Ci sono volte in cui il calcio ci ricorda perché la presenza del pubblico sia determinante per il suo svolgimento. Sono quelle volte in cui tutti coloro i quali vanno sulle gradinate per fare rumore, per “segnare il gol” e per essere il fatidico dodicesimo in campo, riescono appieno nel loro compito. E dimostrano pure ai più freddi calcolatori quanto il calore del tifo sia un qualcosa di determinante. Di unico per passare quei circa cento minuti differentemente da come li si trascorrerebbero davanti a una televisione o con le orecchie rivolte all’immortale radiolina.

Tante volte si parla del passato, di quanto gli stadi e il pubblico di una volta fossero migliori. La realtà è che erano sicuramente più liberi. Sicuramente meno influenzati della società contemporanea, storpiata dai social e dalle centomila distrazioni in più rispetto a una gioventù cresciuta a suon di partite in mezzo alla strada. Ma non credo che fossero più passionali. E oggi ne ho avuto un’ulteriore dimostrazione. Oggi, quando l’Olimpico si è scrollato di dosso l’abito buono e ha cominciato a cantare per il gusto di farlo, a sventolare le bandiere in ogni settore, ad accendere fumogeni persino in tribuna e a fomentare il vicino – come diceva un vecchio stendardo della Curva Sud -, ho capito che anche l’inerzia del campo non poteva essere diversa dal 2-0 maturato. Ho capito che quelle due portentose esultanze ai gol di El Shaarawy e Kumbulla erano il frutto di un clima da stadio “giusto”. Di quelle giornate in cui tutti entrano sugli spalti per dare qualcosa in più.

Potremmo star qui fino a domani nel rimestare frasi fatte sul calcio come rappresentazione massima della trasversalità popolare o sul grande ruolo che gli ultras ricoprono nel fare da traino, nell’essere la miccia che gli permette di paragonare i loro cori alla “bomba che esploderà”, ma forse risulterebbe un esercizio di sdolcinata ridondanza. Un’opera che più che altro riguarda tutti quelli interessati al “romanticismo”, che poi manco a dirlo sono proprio coloro che questo aspetto l’hanno talmente gonfiato da renderlo nauseabondo. Va preso invece il concetto di spinta popolare, di tifo all’italiana. Anzi, tifo degli italiani. Quelli che ancora oggi sono meta di pellegrinaggio da mezzo mondo, persino da Paesi e tifoserie che potrebbero permettersi di guardarci dall’alto in basso. Ma non lo fanno, perché evidentemente guardano l’espressione dell’anziano che malgrado un’intera vita alle spalle ansima, freme e soffre nei minuti di recupero, impaurito dagli avversari che si spingono avanti, o della signora di mezza età che in occasione di un gol mangiato potrebbe diventare tranquillamente una serial killer.

La follia collettiva degli italiani per il calcio credo sia ancora inimitabile, il problema è tutta la sovrabbondanza di discutibili priorità che li ha investiti negli ultimi trent’anni. Oltre a una repressione che davvero nel nostro Paese, spesso e volentieri, ha riguardato pure l’ultimo tifoso della tribuna.

La prestazione del tifo romanista di questa sera la metto fra le migliori prime quindici a cui io abbia mai assistito. E soprattutto perché non si trattava di una semifinale, di una gara decisiva per le sorti della stagione, di un derby o di una partita importante per lo scudetto. Ma dell’andata di un ottavo di finale dell’Europa League, una competizione che anche il più sognatore sa essere difficile se non impossibile non solo da conquistare, ma anche da disputare fino al turno successivo. Quindi la dimostrazione d’amore (qualora ce ne fosse bisogno) è stata totale.

Per quanto riguarda il settore ospiti, nulla di speciale da segnalare. I supporter baschi si presentano in 1.600 dietro le pezze del gruppo principale Bultzada, che si posiziona nella parte inferiore tifando con una certa costanza ma riuscendo difficilmente a trascinare tutto il settore, fatta eccezione per le sciarpate che in diverse occasioni hanno esaltato cromaticamente il settore ospiti. Tuttavia per approfondire la tifoseria della Real Sociedad ci sarà tempo e modo in occasione della gara di ritorno, quando sicuramente sarà interessante osservare come si svolge la vita curvaiola all’interno e all’esterno dello stadio Anoeta, oltre al comprendere una città tra le più famose dei Paesi Baschi, da sempre croce e delizia della Penisola Iberica.

L’ultima sciarpata prende possesso delle gradinate, sulle note di “Grazie Roma”. Il pubblico comincia a sfollare e le strade attorno all’Olimpico si congestionano come di consueto. Vedo in Lontananza un bambino giocare con un pallone – evidentemente portato da casa – sul Ponte della Musica. Sta costringendo il papà a difendere una porta di fantasia, rimediata con due sassi. Evidentemente c’è ancora speranza!

Simone Meloni