La disastrata Coppa Italia – competizione non competitiva e totalmente antisportiva – mette di fronte Roma e Sampdoria. Una sfida interessante soprattutto perché dà l’opportunità agli ultras genovesi di tornare in trasferta. La retrocessione in Serie B, infatti, oltre alle delusioni sportive e ai dissesti societari, ha portato con sé un’infinita serie di divieti per i doriani, che da un paio d’anni a questa parte, praticamente, recitano la parte dei “cattivi” secondo l’Osservatorio sul NULLA, che settimanalmente li inibisce da qualsiasi spostamento su territorio nazionale, adducendo come scusa il non possesso della tessera del tifoso, dilettandosi in una delle sue specialità: la discriminazione territoriale. Quella vera, non quella che attribuiscono ai tifosi per qualche canzoncina. In fase di vendita vengono staccati più di ottocento biglietti per il settore ospiti, a testimonianza di come i blucerchiati abbiano organizzato e pensato questa trasferta. A voler fare paragoni – magari impropri per contesto storico, sociale e curvaiolo – che affondano le loro radici nella memoria del movimento ultras, verrebbe quasi da rivangare la “celebre” finale di Coppa Italia 1985/1986, quando per la prima volta i liguri presenziarono da ultras all’Olimpico, dando il la a pesanti incidenti scatenati dai romanisti che cercavano in tutti i modi il contatto. Una giornata che passò agli annali e che, pure se non si può sovrapporre a quella odierna, con quest’ultima ha in comune l’adrenalina nel viaggiare e nell’esaltare i propri colori in uno stadio interamente dipinto di giallorosso.

Parlando solo ed esclusivamente di tifo, volendo prendere in analisi questo aspetto – che è certamente quello più eclatante da parte degli ultras, quello che giocoforza richiama ragazzi e nuove generazioni per il suo aspetto ludico e identitario – la presenza blucerchiata assume un valore particolarmente importante, perché rispolvera appieno il vecchio concetto del tifare malgrado ogni sorte avversa. E farlo con tutti i crismi e le filosofie che il nostro vecchio e criticato movimento ci ha insegnato. Con la voce, vero, ma anche con la testa e con una determinata filosofia. Mentre guardo i tifosi ospiti, penso al lavoro costante che è stato fatto affinché chiunque segua una partita della Samp, in casa o fuori, abbia come obiettivo primario quello di tornare a casa con la coscienza a posto e la voce consumata. Con la certezza di aver tenuto botta al confronto con l’avversario e di aver colorato il proprio spazio (segno e conferma che si possono anche fare due cose assieme: sventolare e battere le mani, pazienza se si perde un secondo di partita giocata, in alternativa c’è la Pay Tv!). Ma ovviamente questo modus operandi non è figlio della casualità e non si ottiene da un giorno all’altro. E attenzione: questo pezzo non vuol tanto essere un omaggio ai doriani, quanto un grido d’allarme per chiunque abbia smesso da tempo di fare alcune cose fondamentali per la vita di curva. Su tutte l’aggregazione. Il far sentir parte di un mondo e di una comunità anche gli ultimi arrivati, anche i più giovani. Il fargli intendere che una inutile partita di Coppa Italia, con la squadra che parte sconfitta, è in realtà un modo per dar lustro alla propria fede e ai propri colori. Arrivare laddove undici calciatori scarsi – e spesso ignari del significato della casacca che indossano – non arriverebbero mai.

I miglioramenti, il saper essere uniti anche malgrado differenze e spaccature interne, l’esser blocco unico a difesa della propria effige, è un’opera molto più complicata rispetto a un tempo. Viviamo nell’era dell’apparire, delle immagini vomitate sul web senza neanche tenere in considerazione delle conseguenze o della portata del loro contenuto, dei cambiamenti fulminei e dell’allontanamento da qualsiasi tipo di impegno: ideale, politico o sociale. Quindi per i direttivi c’è un lavoro triplo da fare. Ed equilibri da cercare. A volte, va detto, c’è da fare anche il proverbiale passetto indietro per il bene comune e sicuramente ogni scelta va spiegata, argomentata. Di fondo il mondo ultras, pur essendo un movimento collettivo, è contraddistinto spesso da un forte moto individualista e questo spesso porta alcuni gruppi e alcune curve a non vedere oltre il proprio orticello. Conducendo gli stessi a un vicolo cieco, dove non c’è soluzione di crescita o cambiamento. A volte manca il confronto con l’esterno e anche l’umiltà di ammettere le proprie mancanze o guardare all’avversario (o all’antagonista interno) con rispetto, cercando di prendere qualche spunto positivo. Un qualcosa di puerile se ci si pensa. La grande differenza che evinco guardando stasera il settore ospiti, sta tra la sua vitalità e desiderio di dimostrare e le altre mille occasioni in cui si assiste a settori standardizzati, indolenti, senza alcuna voglia: si va in curva, si guarda alla partita, ci si interrompe su un coro per commentare una traversa presa o un’occasione mancata (magari a risultato pure acquisito) e poi si torna a casa, senza che nulla resti dentro. Con poca differenza rispetto ad averla vista alla televisione.

La serata del tifo inizia tra la moltitudine di bandiere blucerchiate e la sciarpata con cui l’Olimpico canta sulle note dell’inno. La sciarpa da qualche tempo è tornata a essere un elemento importante in Sud, tanto che a occhio nudo si possono distinguere diversi pezzi realizzati di recente da alcuni gruppi. Pezzi di stoffa prodotti in numero limitato (e su questo sposo appieno la scelta), che danno il loro bell’effetto e accendono il settore con i colori storici della Roma. Un lavoro, quello di riportare in auge alcuni aspetti storici della tifoseria romanista, condotto e perorato dal megafono che, come detto in altre occasioni, da qualche mese cerca in maniera più incisiva di parlare con la curva, indirizzarla sui binari corretti del sostegno durante il match e cogliere importanti sfaccettature per fomentare un settore difficile, umorale, ma che sicuramente ha dalla sua la grande passione che ai romanisti non si può certo contestare. Anche qua, come detto, il saper comunicare con la gente è fondamentale, in un momento storico dove non ci sono più le fanzine, dove – ormai da anni per una scelta “etica”, che neanche biasimo francamente – i banchetti con il materiale sono un lontano ricordo e dove ci si può trovare spaesati nel realizzare stendardi e bandiere correttamente, seguendo un certo stile e un pensiero diffuso, è assolutamente fondamentale avvicinare in un unico obiettivo la prima e l’ultima fila. Impresa ardua, sicuramente, che richiede tempo, anni, fatica e sacrifici, ma che è necessaria per continuare a tramandare un’idea che nella Capitale ha sempre avuto il fascinoso merito di insinuarsi in modo tribale e “carbonaro”, ma al contempo di ammaliare tutte le generazioni. Aggiungo: occasioni come questa, dove si ha di fronte una tifoseria, ha reso alcuni di questi aspetti dei veri e propri cavalli di battaglia, importanti per rafforzare il credo e instillare in tutti l’importanza di vivere il confronto canoro, dei colori e del tifo in generale. Cercando sempre e comunque di prevalere.

Nella serata in cui vengono esposti diversi striscioni – di contestazione e in memoria di Massimo Cioffi su fronte romanista -, sicuramente il “Trasferte libere” mostrato a più riprese dal settore ospiti assume un valore particolare ed emblematico. E sottolinea ancora una volta quanto detto sopra: una presenza che va al di là di qualsiasi interesse sportivo e che affonda le proprie radici in ciò che i doriani sono sempre stati e in quello che hanno fatto e dimostrato negli ultimi anni, anche grazie a personaggi di curva in grado di non essere meri “capi”, ma figure guida nell’interesse di tutto il popolo della Gradinata. Dai frequentatori sporadici a quelli più attivi nei gruppi.

In campo finisce 4-1 per la Roma, ma per chi vive di stadio e osserva con attenzione quasi maniacale questo mondo, il risultato sportivo è veramente l’ultima delle cose a cui guardare oggi. Lasciando lo stadio si odono le ultime schermaglie verbali, che riverberano quello “scontro” a suon di cori e insulti goliardici che è parte integrante del nostro spettacolo e che, malgrado tutto, tiene viva la voglia di metter piede in uno stadio. Perché questo genere di confronti riescono persino a esulare, seppur solo per novanta minuti, dal calcio business e dall’industrializzazione del tifoso. Anche per questa ragione è fondamentale non isolarsi e tramandare tradizioni e mentalità.

Simone Meloni