Qualche anno fa imparai che scavare nel proprio passato, anche in quello calcistico, a volte fa riaffiorare aneddoti e storie di vita finite per anni in un anfratto nascosto della nostra mente.

Era forse l’anno del mio battesimo con Sport People quando scrissi il resoconto di un Roma-Verona. Non fu un pezzo qualunque. Perché quella tra giallorossi e scaligeri per me non è mai una partita qualunque. Nel 1996/1997 fu proprio questa sfida a vedermi per la prima volta sugli spalti dell’Olimpico. Se ci penso sono passati davvero tanti anni e forse il dolce sapore che il ricordo mi dona sembra darmi un’idea ancor più distante del tempo.

Di quella giornata porto (e porterò per sempre con me) una fotografia immaginaria. Scattata da dietro. Me e mio padre che camminiamo su Ponte Duca d’Aosta e lui che mi invita ad acquistare una sciarpa, consigliandomi la più brutta. È proprio per questo che la conservo gelosamente nell’armadio. Non deve uscire da là. Come fosse una sorta di reperto archeologico celato al buio per secoli e a rischio di svanire con la luce del sole.

Per me Roma-Verona sarà sempre questo.

Quel giorno la Roma giocava con la tradizionale prima maglia: rossa con i bordi gialli. Mentre l’Hellas con la seconda casacca di quell’annata: grigia con uno stemma gigante al centro. Classiche scelte cromatiche per gli ospiti e gli ospitanti.

Classiche ma non troppo evidentemente. Vent’anni dopo questa sfida si ripropone con i capitolini in terza maglia. Un misto tra St.Pauli e Torino. Ora, che sia polemico di natura non lo nego. Così come non nego che provo sempre stimolo a cercare il cavillo per innescare un ragionamento critico. Del resto, per chiunque metta mano a una penna, questo dovrebbe sempre essere alla base della propria professione. Senza ovviamente eccedere. Senza passare dall’analisi critica alla chiacchierata da bar o – in alcuni casi – al fango gettato per interesse addosso a taluni soggetti.

Tuttavia spero ci troviamo tutti d’accordo nell’asserire che criticare un qualcosa (un politico, una società di calcio, un personaggio pubblico) non sia mai un reato di lesa maestà.

Pertanto ammetto di non aver apprezzato questa scelta, probabilmente in linea con quella effettuata (imposta dalla Nike?) dall’Internazionale nell’anticipo di Crotone, dove anche i meneghini sono scesi sul manto verde con la terza divisa. Sono un rompicoglioni su queste cose, passatemelo, ma per me la squadra di casa deve giocare sempre e comunque con la prima maglia. Inutile dire che detesto profondamente la linea intrapresa a tal merito dal Napoli nelle ultime annate (penso che i tifosi partenopei possano solo concordare), laddove i campani hanno quasi sempre giocato con la seconda e terza maglia.

Mi scoccia pure ripetere sempre le stesse cose ma le tradizioni di un club e della propria tifoseria si rispecchiano anche in questo. Se fossimo a scuola e stessimo facendo “gli insiemi” metterei tale scelta nella stessa cerchia dove da tempo risiede il nuovo stemma. Malgrado forse qualcuno l’abbia dimenticato.

Peraltro queste cose fanno a cazzotti con le ultime scelte del club che invece marciano verso la tradizione, su tutte il ripristino dei colori esatti (giallo ocra e rosso pompeiano) e la creazione/vendita – in occasione dei 90 anni dell’AS Roma – delle tre maglie che nel 1927 hanno dato vita alla società (Roman, Alba e Fortitudo).

Le generazioni cambiano e il martellamento mediatico dei nostri giorni è in grado di forgiare/fuorviare le menti in molteplici direzioni. Per questo è sempre importante che in ogni tifoseria rimanga vivo il filo generazionale che lega vecchi e giovani. Difficile, soprattutto oggi, sia chiaro. La nostra società corre all’impazzata e lascia dietro tante storie belle e tanti momenti indimenticabili.

Allora io ritengo che nel calcio si possa e si debba essere integralisti almeno quando si parla di storia, appartenenza e identità.

Io c’ero al gol di Caverzan e a quello di Candela. E anche a quelli di Mutu e Batistuta, l’anno successivo al secondo scudetto. E li ho scolpiti nella mia mente e nel mio cuore. Non c’ero al Roma/Verona di Coppa Italia che seguì la “sanguinosa” finale di Coppa Campioni con il Liverpool. Così come non c’ero in quelle sfide dove a farla da padrone c’erano i vari Bruno Conti, Di Bartolomei, Elkjaer, Fanna e Cerezo. Ma so che nelle presenze di questa sera, da una parte e dall’altra, c’è ancora un po’ di quegli anni.

Sebbene sia cambiato tutto. Allora le tifoserie erano addirittura gemellate. Allora i veronesi furono tra i pochi a presenziare sempre e comunque sugli spalti di marmo bianco del vecchio Olimpico. Gli striscioni delle Brigate e del Commando hanno segnato un’epoca. Che ovviamente tutti vediamo con venerazione e – va detto – quel pizzico d’invidia di chi sa di essersi perso il meglio. Almeno dal punto di vista della libertà di tifo e della passione popolare nei confronti del calcio.

Però credo anche che chi si è avvicendato sui gradoni di tutta Italia, fino alle generazioni attuali, abbia avuto comunque il merito di credere in qualcosa e di tramandarsi un modo tutto suo di vivere la propria squadra del cuore. Sarebbe stupido sostenere che Mario Rossi, in curva negli anni ’80, sia meglio di Franco Bianchi, attualmente frequentatore delle gradinate. Vorrebbe dire non contestualizzare le epoche e ragionare in maniera ottusa ed egoista.

Il mio Roma-Verona 1996/1997 è storia regalata ai libri e ai video YouTube. Così come quelli precedenti e successivi. Così come la sfida di questa sera. Ed è storia che va raccontata, perché all’interno di una tifoseria non ci devono essere Muri di Berlino o “discriminazioni generazionali”.

La Sud di oggi è un universo variegato, difficile da gestire e complicato da spiegare. È un mondo reduce da 19 mesi di bombardamenti. Mediatici e repressivi. Ovvio che ne sia uscita in ginocchio. Un po’ meno scontato che riuscisse – come sta lentamente facendo partita dopo partita – a rialzarsi.

È chiaro che di strada ce n’è davvero molta da fare. Ma per ora il cuore del tifo romanista sembra aver imboccato la via giusta. Lo dice la prestazione di questo piovoso sabato sera. Lo dicono i cori prolungati e all’unisono del primo tempo e anche l’ultima parte della ripresa, scandita dai canti potenti dopo un inizio in sordina. Lo dicono anche i fumogeni, miracolosamente tornati a far capolino senza uccidere nessuno (sic!). E lo dice anche qualche coro eseguito finalmente con la dovuta rabbia. Si diceva: “Siamo in curva, non in chiesa”. Per l’appunto.

Probabilmente a stimolare la buona prestazione ci pensano anche i dirimpettai. I veronesi non hanno bisogno di presentazioni, così come il loro modo di approcciare alla curva. Non portano certamente grandi numeri nella Capitale. Circa 300 e quasi tutti ultras. L’inizio di campionato sommesso e una squadra che non sembra preannunciare nulla di buono non entusiasmano particolarmente. Così come l’iniziale spettacolino offerto da Cassano, la riconferma di un traballante Pecchia e l’epurazione di Luca Toni non hanno acceso la scintilla tra i supporter veneti.

I presenti tuttavia non si fanno prendere dallo sconforto e danno vita a una buona prestazione, malgrado il risultato non sia mai in bilico e al 90′ veda gli uomini allenati da Di Francesco primeggiare con un netto 3-0. Da segnalare i soliti show goliardici (come quando fingono di caricare gli steward o di remare mentre il diluvio aumenta d’intensità).

Diversi i cori ostili tra le due fazioni con i due gruppo situati in Nord che ingaggiano numerose schermaglie dialettiche con gli avversari.

Al fischio finale la pioggia non cade più e l’allerta meteo divulgata sin dalla giornata precedente sembra dissolversi come una bolla di sapone. L’Olimpico è tornato a essere uno stadio minimamente passionale e partecipativo. Ci sarà ancora da lavorare, i “tempi belli” sono lontani (e forse lo sono per tutti) e non è il momento delle autocelebrazioni. Le fondamenta ci sono, ora bisogna ricostruire il palazzo.

Testo Simone Meloni

Foto Lello Onina e Cinzia Lmr