto il suo contorno? Senza i cori, senza le bandiere, senza la disperazione per una sconfitta e l’esaltazione per una vittoria? Cosa sarebbe il calcio senza la gente che si ammassa l’una sull’altra a un gol o che decide di svuotare i propri polmoni anche se lo spettacolo in campo è indegno? Cosa sarebbe il calcio senza tutta la sua membrana emotiva? Rimarrebbero undici giocatori (anche discretamente scarsi se prendiamo in oggetto la media italiana), due porte, gli arbitri e le urla degli allenatori a creare una triste eco. Sarebbe il calcio della pandemia, per intenderci. Uno sport che per me non è mai esistito. Non a caso idealmente ho chiuso i miei rapporti con il football nel marzo 2020 e li ho riaperti a settembre dello scorso anno.

Salendo le scalette della tribuna si sono cominciate a intravedere le migliaia di bandiere portate oggi quasi da ogni tifoso. Un effetto molto simile a Roma-Parma dell’ultimo scudetto. Forse più sorprendente se si pensa che l’occasione è un Quarto di Finale della terza coppa continentale, per giunta contro un’avversaria tutt’altro che blasonata. La follia del romanista è tutta qua: al posto dei norvegesi avrebbe potuto esserci il Real Madrid, ma anche l’OFI Creta, eppure l’apporto non sarebbe cambiato. Diciamo che quest’anno ci sono tanti fattori che hanno concorso a compattare l’ambiente: il ritorno allo stadio dopo due anni di restrizioni, l’arrivo di Mourinho sulla panchina giallorossa, una politica societaria volta ad avvicinare i tifosi anziché allontanarli o trattarli solo ed esclusivamente da clienti. Intendiamoci, non che il supporter della Roma abbia mai avuto bisogno di agevolazioni, i numeri sulle gradinate li ha fatti anche in tempi recenti, quando i prezzi erano tutt’altro che popolari. Ma il percepire la volontà da parte del club di coinvolgere più persone possibile, facendole sentire il proverbiale “Dodicesimo”, funge senza dubbio da collante.

E poi c’è la voglia matta di alzare un trofeo. Anche fosse una coppa di secondaria importanza. Pure la sola, lontana, probabilità di arrivare a una finale è stata sufficiente ad incendiare letteralmente l’ambiente. C’è voglia di festeggiare, di sognare e di manifestare la propria euforia sventolando il vessillo cui si è più legati. L’ho detto più volte: Roma è una città che vive di calcio e per il calcio. Datele anche solo l’utopia di poter competere e in cambio avrete un calore inenarrabile.

Ciò che mi ha fatto sorridere alla vigilia è stata l’ingenuità del Bodo e dei suoi giocatori, che in pieno stile scandinavo hanno portato avanti una sorta di campagna provocatoria nei confronti di un ambiente generalmente conosciuto per la sua anima baldanzosa e a tratti truce. Un po’ come se un americano volesse insegnarci a cucinare l’amatriciana. Tutta la serie di dichiarazioni e battute rilasciate tra andata e ritorno hanno contribuito a caricare sia la squadra che i tifosi, con il risultato del campo che ha infine parlato nettamente (e logicamente, aggiungerei) in favore dei padroni di casa. Perché la Roma ha fatto il suo dovere arrivando in semifinale (l’anormalità stava nell’aver preso dieci gol in tre partite dai gialloneri) ma è pur vero che anche nella sua storia recente è spesso e volentieri inciampata rovinosamente su avversarie di simile caratura.

Questo però delinea anche un modo molto diverso di intendere il calcio: nei norvegesi ho intuito il bonario intento di scherzarci su, non quello di offendere. Nella loro mentalità si tratta di goliardia applicata a un gioco, quello del pallone. Materia con cui – sempre secondo loro – si può scherzare al di là del risultato, per poi tornare amiconi dopo i novanta minuti. Fattore non proprio uguale per noi italiani, che spesso e volentieri modifichiamo i nostri umori in base ai risultati della nostra squadra e che mal tolleriamo lo sfottò altrui. Perché il calcio è un qualcosa di serio e la fede nei nostri club ancor di più. Diciamo che è un po’ come se un ateo si divertisse ad offendere Dio davanti a un cattolico praticante, credendo per giunta di essere divertente.

Planando sull’aspetto prettamente curvaiolo, oggi c’è da sottolineare l’ennesima coreografia della Sud con il vecchio logo. A scanso di equivoci, più che di scarsa fantasia o “paura di sbagliare”, si tratta di rimarcare una battaglia iniziata ormai diversi anni fa e che, nelle ultime due stagioni, sembra aver ottenuto dei risultati importanti. Con il vecchio logo ripristinato sulle terze maglie in maniera permanente e sulla prima per il derby. L’obiettivo rimane quello di far tornare l’acronimo ASR per sempre – su tutte le maglie della Roma – e quindi la coreografia di oggi assume un importante significato di continuità in questa istanza.

A livello di tifo stasera sarebbe riduttivo parlare solo della Curva. È stato l’intero stadio a trascinare la Roma in semifinale. Un 4-0 che oltre a quelle di Abraham e Zaniolo porta le firme di tutti i settori, quasi interamente in piedi e autori di frastuono. Senza dubbio una delle partecipazioni complessive più colorate e accorate a cui abbia assistito da quando frequento le gradinate dello Stadio Olimpico.

Nel settore ospiti prendono posto circa duemila tifosi che, dopo un inizio discreto con diversi battimani, vengono letteralmente travolti dall’ambiente giallorosso.

Anche in una serata come questa, tuttavia, devo annotare l’inadeguatezza delle urla sguaiate di uno speaker che – soprattutto dopo il fischio finale – riesce incredibilmente a interrompere i cori e le urla dei tifosi. Io capisco (anzi no, non lo capisco, ma facciamo finta che mi sforzi di farlo) l’annunciare il nome di un giocatore al gol, ma che bisogno c’è di ripeterlo duecentotrentasei volte smorzando il potente coro che di solito si genera dopo l’esultanza? Oppure, a cosa serve ricordare che “Noi siamo la Roma” a uno stadio che sprizza romanismo da tutti i pori? Per non parlare dell’invito finale (“Dai, tutto lo stadio”) sul coro “Se i tuoi colori sventolo…”, roba che forse neanche nel Super Bowl accetterebbero più!

A fronteggiare la squadra di Mourinho in semifinale ci sarà il Leicester, con andata in Terra d’Albione. Un’avversaria tosta, difficile e sicuramente di ben altro spessore rispetto alle squadre incontrate sinora. Una gara che ancora una volta metterà di fronte ai capitolini il loro tabù inglese. I tifosi non si faranno pregare, tanto è vero che al momento in cui scrivo risultano sold out sia il settore ospiti del King Power Stadium che lo Stadio Olimpico per la gara di ritorno.

Ci saranno altri centottanta minuti (minimo) con cui mettersi a confronto e provare a scrivere nuove pagine di storia di un club che ha sempre faticato doppiamente rispetto al normale per ottenere risultati importanti. Di sicuro la passione della sua gente sarà importante se convogliata nella giusta direzione.

Simone Meloni