17 giugno 2001. La Roma batte 3-1 il Parma ed è Campione d’Italia per la terza volta nella sua storia. Il manto verde dell’Olimpico viene preso d’assalto dai tifosi in delirio mentre una folla oceanica si riversa per le strade della Capitale festeggiando il titolo. Lo farà per tutta l’estate. Ogni sera. In ogni angolo di Roma. Dal centro alla periferia.

Difficile per ogni tifoso giallorosso scalfire quel ricordo, o anche solo sovrapporgliene uno negativo o sgradevole. Eppure, incredibile ma vero, d’ora in avanti per qualcuno Roma-Parma non sarà solo un match in grado di evocare dolci ricordi, ma anche una partita che coincide con la fine (quantomeno parziale) di qualcosa. Di un senso di appartenenza, di un modo identitario di vivere il calcio e di un filo invisibile in grado di legare ancora minimamente i protagonisti del campo con quelli degli spalti.

L’allontanamento di De Rossi dalla Roma va bene oltre il semplice mancato rinnovo del contratto al centrocampista di Ostia. È, diciamocela tutta, l’ultima dichiarazione di guerra nei confronti dei romanisti e del loro modo di intendere l’attaccamento alla maglia e alla squadra.

Un percorso ben articolato. Che in questi anni ha toccato diverse tappe. Dal cambio dello stemma senza una minima consultazione (cosa che invece avviene, generalmente, anche presso club ben più accreditati e di livello mondiale rispetto alla Roma), alle ripetute offese vomitate nei confronti dei tifosi, alle figuracce patite in campo nazionale e internazionale, all’innalzamento vertiginoso per i prezzi dei biglietti e, in genere, alla considerazione e al trattamento dell’aficionado giallorosso come fosse l’ultimo degli stupidi sulla faccia della terra.

Un vero e proprio processo di de-romanistizzazione. Voluto, evidentemente, da chi pensa che il bagaglio culturale/sportivo di questa città sia dannoso al fine calcistico (salvo poi ottenere meno risultati dei già pochi conseguiti precedentemente a questa gestione). Probabilmente una serie infinita di pregiudizi e luoghi comuni, che vogliono Roma città di ozianti sfaticati.

Come dite? È vero? Ma anche se fosse vero, il problema si risolve eliminando la base tradizionale? Ci sarebbe quasi da ridere, se la cosa non facesse piangere e ponesse l’ennesima barriera tra questo sport, diventato ormai meramente un fatto di consumismo e commercializzazione, e i suoi fedeli seguaci.

Può un club esser gestito a migliaia di chilometri di distanza? Può una dirigenza articolarsi tra Boston, Londra, Città del Capo e, solo in minima parte, Roma? La continua e voluta fuga di riferimenti sportivi, i ribaltoni frequenti e la mai trovata stabilità tecnica la dovrebbero dire lunga. Non solo sulla mancanza di un vero e proprio progetto sportivo, ma sul caos che regna nell’universo AS Roma.

Del resto le parole di Ranieri ai tifosi accorsi a Trigoria qualche settimana fa (“Io qui non resto. Ma non ve la prendete con noi, decide tutto testa bianca che sta a Londra e quell’altro che sta a Boston​” alludendo a Baldini e Pallotta) chiudono il cerchio sul clima che si deve percepire al centro tecnico “Fulvio Bernardini”.

Appare chiaro come chiunque abbia la Roma a cuore, incarnandone l’anima più viscerale, venga messo all’angolo. E con chi questo proprio non può avvenire (Totti docet) gli viene conferita una carica puramente onoraria e dallo scarso potere decisionale.

Troppe volte, negli ultimi anni, i supporter capitolini hanno individuato in scelte e gesti della società degli affronti o delle provocazioni. Sebbene – come piace apertamente dire a qualcuno – i club siano delle aziende e nel 2019 pensino innanzitutto al profitto e al brand, qualcuno si è dimenticato che nello sport, in generale, non si può mai e poi mai eliminare la parte emozionale, quella ancorata al passato e agli affetti. Perché andare a vedere una partita, soprattutto per chi questo lo fa settimanalmente, non è esattamente come acquistare un etto di lonza o mezzo chilo di bucatini.

Inoltre tornando all’affaire De Rossi, si rischia di compiere un vero e proprio azzardo tecnico. Malgrado l’età non più verde e tutta una serie di problemi fisici, il numero 16 della Roma rimane sicuramente il giocatore più forte in rosa. Oltre che quello più carismatico. Farlo fuori è a dir poco disdicevole per una squadra che ormai da tempo immemore accusa vistosamente problemi di personalità e quadratura.

E no, non può essere una festa. Perché nella festa esiste l’allegria, il giubilo, la celebrazione. Stasera cosa si sarebbe dovuto celebrare? Il vilipendio di una bandiera? L’averla calpestata e umiliata manco fosse l’ultimo degli stracci riposti nello sgabuzzino di casa? L’aver addirittura anticipato la sua conferenza con dei ridicoli stati sui social? Manco fosse stato rinnovato il contratto al buon ‘Nzonzi o si fossi siglato un accordo pubblicitario con pasta La Molisana.

Per non parlare poi del durante e del dopo. Facebook, Twitter, Instagram invase da foto, frasi a effetto e clip video struggenti per “onorare” il suo “addio”. Della serie: “prima ti caccio, poi ci faccio i like”.

Il fatto che questo Roma-Parma cada proprio di 26 maggio – una data infausta per tutti i tifosi giallorossi – è solo l’ultima delle coltellate inferte ai presenti. Un’altra di quelle cose talmente puntuali da far quasi pensare che dietro ci sia un disegno diabolico per far imbufalire i tifosi.

Una serata ben diversa dall’addio di Totti. Per tante ragione. Nonostante il ritiro del numero 10 per antonomasia sia stato doloroso e arci discusso, era fisiologicamente prevedibile considerati i suoi 41 anni e le sue ormai precarie condizioni fisiche. E in tutti i modi la stella di Porta Metronia ha chiuso la sua vita calcistica indossando solo ed esclusivamente la maglia della Roma. Cosa che invece non è stata permessa a De Rossi.

Questo è il torto – la cattiveria, passatemelo – più grande. Perpetrata nei suoi confronti e nei confronti di un popolo che in questo gesto ha visto la piena volontà di svilirne e ucciderne l’anima più pura.

Non è stata una festa. Al massimo è stato come uno di quei funerali orientali, in cui ognuno porta da mangiare e si realizza una grande cerimonia per smorzare, con un po’ di allegria, la tristezza e il dolore di una morte. Che in questo caso assume tutti i contorni di un omicidio.

Sicuro è stata una grande rappresentazione di appartenenza. Un clima surreale che si è protratto prima, durante e dopo. Con una pioggia autunnale a farla da padrona. Sembra di essere in un mondo parallelo rispetto a quello di chi ha messo mano nella stanza dei bottoni in questi ultimi anni. Gli stessi che quest’oggi si sono ben visti dal presenziare (ma è normale che una delle prime società italiane in questa occasione non abbia “mandato” neanche una delle “alte sfere”?) lasciando campo a Francesco Totti e Bruno Conti. Alfieri del giallo ocra e del rosso pompeiano, sia chiaro. Ma con un potere decisionale assai limitato.

Giove Pluvio chiude i rubinetti quando sul tartan sfilano De Rossi e Ranieri. Non si vedono più dalle tribune, sono un tutt’uno con la gente che li abbraccia e gli strilla parole d’amore. Quasi invocandoli a non lasciarli soli. È forse l’ultima volta che l’Olimpico non si sente distante dai suoi protagonisti. Ed è forse l’ultima volta che qualcuno varcherà il tunnel degli spogliatoi con quei colori tatuati addosso e nel cuore.

Difficile accettarlo. Difficile farsene una ragione. Difficile chiedere a chi rimarrà di comprendere cos’è la Roma per i romanisti.

Simone Meloni