La pioggia cade battente sul viottolo che dal campo in terra battuta porta agli spogliatoi. Tra lo stuolo di ragazzini che si dirigono verso il tepore della doccia risalta la presenza di quel signore cresciuto per le strade di Tor Marancia e divenuto uomo con la fascia di capitano al braccio. Silente condottiero di mille battaglie della Roma di Dino Viola, sorriso sgomento eternamente stampato sulle labbra. A testimoniare una sofferenza interna che non è mai stata veramente alleviata neanche da una grande carriera e dall’infinito amore che la gente gli ha sempre trasmesso. Il suo doloroso passaggio al Milan (Ti hanno tolto la Roma, non la tua Curva), la lite con Graziani (“Sono solo un uomo tranquillo e un bravo ragazzo”, commenterà poi ai margini di quel Roma-Milan) e la sua appendice di carriera in riva al Mar Tirreno, in maglia granata. Poi il baratro, scavato da una fragilità a cui il mondo del calcio voltò le spalle. E quel 30 maggio maledetto.

Quella data che già dieci anni prima era stata funesta e aveva dilaniato il suo cuore e quello dei romanisti, con la Coppa dei Campioni persa ai calci di rigore contro il Liverpool. In casa, davanti al pubblico amico. Davanti a centomila cuori. Quella sera, in quella casa di San Marco di Castellabate deve averli rivisti prima di premere il grilletto. Prima di salutare per l’ultima volte la sua fascia da capitano, che immortale però si innalza sulle maglie della Roma, ma anche su quelle della Salernitana.

Mentre la pioggia cade battente Agostino Di Bartolomei trova riparo in un cantuccio, chiacchierando con un dirigente della società a cui i miei genitori mi hanno iscritto da poco. “Ma lo sai chi è quello?”, mi dice mia mamma indicandomi questo signore discreto, che anche alla mia ingenuità di infante trasmette una vena di nostalgia. “Quello”, imparerò negli anni, è ben più di un semplice ex calciatore. E seppure non ne ho ricordi calcistici, anche se l’unico frammento che ho è questo, “quello” diventerà una delle poche icone calcistiche a cui ho sempre fatto riferimento. Forse perché nella sua postura riservata e introspettiva mi ci sono sempre riconosciuto, sicuramente perché più di chiunque altro ha saputo portare la fascia di Capitano dando nobiltà al gonfalone giallorosso, senza eccessi e senza risultare mai fuori luogo.

Ci sono due sue interviste a cui sono particolarmente legato. Una è in maglia romanista, risalente al 1 maggio 1983. A pochi passi dal secondo scudetto, prima di un Roma-Avellino, con le squadre che stanno facendo il loro ingresso in campo. Giampiero Galeazzi chiede: “Capitano, la nave arriverà in porto?” e il numero Dieci risponde: “In porto sicuramente, vediamo di arrivarci col vessillo”. Il match finirà 2-0, con gol di Falcao e punizione magistrale – manco a dirlo – di Di Bartolomei. Una giornata che consegna virtualmente lo scudetto alla squadra di Liedholm; titolo che verrà conseguito una settimana dopo sul campo del Genoa.

La seconda è la sua ultima da calciatore. Ed è al Vestuti di Salerno, il 3 giugno 1990. Ai microfoni del compianto Luigi Necco. La folla granata è in festa per la promozione in Serie B ottenuta una settimana prima sul campo del Brindisi, con una rete di Agostino. “Questa è la mia ultima partita”. Poche parole, con il suo aplomb, che sembrano quasi isolarlo da quel contesto festaiolo. Da una Salerno che ha saputo ridargli linfa nella sua ultima parte di carriera e che tanto ne avrebbe avuto bisogno anche l’anno successivo.

È una storia di intrecci sentimentali. A cui ho pensato spesso. Su cui ho riflettuto rivedendo immagini del passato e riconoscendo un epitaffio indelebile scritto da questo Capitano nel cuore di due tifoserie. In modi diversi, con obiettivi differenti. Ma con il comune senso di appartenenza e umanità, preso a picconate – ma non distrutto – quel 30 maggio del 1994. Un vuoto ben più forte dello sparo in riva al mare.

“Semplicemente… guidaci ancora Ago!” reciterà un immenso striscione salernitano qualche giorno dopo, in occasione dei playoff di Serie C1 contro la Lodigiani. Nel suo stadio Olimpico, quasi per uno scherzo del destino.

A distanza di ventotto anni la sua presenza è ancora palpabile e mi scuso se possa sembrare retorico incentrare questo articolo proprio su di lui. Anche se – francamente – andrebbero trovati certi equilibri e sebbene la narrativa smielata dia ai nervi anche a me, bisognerebbe smetterla con la solfa dell’antiretorica a tutti i costi. Ci sono sfaccettature sentimentali che ogni tanto vanno fatte emergere, giusto per non dimenticarci il motivo per cui un po’ tutti noi amiamo non solo il pallone che rotola, ma anche e soprattutto il suo contorno.

Ago nel cuore è lo striscione che in questo pomeriggio viene esposto sulla pista di tartan; dapprima sotto la Sud e poi sotto tutti i settori. Ricevendo il sentito applauso dei 64.000 presenti. A due giorni dal suo compleanno. Un tutto esaurito che testimonia ancora una volta il viscerale attaccamento della tifoseria giallorossa e, dando un’occhiata al settore ospiti, ci rammenta come la nostra Serie A abbia sicuramente più bisogno di un pubblico come quello granata che di artefatti e plastificati esperimenti in stile Sassuolo.

Oltre l’aspetto calcistico, questa giornata è dedicata a lui e a ciò che rappresenta per le due tifoserie in questione. Lo stadio imbandierato e le squadre che in campo si danno battaglia, con una Roma non bella ma che sembra aver trovato il carattere, riuscendo a rimontare nel finale una buona Salernitana e vincendo per 2-1.

Come accennato, nota di merito per una tifoseria ospite che – dopo tempo immemore – è tornata a riempire il Distinto a lei destinato. Tifo, colore, fumogeni e passione malgrado l’ultimo posto conclamato e una stagione tutt’altro che semplice. Un po’ sottotono la Sud, anche se credo abbia influito e non poco il pensiero all’imminente sfida di coppa con il Bodo. Rapporti distesi tra le due tifoserie, sebbene qualcuno poco avvezzo alle dinamiche ultras provi comunque a provocare i dirimpettai con gesti e cori forse un po’ fuori luogo.

Diciamo che questi atteggiamenti rappresentano croce e delizia per il pubblico romanista, soprattutto quando lo stadio si riempie. Tornano comodi quando c’è da fare pressione sull’avversario e rimarcano la natura tutt’altro che amichevole di una tifoseria rognosa da trovarsi di fronte, anche nei suoi effettivi non ultras. Mentre in casi come questi lasciano il tempo che trovano.

Palcoscenico finale per le bandiere al vento su ambo i fronti. Con il libeccio che spira possente, facendo distendere i vessilli esattamente come titoli di coda a questa giornata.

Simone Meloni