Attesa un tempo come una delle sfide più calde e scenografiche, quella tra giallorossi e azzurri è divenuta ormai una delle sfide più spente, insulse e inanimate della massima divisione. Anni di divieti e allarmismo preventivo hanno totalmente distrutto una contesta che, pur essendosi storicamente macchiata di episodi da bollino rosso, poteva e potrebbe esser gestita in altro modo.
Malgrado l’ormai inusuale orario delle 15 e la bella giornata primaverile, l’Olimpico presenta non oltre 35.000 spettatori. L’anonima (e a tratti umiliante) stagione della Roma ha allontanato parecchia gente, mentre il settore ospiti conta giusto qualche centinaio di supporter partenopei trapiantati nella Capitale. Agli altri – ça va sans dire – la trasferta è stata vietata.
Penso che quando si riuscirà ad aprire a tutti questa partita, tralasciando le isterie mediatiche e il continuo rinvangare il passato, si farà un serio passo in avanti verso la concessione delle più basilari libertà nei confronti dei tifosi di calcio e lo sviluppo socio-culturale di questo sport. In fondo il controllo sociale esercitato dalle forze del’ordine presso gli stadi è vertiginosamente aumentato negli ultimi anni e personalmente sono sempre più dell’idea che ci siano i presupposti per giocare tutte le partite “in sicurezza”.
Non bisognerebbe farne una questione di propaganda. In nessuna direzione.
In Italia si chiacchiera così tanto di cose stupide e inutili che alla fine l’opinione pubblica finisce per abboccare e convogliare la propria attenzione su cori politicamente scorretti o presumibilmente discriminatori. Cose che fino a quindici anni fa erano la normalità negli stadi e per le strade, mentre oggi sembra che in tanti se ne siano dimenticati (almeno sulle gradinate).
Lo sfottò, spesso anche becero, è alla base del nostro movimento e del vivere quotidiano delle nostre città. Onestamente faccio davvero tanta fatica, quindi, a capire il sensazionalismo che provoca un coro “contro” piuttosto che il sistematico divieto di circolazione, su base territoriale, per migliaia di cittadini ogni domenica. Quale tra i due casi è realmente e fisicamente discriminatorio? Non penso ci voglia chissà quale genio per rispondere con senso compiuto.
Voltando pagina e concentrandoci sull’ambiente dell’Olimpico, come detto la Roma è protagonista di una stagione a dir poco tribolata, che ha messo alle corde anche i più pazienti dei tifosi. Le numerose figuracce rimediate a diverse latitudini, l’ennesimo fallimento sportivo e la palese svogliatezza di una squadra che è chiaramente già con la testa in vacanza, non può che far rabbia a chi abitualmente frequenta lo stadio.
Eppure questa rabbia, se rapportata a momenti simili del passato, sembra quasi sopita. Un senso di rassegnazione pervade il tifoso romanista, che ormai non vede luce in fondo a un decennale tunnel fatto di promesse, errori marchiani e innumerevoli cambi di guida tecnica.
Fa strano dirlo, ma manca quella bava alla bocca che per tante stagioni ha fatto di Roma una piazza “temuta” anche dagli addetti ai lavori. Certo, sono cambiati i tempi e oggigiorno è anche difficile esprimere il proprio dissenso senza rischiare ritorsioni di carattere legale e repressivo, ma credo che allo stesso tempo ci sia stata una innegabile trasformazione/ammorbidimento in seno al romanista da stadio medio.
Un processo foraggiato, manco a dirlo, anche dalla virtualità, dove ormai da diverso tempo esiste un vero e “regime 2.0” che avalla, giustifica e supporta anche le più insensate e controproducenti scelte di un club che, almeno sul campo, ha finora complessivamente fallito e dimostrato di non saper calarsi nella realtà italiana contemporanea.
Se anche la costruzione del nuovo stadio fosse davvero vitale per le vittorie, mi chiedo come sia possibile riempire il tempo che separa dalla sua apertura non mettendo alcuna base calcistica. E passi il fair play finanziario, passino le spese folli che ormai in pochi si possono permettere, ma come si fa a non ammettere che con un po’ di sana e oculata programmazione si possono comunque raggiungere traguardi dignitosi? A Roma non mancano tanto i Cristiano Ronaldo, quanto gli uomini in grado di capire come, quando e dove stare.
Se una squadra è costretta a cambiare quasi un allenatore a stagione, smantellare per poi ricostruire la rosa e affidarsi nelle mani di sedicenti direttori sportivi spagnoli (tanto bravi a parlare di feste al Circo Massimo quanto a scappare nella caliente Siviglia come conigli bagnati mentre la nave affonda), senza mai capire gli errori commessi, vuol dire che qualcosa davvero non va. E questo magari potrà avvicinare il tifoso 2.0, che si fa imbambolare da qualche video sui social o dalle promesse di uno che (giustamente nei suoi panni) è venuto qua per fare business, ma difficilmente può fuorviare chi il calcio lo vedo ogni domenica con i propri occhi.
Questi ultimi, per l’appunto, sono ora rassegnati. Quasi disperatamente proni alla sovente umiliazione dell’ego di un club che per tanta gente rappresenta davvero una ragione di vita e molto più di una semplice passione.
Il romanista non ha mai chiesto vittorie trofei (perché storicamente non ne ha mai avuti) ma senso di appartenenza, lotta in campo e opportunità almeno di sognare fino alla fine. Quando invece al tifoso viene negato persino di sperare, magari di soffrire, ma sicuramente di vivere emozioni uniche e contrastanti, allora viene meno il bello del calcio e tutto quello per cui sin da piccoli ci siamo avvicinati a questo sport e alle nostre rispettive squadre.
Ecco. Questa è una delle prime cause di morte del pallone. Forse ancor più di repressione, caro prezzi e commercializzazione dell’intero movimento calcistico.
Simone Meloni