“Let me tell you a story of a poor family”.

C’è un coro proveniente dalle sponde del fiume Mersey, da quell’insenatura fangosa – Liuerpul per l’appunto – che si affaccia a specchio sul Mare d’Irlanda, che ha sempre attirato le mie simpatie. Perché nonostante l’innato senso di repulsione verso il Liverpool Football Club, a causa di una lontana notte di maggio, di coppe e di campioni, la prima volta che udii attraverso un tubo catodico quella melodia nata negli anni Sessanta, con quelle poche basi di lingua anglosassone che possiedo da bambino grazie a legami familiari, che di sicuro non interesseranno il lettore, mi resi conto di quanto il senso di appartenenza di quei ragazzi della Kop fosse simile a quello che provavo nei confronti della mia Roma.

Dicono che tutto il mondo sia paese, e che per ogni Tommy – questo il nome del protagonista di questo canto popolare – esista un alter ego cresciuto a sampietrini e nasoni, Cupolone e Curva Sud. “Vi racconteremo la storia di un ragazzo povero, che è stato mandato lontano da casa sua”. Inizia così quel coro e potrebbe cominciare in questo modo il racconto di un futuro prossimo, per la precisione di un ancor non vissuto mercoledì di agosto, in cui la formazione di mister Luciano Spalletti ospiterà il Porto nella sfida di ritorno dei preliminari di Champions League. E allora cercherò di raccontarvi la storia di una famiglia romana, costretta davanti a una televisione ad ammirare da lontano le gesta di undici ragazzi in pantaloncini pronti a far esplodere la passione di una città intera in un concerto di voci, dalle periferie più remote ai quartieri del centro.

Da anni ormai ci propinano la solita, fastidiosa, tiritera del “far tornare i nuclei familiari allo stadio”, la cui presenza, per alcune menti illuminate, simboleggia appunto l’assenza di episodi oltre le righe e un antidoto eccellente per rendere il calcio un’attività priva di eccessi, spenta, drammaticamente teatrale. Come se in un passato non troppo lontano, come ai tempi di quel maledetto incontro con i Reds ad esempio, non fossero convissuti pacificamente il pater familias con l’ultrà più scalmanato, il pupo con i fumogeni e i tamburi con la piccola di casa; come se noi tutti, nelle nostre prime apparizioni nell’impianto capitolino, non fossimo stati colpiti primariamente dalla straripante bellezza del tifo. Li osservavamo con gli occhi dei bambini che corrono dietro a un aquilone, mentre i nostri genitori ci intimavano di aspettare giorni migliori, quelli in cui i ruoli si sarebbero ribaltati e noi, ormai grandi, avremmo svolto il ruolo di incantatori di bambini. E così di generazione in generazione. Lo annunciano quotidianamente dai loro altari questo ritorno delle famiglie negli stadi, a mo’ delle peggiori promesse elettorali destinate a non avverarsi mai. Ma a differenza di queste, le quali spesso grazie agli odierni residui del pluralismo dell’informazione vengono poi vivisezionate e analizzate a mezzo stampa, codesti proclami raramente attirano un’adeguata attenzione, vuoi per scarsa conoscenza della materia, vuoi per interessi a noi sconosciuti (ma neanche troppo).

Così mi è sembrato il caso di parlarvi di Tommaso, uno scouser de noantri, due volte padre dallo splendido grembo testaccino di Angelica. Nato 41 anni fa il 235° dì del calendario gregoriano, lo stesso giorno dell’uccisione del prode William Wallace per mano della Corona inglese, nel momento in cui la Roma dava il calcio d’inizio in una amichevole estiva contro il Rimini terminata a reti bianche, capace di attirare però più di diecimila persone. Un’eresia pensando alle poche centinaia di persone che oggigiorno accompagnano le sfide estive della squadra capitolina a causa di limitazioni alla vendita e manovre destinate a render impossibile un seguito numeroso, scomodo e quindi difficilmente gestibile dai fautori della ‘safety’ a tutti i costi. Veniva al mondo il piccolo Tommaso mentre i giallorossi di un giovane Agostino Di Bartolomei, il suo idolo d’infanzia, preparavano la stagione ormai alle porte. Il suo amore per quei colori era quindi inciso nelle pieghe del tempo, tanto che fin da piccolo – assieme al Sor Checco, suo padre – era solito frequentare gli spalti di un Olimpico allora senza coperture e barriere, con gli occhi sognanti ammirando le gesta di quel gruppo dall’acronimo noto in tutto il globo che, con il passare degli anni, sarebbe diventato una seconda famiglia.

La paternità e gli obblighi derivanti da essa, legati alla necessità di lavorare anche i fine settimana nel forno che fu del padre e prima ancora del nonno, lo costrinsero ad abdicare quel seggiolino in Curva Sud, assistendo sporadicamente ad alcuni incontri nel settore adiacente, i Distinti. Quella che per più di due decenni era stata la sua casa era ormai ricordo lontano quando, non più di qualche giorno fa, balenò in testa l’idea di regalarsi l’ennesima serata fra le mura dell’impianto di Viale dei Gladiatori, consentendo così anche al piccolo Agostino – il secondo maschietto arrivato sette anni or sono a distanza di otto anni dal primogenito Sergio – di assaporare quell’atmosfera delle grandi occasioni che rapì gli occhi quando era bambino. Nonostante tessere, barriere, proteste della parte più calda della tifoseria giallorossa e le difficoltà dettate dalle nuove misure di iper sicurezza – questioni perfettamente note anche a chi ha abbandonato da tempo gli spalti, in quanto certi insegnamenti son come l’andare in bicicletta – era sempre più convinto di voler assistere alla super sfida di Champions League contro il Porto, ultimo ostacolo per passare l’inverno fra le migliori squadre d’Europa. Non in Curva Sud, sia per ovvi motivi di comodità ma soprattutto perché quel settore non dovrebbe mai e poi mai rimanere con posti in vendita libera (ogni riferimento non è puramente casuale), ma nel nuovo settore dedicato appunto alle famiglie nella vicina Tribuna Tevere.

Documenti alla mano e macchina in viaggio verso il Roma Store di Via Appia, al fine di evitare ogni fraintendimento con qualche rivenditore di quartiere e, magari, comprare anche una bella sciarpa nuova di zecca per la prole. Quattro biglietti di cui: due adulti, un ridotto donna e un under-14. Risultato: un preventivo di 136 euro che spiazza il povero Tommaso. “Più di duecentocinquantamila lire, ai tempi in cui mi ci portava mio padre ci facevi l’abbonamento a vita”. I tempi cambiano ed è giusto che sia così, ma le difficoltà di tirare avanti, fra una vacanza sacrificata, uno straordinario e i doppi turni, portano improrogabilmente a una forzata rinuncia condita da una piccata e fastidiosa osservazione da parte della dipendente dello store ufficiale: “Poteva fare l’abbonamento, avrebbe risparmiato”. Come se fossero tante le famiglie che oggigiorno possono permettersi in estate di pagare oltre 400 euro, in anticipo, per assicurarsi la possibilità di assistere a quattro partite in uno stadio che, a parità di prezzi, non fornisce il benché minimo comfort rispetto a tanti ‘colleghi’ in Italia e in Europa.

Mestamente la chiave torna nella serratura del veicolo, direzione casa e la delusione di dover rinunciare a una serata di festa a causa di una spettacolarizzazione dello sport che fu popolare, o almeno così gli avevano insegnato, a favore di qualche facoltoso turista e di chi (e non son molti di questi tempi) ha la fortuna di non dovere mai contare gli spicci nel portamonete. Ripensa a tutte le belle parole spese, ai proclami e alla battaglia per “riportare le famiglie negli stadi”, e ride amaramente, come un albero che d’autunno perde le sue foglie più belle. Avrebbe potuto risparmiare qualche decina di euro e acquistare i biglietti per la prima di campionato, in programma il sabato seguente contro l’Udinese, ma il povero Tommaso alle 18 lavora, e tanti come lui d’altronde.

Tornando mestamente verso la dimora e un piccolo a cui spiegare tutto il misfatto, si imbatte in un nuovo locale sorto a pochi metri dalla sua palazzina. Sponsorizzano la partita di quella che per lui è ancora Coppa dei Campioni, offrendo ai propri clienti il pacchetto completo: pizza, birra e televisione sintonizzata sull’incontro a soli 15 euro. Qui finisce la storia di una famiglia romana come tante, estromessa con la forza del vile danaro dagli stadi come avvenuto anzitempo in Inghilterra. E bambini che cresceranno con la convinzione che la partita sia un programma televisivo alla pari di un X-Factor qualsiasi, e non un momento di aggregazione sociale irripetibile e inimitabile. Non solo hanno ucciso a colpi di fendenti alle spalle il tifo romano, ma numeri alla mano (17.000 abbonati di fede giallorossa) anche la voglia di chiunque di partecipare a eventi che, un tempo neanche troppo lontano, trascinavano decine di migliaia di persone a prescindere dal blasone dell’avversario, dal tempo avverso e dalle difficoltà dettate da una struttura non al passo con i tempi.

Perché il calcio a Roma è stato espressione di gioia spontanea, biglietti acquistati all’ultimo secondo senza bisogno di tessere e una folle burocratizzazione del sistema e famiglie che sì, armate di teglie e panini, potevano permettersi quello che non dovrebbe mai essere un lusso per pochi. Ma soprattutto è stato il primo amore di bambini che, a differenza del piccolo Agostino, hanno avuto la fortuna di percorrere quegli scalini di quattro in quattro per trovarsi al cospetto di un muro fatto di bandiere, colori e passione. Una muraglia umana che è più resistente di quelle barriere in plexiglass che da più di un anno fanno sanguinare il cuore pulsante del tifo romano e di quelle invisibili innalzate dall’insaziabile avidità di danaro di chi mente sapendo di mentire.

Gianvittorio De Gennaro