Cominciamo con il constatare che il turno a ridosso di Capodanno, nel bel mezzo delle festività natalizie, probabilmente non è cosa molto gradita agli italiani. Lo dicono i numeri e la timida partecipazione. All’Olimpico, per esempio, è percepibile a occhio nudo come dei 37.000 spettatori ufficiali (che sono comunque una cifra bassa, se si pensa a un passato nemmeno troppo lontano) più di qualche migliaia sia rimasto a casa o, più probabilmente, lontano dalla Capitale per le classiche vacanze.

Sì, è vero, questa “novità” (che in realtà era già stata adottata una trentina di anni fa) si era resa necessaria per permettere alla Nazionale di disputare alcune amichevoli, nel periodo di sosta a inizio gennaio, in vista del Mondiale di Russia. Esigenza poi venuta meno vista l’incapacità degli Azzurri di raggiungere la kermesse iridata. Ma è altrettanto vero che simili scelte seguono sempre quell’odioso filone logico che si diverte a scimmiottare l’Inghilterra. Trovando puntualmente insuccessi e figuracce.

Sebbene questo, almeno per me, non riesca a giustificare appieno i numerosi buchi registrati quest’oggi nella parte centrale della Sud. Parliamo pur sempre di una partita di Serie A, con una squadra che viaggia tra le prime posizioni. Come detto più volte in passato, anche questo è l’inesorabile simbolo dei tempi che cambiano. E la religione del pallone, quella febbre che non ti permetteva di mancare allo svolgimento liturgico dell’evento, è andata man mano assopendosi. Lasciando spazio a un pericoloso stuolo di tifosi relativi, da salotto e da grandi eventi.

Un pubblico che troppe volte non ha fame, si sente arrivato pur vivendo situazioni sportive che non glielo permetterebbero e lesina in cattiveria e determinazione nel sostenere la squadra. Sì, forse se dovessi definire la prestazione odierna del tifo organizzato romanista dovrei partire proprio da questo filo conduttore. Manca la propulsione, manca la gioia e la spinta dell’anima del cantare a squarciagola con la coscienza di poter spingere la palla in rete grazie a un coro potente o un battimani fragoroso.

Questo 2017 è stato un anno importante, che ha visto il ritorno di tutta la Sud allo stadio. Un qualcosa che ha ridonato all’Olimpico il suo aspetto più autentico e ha instillato nella mente di molti ragazzi l’importanza della conservazione di quello spazio comunque, che non rappresenta soltanto i 90′ della partita. Ma un’area di condivisione sociale. Una delle poche che restano in città.

Si sono alternate ottime prestazioni a sufficienti prove di tifo. C’è stato qualche passaggio a vuoto, ma quello è inevitabile nella costellazione di un movimento ultras profondamente mutato e annacquato in questi ultimi anni. La nostra società si è imborghesita (pur vivendo spesso storie al limite della sostenibilità umana ed economica) e ha ceduto molti dei suoi istinti sanamente bellici alla morale del politicamente corretto. E ciò ha finito per intaccare anche lo spirito delle curve.

La mediocrità è forse la sconfitta più grande che abbiamo incassato nell’era contemporanea. È un macigno pesante e gravoso per le nostre generazioni e per il nostro avvenire. Perché ci fa passare tutto come per normale e difficilmente ci dà la possibilità di ragionare con spirito critico e battagliero. La mediocrità la vedi anche nelle curve, quando fanno il loro compitino non andando oltre. Perché la mediocrità è quella che ti fa preferire un messaggio sullo smartphone alla partecipazione al tifo o ti fa alzare la testa sui maxi schermi che proiettano la partita per rimanerci incollato, anziché alzare le mani e seguire i dettami dei lanciacori.

Vanno rispettati questi ragazzetti che ci mettono anima e cuore per tenere in vita il tifo e, nella fattispecie, la Curva Sud. Vanno rispettati perché attorno a loro trovano sovente il Deserto dei Tartari in fatto di stimoli e partecipazione. E, diciamocela tutta, spesso anche di collaborazione e aiuto da parte dei più navigati. Bisogna serrare i ranghi per non far sparire tutto e nell’era del proibizionismo becero in fatto di stadio, occorre che il senso d’appartenenza superi qualsiasi spaccatura e conduca tutti a fare ciò che ancora è a malapena consentito: il tifo ruggente, passionale e continuo per la propria squadra.

Anche perché, si diceva una volta, non si può rimproverare nulla ai giocatori se non sei tu il primo a dare tutto in curva.

Nel settore ospiti trovano spazio un settantina di sassolesi, di cui una ventina di ultras che per la prima volta – con la trasferta senza tessera del tifoso – mettono piede allo stadio Olimpico. Salvo i primi cinque minuti di gara staranno in silenzio per tutto il primo tempo, per poi abbandonare definitivamente lo stadio all’intervallo. Non conoscendo le motivazioni di tale scelta mi limito a riportare quanto visto.

Infine una curiosità: esattamente 28 anni fa, il 30 dicembre 1989, allo stadio Renato dall’Ara di Bologna, durante la gara tra i felsinei e la Roma, Lionello Manfredonia si accasciava al suolo per un attacco cardiaco. Il contestatissimo giocatore ex Lazio e Juventus, passato nel 1987 alla Roma e causa della spaccatura del Commando tra CUCS G.A.M. e Vecchio Cucs, si salverà ma sarà costretto a ritirarsi dal calcio giocato. Strana coincidenza quindi che a distanza di quasi tre decenni si rigiochi nella stessa data e sempre con la Roma opposta a un club emiliano.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr