Ricordare un personaggio come Poldo – uno di quelli divenuti senza volerlo un’icona del movimento ultras – oggi rischia di stridere veramente tanto con il contesto stadio. Le capienze ridotte, le cervellotiche restrizioni adottate negli ultimi due anni che si sono andate ad aggiungere a quelle partorite ad hoc per il tifo organizzato e l’intera società troppo spesso in balia degli eventi. Fattori distanti anni luce da quello che è stato il mondo del tifo e del calcio vissuto da personaggi come lui. Rimane una dolce polvere di stelle ad accompagnarne il ricordo, a sottolineare l’imponenza di quel ragazzo immortalato mentre in solitaria fronteggia una manciata di bergamaschi nel settore ospiti della Brumana a metà anni novanta.

“Principe degli eccessi”, come lo hanno voluto ricordare gli ultras romanisti con tre striscioni uguali esposti nelle due curve e in Tribuna Tevere. Quegli eccessi che hanno reso il mondo del tifo così bello agli occhi di noi ragazzini e che ce lo hanno fatto entrare dentro a vita. Pure quando erano eccessi poco ortodossi, pure quando finivano per generare scandalo e indignazione nella morale comune. Anzi, forse era proprio là che da ragazzetti ci innamoravamo. Per spirito di contraddizione, per sentirci vivi in una società che sempre più attorno si appiattiva. Erano proprio foto come quelle di Poldo a Bergamo a ricordarci di quale comunità facevamo parte, ad insegnarci il rispetto per chi era più grande di te e certe cose le aveva vissute e a voler tenere sempre acceso il tizzone della tradizione. Alta la bandiera, a difesa dell’idea ma anche di chi quella bandiera l’aveva portata più in alto possibile.

La mia età non mi ha permesso di vivere appieno quegli anni e ormai credo sempre più che risulti fuori luogo parlare o incensare ciò che non si è visto con i propri occhi annaffiando frasi e parole con fiumi di retorica. Ciò che invece ritengo corretto e consono è tramandare il ricordo e se vogliamo anche il mito. Perché in un’epoca dove per diventare mito basta un Tik Tok fatto bene o un Reel su Instagram, allora anche io che ai miti non ho mai creduto voglio ricordare che per arrivare sulla vetta dell’Olimpo occorre davvero essere qualcuno in grado di volare e lasciarsi dietro una scia indelebile. Lasciare ai posteri la magia di un racconto o – come in questo caso – anche solo l’unicità di una foto.

E non è un caso che il destino abbia voluto celebrare il ricordo di Poldo durante un Roma-Genoa. Una delle tante gare attorno a cui si annodano pagine e storie di ultras e personaggi. Storie di amicizie tramutate poi in aspre rivalità. Storie di invasioni e scudetti vinti a Marassi con il Barone Liedholm portato in trionfo dai suoi ragazzi, quelli della Sud. Altre pagine incorniciate nella bacheca dei ricordi romanisti, dove si fondono realtà e mito. Oggi quegli striscioni hanno fatto molto più rumore di qualsiasi coro, hanno preso per mano generazioni di tifosi e a loro hanno ricordato che per essere leggenda bisogna muoversi in silenzio, spinti dal credo e dalla fede. Non servono mitomania o azioni volutamente a favore di telecamera come la quotidianità vorrebbe oggi inculcarci.

Non può che essere questo dunque il filo conduttore della sfida odierna. Il valore aggiunto a una partita assai complicata da commentare. Con le capienze tornate nuovamente al 50 percento (restiamo l’unico tra i campionati europei più importanti a non aver riaperto totalmente o almeno al 75 percento) in molti sono stati costretti ad emigrare dalla Sud alla Nord, lasciando un impatto visivo tutt’altro che esaltante nel tradizionale settore caldo del tifo romanista. Di contro va detto che questo spostamento produce un bel colpo d’occhio sul muretto di fianco al settore ospiti. Evidentemente chi è stato costretto a cambiare settore (e sono circa 2.000) ha ben pensato di raggrupparsi e far sentire la propria voce anche dalla Nord.

Rispetto agli anni passati i genoani si presentano in buon numero (circa 300) e si rendono autori davvero di una bella prova canora con un paio di bandieroni tenuti sempre in alto. Tanti gli insulti con la Nord – e cordone degli steward sfondato all’esultanza per il gol annullato a Zaniolo – a rimarcare una rivalità ormai consolidata.

In campo la Roma non riesce ad andare oltre lo 0-0, sebbene vada sottolineato il classico episodio da calcio moderno in cui occorre, come detto, Zaniolo al 91′. L’ex interista sblocca il risultato con un mancino delizioso, facendo esplodere l’Olimpico e andando a raccogliere il giubilo della Curva Sud. L’euforia va avanti per qualche minuto fin quando il direttore di gara non decide di consultare il Var e annullare la marcature per un pestone di Abraham su Vazquez. Come da ormai classico coito interrotto cui l’introduzione di questo strumento ci ha abituato. Per tutti quelli che leggendo queste righe possono pensare al classico giudizio di parte, sgombero subito il campo da equivoci: mi infastidisco persino quando gol del genere vengono annullati agli avversari. Oltre a essere davvero la morte del calcio e delle sue emozioni (e a non cambiare molto le cose: essendo il Var gestito da esseri umani è comunque soggetto ad interpretazioni ed errori) ha trasformato questa disciplina in tutt’altro. A questo punto gli si cambi nome e la si smetta di definirlo sport di contatto, soprattutto in Italia, dove al minimo tocco si opta per l’interruzione del gioco o – peggio ancora – l’invalidamento di una marcatura che in altri tempi sarebbe stata regolarissima. Un conto è limitare ed annullare errori su gol fantasma e fuorigioco (in questo caso la tecnologia è evidentemente salvifica), un altro è uccidere sistematicamente anche quelle poche emozioni che il pallone è in grado di dare. Di fatto non conviene più esultare a una rete della propria squadra. Meglio starsene zitti o farlo in differita!

Si svuota in fretta l’Olimpico dopo il triplice fischio, mentre la squadra ospite va a raccogliere gli applausi dei propri sostenitori. La Roma è attesa dalla sfida di Coppa Italia a Milano mentre per il Genoa nel prossimo turno ci sarà una fondamentale gara salvezza contro la Salernitana.

Simone Meloni