È il 4 giugno del 1989. A San Siro, prima della gara tra Milan e Roma, perde la vita Antonio De Falchi. Giovane tifoso romanista che, nel tentativo di fuggire dall’agguato di alcuni sostenitori rossoneri, si accascia al suolo per un arresto cardiaco.

Antonio era un ragazzo di Torre Maura, zona popolare della periferia capitolina. Oggi, percorrendo la lunga e profetica Viale dei Romanisti (che in realtà fa riferimento a un gruppo di intellettuali, studiosi delle tradizioni romane, sorto nel primo dopoguerra) ci si imbatte inevitabilmente nel grande murales che colora il capolinea della linea 558: “Il tuo quartiere non ti dimentica”. E poi un grande cuore giallorosso e tanti altri messaggi a suggellare una memoria che in trent’anni non si è mai affievolita.

Se esiste un modo di preservare il ricordo senza edulcorarne i contorni in maniera stucchevole, senza dubbio la famiglia De Falchi l’ha adottato in queste tre decadi. Quasi nessuna uscita pubblica per mamma Esperia, difficile se non impossibile sentir parlare il fratello o la sorella. Le uniche “sortite pubbliche” ai tornei organizzati dai ragazzi della Sud, negli ultimi anni.

E oggi. In curva per vedere realizzata una coreografia carica di significati.

Un dolore lontano dai riflettori. Portato con grande dignità. Con quella dignità silente del popolo. Della periferia lontana e ruvida. Quella dove per anni è stato facile perdersi la notte, a causa di lampioni perennemente fulminati e strade tutt’oggi dissestate.

Trent’anni e un brivido freddo lungo la schiena. Perché nonostante tutto Antonio non solo non è mai stato dimenticato, ma il suo volto si è tramandato di generazione in generazione. E di questo va dato atto a tutti quelli che si sono avvicendati sui muretti della Curva Sud. Ragazzi e uomini che senza mai farne un uso improprio o “rumoroso” lo hanno stampato nei cuori di chiunque sia entrato almeno una volta nel settore.

Questa coreografia arriva di concerto con un periodo nero, a livello sportivo, per la Roma. I sette gol incamerati a Firenze – nel match di Coppa Italia – rappresentano per molti uno spartiacque tra l’insufficiente gestione calcistica e la gratuita umiliazione della maglia e dei suoi colori. Pertanto la volontà della Sud è alquanto palese stasera: ricordare Antonio e contestare/ignorare gli autori di questo scempio.

E non è facile. “Antonio è morto per quella maglia, onoratela!” recitava lo striscione esposto il 25 febbraio del 1990 allo stadio Flaminio. La Roma di Radice soccombette 0-4 a un Milan all’epoca stellare, ma sudò la maglia e a modo suo non tradì quel messaggio incorniciato in una fitta sciarpata.

Oggi sarebbe forse impossibile chiedere un qualcosa di simile. Sarebbe impossibile vista la conoscenza pressoché nulla di questa storia da parte del 99 percento della rosa e dei suoi dirigenti. Sarebbe impossibile perché è cambiato il calcio e sono cambiate le sue linee guida. Oggi si pensa a rimanere un centinaio di metri distanti dalla curva quando si perde, salvo poi chiederne l’aiuto nel momento del bisogno o andarsi a prendere gli applausi quando si vince e le cose vanno bene.

Oggi ci si permette di insultare i tifosi se provano a muovere una critica. Anziché ringraziarli e rispettarli per i sacrifici con cui possono star dietro alla squadra. Anziché capire di essere dei privilegiati al cospetto di una manica di “fucking idiots”. Parole vostre eh, sia chiaro.

È una questione di opportunismo. Mancano gli uomini. Mancano le palle. Mancano i sentimenti.

E allora oggi più che mai la Sud onora sé stessa, i suoi figli e il senso più intrinseco del romanismo.

Lo ha preannunciato facendo circolare un volantino con cui si invitava tutti a portare una sciarpa. Chissà, forse proprio come quel 25 febbraio del 1990. O forse solo per ricordare a tutti che con un muro di stoffa giallorossa non potranno mai filtrare le cattiverie e le banalità vomitate da chi in questi anni i tifosi li ha troppo spesso utilizzati come pezze da piedi.

È partito l’inno e si sono levate al cielo migliaia di sciarpe. Una Sud così compatta, a livello cromatico, non si vedeva da anni. Poi si sono alzati gli stendardi con la faccia di Antonio e lo striscione che dedicava idealmente a lui il nome della Curva Sud.

Lo stadio ha applaudito. Perché in fondo chi frequenta le gradinate riesce ancora a condividere almeno un pezzetto del modus vivendi di quelli che stanno in piedi, fanno rumore e spesso prendono decisioni scomode, che implicano quel senso di responsabilità tanto vituperato e annullato dai sedicenti cervelloni che oggigiorno vorrebbero insegnare il loro particolare senso d’appartenenza a un popolo che di tutto ha bisogno tranne che di lezioni di attaccamento.

I primi quindici minuti se ne sono andati così. In nome di Antonio De Falchi. Con la sua bandiera unica a sventolare al centro della Sud. Il suo volto da ragazzo di fine anni ’80, con la sciarpa giallorossa al collo e l’ennesima trasferta da affrontare.

Senza troppa retorica, senza troppe smancerie. Perché di fronte alla morte ci vuole innanzitutto rispetto.

Dal 15′ in poi buona parte della curva è uscita, mentre tutti i muretti hanno esposto lo striscione “Portate rispetto”, dedicando cori ostili alla dirigenza e ai giocatori. Con il lapidario messaggio: “Oggi solo Antonio vogliamo ricordare, a voi non vi vogliamo neanche guardare”.

A trent’anni dalla sua morte c’è ancora un ragazzo che tifa con i suoi compagni di curva. È rimasto giovane, con i capelli lunghi e il volto pieno di speranza. La speranza di chi ha spalle forti attorno. Di chi sa che la sua famiglia non è mai stata lasciata sola.

Simone Meloni