Prologo

Le bombe squarciano la quiete e, complice il cemento dell’urbe, rimbombano rinegoziandone i confini. Mobili e immanenti, fuggevoli e temporanei, decisi e tangibili. L’orizzonte, la sera del derby di Roma, ha la misura del boato.

La stracittadina della capitale non ha un inizio e non ha una fine. Scritte di rivalità ammantano gli angoli di ogni edificio e sticker sui segnali stradali ne trasformano la destinazione. I segni del derby sono imperituri, sempiterni: la sera dell’incontro la loro natura prende vita. Al collo le sciarpe; in mano fumogeni e bandiere. Una cerimonia arcaica risorge mentre il fragore di altri esplosivi incombe sull’egemonia acustica delle sirene delle forze dell’ordine fino a quando questo balletto sonoro si staglia sullo sfondo come rumore bianco qualsiasi.

Lo sguardo dei provinciali davanti a cose più grandi di loro ha il brutto vizio di prestarsi a considerazioni magnificanti che soffocano il punto di vista critico per abbandonarsi all’estasi. Sia clemente chi legge: in questo scritto ci sarà spazio solo per la meraviglia.

Svolgimento

Chilometri di prepartita. Ci addentriamo per la città – in realtà per la geografia canonica ci staremmo allontanando, ma le coordinate stasera sono completamente sovvertite: Olimpico Caput Mundi. Ci addentriamo per la città, dicevamo, ed è tutto un crescendo di segni. Persone bivaccano ai bar che puntellano le vie; bevendo e mangiando credono di celare l’attesa. Ragazzini con bandiere da srotolare all’occasione si avviano verso l’arena. Il conflitto acustico tra sirene e bomboni non smuove di un millimetro la gente non ultras della fazione giallorossa della capitale, riconsegnando la dinamica belligerante alla semplice celebrazione dell’occasione. Come se fosse un rito, una danza, per nulla classica ma perfettamente coordinata. E quando si aprono gli spazi del Tevere sul palco della nostra percezione c’è posto anche per dense nubi di zolfo. E più ci avviciniamo più questo palco è affollato: vietato ai deboli di cuore. Noi rimaniamo in silenzio in preda all’eccitazione.

Siamo dentro. Attacchi influenzali non hanno opposto resistenza alla nostra voglia di presenza e tantomeno possono con l’ardente desiderio di birra. La fila è un’ottima occasione per raccogliere sprazzi verbali di tensione. “Sta situazione ha ridato importanza al derby, il primo di Mou va bene ma-” bloccato subito dall’altro che esprime serafico quello che suona come un rimprovero, come una blasfemia nei confronti un’oscura e vendicativa divinità: “Per me il derby è sempre importante”.

Entriamo negli spalti che manca un’ora. Sud e Nord sono già pronte alla battaglia. L’essere schiacciati verso il cuore pulsante del tifo giallorosso non muta la percezione dei due fronti ma è determinante per il rapimento della nostra attenzione. La Sud pullula di striscioni. Ogni spazio verticale dello stadio è una bacheca da colorare appendendo una pezza come se fosse quella la loro unica funzione. “Noi odiamo la Lazio! Uccidiamoli!”: la canta chiunque. Bimbi, ragazzine, donne, anziani: letteralmente chiunque. L’idea che una rivalità esista solamente su un piano simbolico viene subito messa in discussione: non c’è paradigma che tenga, questa scorre direttamente nelle vene e sono migliaia di cuori che li fa palpitar.

Un fuoco di nervi tipico delle partite più importanti, di quelli che impediscono la prestazione di tifo che sogni ma che non puoi raggiungere mai, ribolle sui gradoni e raggiunge l’apice quando le squadre fanno il loro ingresso. Manca forse un pizzico di coordinazione e la scioltezza che consente la performance adeguata all’occasione. Non viene meno però il continuo boato dai gradoni che rimbomba nelle lamiere dei tetti che assediano gli spalti.

Quando vengono scandite le formazioni agli altoparlanti la selva di fischi che parte da entrambe le curve è impressionante. Fischi che si coalizzano quando è il momento del detestato inno della Serie A che non può che attirarsi antipatie se si appropria, contro ogni logica del rituale, di uno dei climax emotivi di ogni sfida che si rispetti. Si mette in mezzo, imponendo la presenza con l’artificio degli altoparlanti di chi detiene il potere tecnologico del campo di battaglia trasformandosi così in uno stupido dispetto. E che aggiunge un altro ingrediente di una serata di odio allo stato puro. Le tifoserie iniziano il loro balletto. Sono coordinate. Si conoscono. Una infinità di striscioni spuntano da entrambe le parti, anche dalla Tevere, e farne una conta o una puntuale descrizione ci farebbe assomigliare a solerti digossini. Allontanandoci dalla presa estetica che stiamo vivendo per la prima volta. Il derby per chi lo vive carnalmente è invece un’abitudine che si rinnova come il privilegio di assistere di nuovo e per la prima volta al film di cui conosci a memoria tutte le battute. Ma di cui, in questo caso, non puoi conoscere il finale. E tutto si riduce a quello. Una volta sentimmo parlare un ragazzo romanista che prima della finale di Europa League si diceva tranquillo: “preferisco che perde ‘a Roma che vedè vince a quelli”.

La nostra attenzione è ostaggio di quello che accade sugli spalti. La folla ruggisce già nel riscaldamento. La postura della gente nella Sud è tutta verso la Nord, un orientamento dei corpi che solo incidentalmente incontra il rettangolo verde. La gerarchia del contesto è totalmente sovvertita: quello che di solito è il contorno, le gradinate, è il luogo dove si gioca psico-emotivamente la partita. Da cui trasuda odio misto a paura. Quello che percepiamo non è tanto il desiderio della vittoria quanto il terrore di non raggiungerla. È una sensazione così particolare che si manifesta in tutta la sua chiarezza. E che, sugli spalti ma anche in campo, non ti dà scampo: o sai come attraversarla oppure ti travolge. Tertium non datur. Non è come l’arte delle barricate, in cui ognun è maestro. Tutt’altro: la differenza è tra Claudio Ranieri e Marco Baroni è tutta lì, col secondo che la vuole giocare al calcio, e lo fa anche bene, mentre il primo sa perfettamente che si tratta di un altro sport. Ed è così che la porta a casa. Per i primi dieci minuti non vediamo neanche mezza azione di gioco, catturati come siamo da quello che ci accade intorno, fin quando tutto lo stadio trattiene il respiro mentre Pellegrini – mossa a sorpresa azzeccatissima di chi conosce i meccanismi di questo altro sport – si sposta la palla sul destro e la schiaffa sotto la traversa per l’1 a 0. Il raddoppio è naturale conseguenza di chi si avvinghia famelicamente all’inerzia passionale della sfida. La Lazio arremba, soprattutto nel secondo tempo, sostenuta da una Nord impressionante, ma non basta per riaprirla.

Al triplice fischio non c’è gioia. Si sciolgono le tensioni. Una bambina accende un fumogeno. Un padre strattona il figlio come a rimproverarsi un pericolo scampato. Il volto di una donna ha i solchi di due torrenti di lacrime. Una ragazzina che aveva seguito la partita silenziosa aggrappata a un gradone divisorio esce da una prolungata apnea e riprende colore. Il derby è finito e attorno a noi abbiamo i vincitori che sembrano appena riemersi dall’ade.

Epilogo

Usciamo. Pioviggina. Casa dista sei chilometri. Consultando le mappe abbiamo la netta sensazione che tornarci non sarà facile. Roma è la città scollegata per antonomasia, la domenica a maggior ragione, e il derby non può che peggiorare le cose. La via su cui dovrebbe passare il pullman che ci dovrebbe almeno avvicinare alla meta è bloccata. Interrogandole sulla questione, le istanze in divisa di polizia e municipale restituiscono dubbi, “non so”, alzate di spalle e silenziosi scuotimenti di capo. L’unica soluzione è avviarci a piedi. Dopo un’ora abbondante spesa a trascinarci tra traffico a passo d’uomo e strade deserte, si presenta un pullman promettente nella veste di scatola di sardine che ha pochi centimetri quadrati di spazio in testa, nei quali riusciamo a infilarci solo per pietà di chi è già dentro. E che evidentemente conosce il dramma.

La campanella della prenotazione della fermata suona, così il bus blocca la sua corsa. Nessuno scende. La scena si ripete. L’autista dà per scontato che non sia colpa della calca ma di una burla. Nervosissimo, chiude le porte, sgrida tutti e minaccia di non ripartire secondo una reazione che, date le condizioni di trasporto, ci appare un tantino sproporzionata. “Forse è laziale”, ci suggeriamo sottovoce. Scendiamo nei pressi di casa. I nostri corpi, finalmente liberi di muoversi dopo una ventina di minuti da carro bestiame, sono ancora contagiati contro la loro volontà dal romanismo di cui siamo stati circondati. Dalle nostre bocche escono inconsciamente parole musicate di un coro anti-laziale che l’indomani non ricorderemo, ma che al momento si sono annidate nella nostra testa come una canzone che non senti tua ma ti ritrovi a cantare sotto la doccia senza saperne il motivo. Il nostro punto di vista è stato drogato e alterato. Il pullman rimane al suo posto. L’autista si prende tutto il tempo necessario per guardarci come se fossimo colpevoli di tutto il male del mondo, fugando ogni dubbio sulla sua fede calcistica. Il derby non ha un inizio e neanche una fine.

Testo di StiT