Partite come quelle dell’Olimpico andrebbero mostrate in loop alla Uefa come invito a togliere all’Italia almeno un posto per le qualificazioni alle competizioni europee e mettere nero su bianco la bruttezza, lo squallore e la noia di un campionato che a due mesi dalla sua chiusura già conosce da tempo il vincitore e trova un minimo di interesse residuo solo nella lotta Champions e in quella per non retrocedere.

Il match tra Roma e Fiorentina – così come quello disputato domenica tra i giallorossi e il Napoli – ha assunto in più di un frangente il carattere di amichevole, con squadre al piccolo trotto, quasi svogliate, errori marchiani e pathos pari a zero. Insomma, la cartina al tornasole di ciò che è diventata la nostra massima categoria.

Se quello che succede sul manto verde può interessarci relativamente, di sicuro le cose non migliorano sugli spalti. Ufficialmente sono 30.000 i presenti, ufficiosamente qualcosa di meno. Ok il periodo nero della Roma, ok il turno infrasettimanale e ok il prezzo dei biglietti come sempre scandaloso (soprattutto in relazione al campionato delle due squadre), ma da un pubblico come quello romanista è sempre lecito aspettarsi qualcosa di più.

Scomodare il passato è spesso un’opera inutile e decontestualizzata. Quindi bisogna andarci con i piedi di piombo, prendendo in considerazione i tanti cambiamenti avuti sia dal nostro calcio che dai suoi seguaci. Tuttavia non possiamo far finta di niente rispetto a quello che era l’Olimpico negli anni ’90 (con una Roma che annaspava) e ciò che è diventato oggi. Persino in stagioni catastrofiche come la ’96-’97 (Carlos Bianchi in panchina) i capitolini facevano registrare una media spettatori di 53.438 presenze, seconda solo ai 55.851 del Milan (in quella stagione le due squadre arriveranno rispettivamente dodicesima e undicesima), al cospetto dei 36.685 relativi a questa stagione.

Quasi 20.000 tifosi in meno, circa 1.000 spettatori dilapidati ogni anno. Una perdita talmente consistente che dà l’idea di come le nostre istituzioni sportive, aiutate dalla mannaia repressiva/burocratica, abbiano davvero fatto di tutto per allontanare le persone dagli spalti. Altro che famiglie allo stadio!

Questa diaspora marcia ovviamente di pari passo anche con l’ambiente che ormai si respira negli impianti di Serie A. Quasi sempre dimesso, spento, in mano a dei semplici clienti che consumano il prodotto e se ne tornano a casa inanimati. Piange quasi il cuore nel pensare a quella Tribuna Tevere ruggente e incazzata dei bei tempi che furono, quando per tirar fuori tutta la propria rabbia bastava un fallo non concesso. Figuriamoci se la situazione fosse stata quella di una squadra ormai in balia di sé stessa.

Ovviamente non fa eccezione una Sud alle prese con i problemi che investono ormai tutte le grandi curve e che in più di un’occasione fatica a trascinare tutti in semplici cori di contestazione.

Una Sud che è attanagliata da un problema secondo me ancor più grande dell’impostazione del tifo: chi si abbona e poi seleziona le partite. Una pugnalata al cuore pensando a tutte quelle volte che in passato è stato impossibile acquistare un biglietto o un abbonamento per quel settore, anche in annate negative.

Oggi il consumismo e l’apatia hanno diramato i propri tentacoli in ogni settore degli stadi e questo ne è uno dei risultati più palesi. Un qualcosa che sa di vilipendio alla fede e alla storia di un settore che comunque ha sempre fatto dell’attaccamento e dell’amore a prescindere verso i colori un proprio cavallo di battaglia.

Oggi paghiamo un modo tutto italiano di concepire i tifosi. Una forma mentis dove il frequentatore dello stadio dev’essere per forza l’ultima ruota del carro e, di conseguenza, si può relegare a prodotto da maltrattare e bistrattare persino quando tira fuori dei gran soldi.

Se proverbialmente come popolo siamo fantasiosi, ingegnosi e ricchi di sorprese, ai fatti ormai siamo diventati un Paese quadrato, ottuso e poco lungimirante nelle scelte. Di sicuro nel calcio, come nella politica, tendiamo troppo spesso a guardare il dito anziché la luna.

E ci perdiamo le strade più giuste da percorrere; vie che magari ci permetterebbero di risollevare lentamente il movimento calcistico. Anche nell’era della commercializzazione estrema della società ci sono esempi virtuosi o comunque sostenibili da contemplare, persino il campionato inglese lo è rispetto al nostro!

Di sicuro i club – soprattutto quelli grandi – non sono d’aiuto. Anzi, marciano in direzione contraria. Dai biglietti al modo di costruire i nuovi stadi, passando per la palese volontà di sbarazzarsi o tenere a debita distanza il tifo popolare, che come rovescio della medaglia può essere anche livoroso e contraddittorio.

Ti accorgi di aver perso quella fascia media anche quando vedi i numeri in trasferta, in questo caso dei viola. Tremendamente pochi, anche se parzialmente giustificati dai 40 Euro di biglietti loro imposti e dal mercoledì lavorativo. Va detto, comunque, che i presenti si mettono in evidenza con bel tifo, colorato e continuo come sempre.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr