Dovuta premessa: l’errore è probabilmente stato quello di partecipare alla presentazione. Per come sono fatto sapevo da principio che non avrei apprezzato l’aspetto “commerciale” della serata. Sapevo bene che d’istinto poco avrei tollerato spettacoli canterini, sbandieratori, esaltazione esagerata dei giocatori e quant’altro. Sicuramente è un mio limite, un mio problema. O forse semplicemente un modo di vedere le cose che va però modellato ai tempi che corrono. Un qualcosa che giocoforza non può conciliarsi con quello che il calcio oggigiorno è diventato. E con quello che – giustamente da par loro – le società programmano e portano avanti a livello d’immagine.

Tuttavia, giusto per ricordare ai più smemorati: ho sempre sottolineato come la proprietà Friedkin abbia fatto un importante salto di qualità nel rapporto con la tifoseria. A differenza di chi li ha preceduti hanno saputo trovare fondamentali chiavi di volta, senza inimicarsi la parte più radicale e assidua (vale a dire chi frequenta lo stadio e va in trasferta) ma cercando di venire incontro a molte istanze: dai prezzi dei biglietti/abbonamenti, al rispetto delle tradizioni (lo stemma con ASR sarebbe bello vederlo permanente sulle maglie, ma è stato quantomeno rimesso al “centro del villaggio”, per citare Rudi Garcia) alla difesa del club ogni qual volta i propri tesserati si sono sentiti “vittime” di decisioni sportive non congrue, finanche agli importanti e mirati investimenti approntati in campo sportivo. E sfido chiunque a dire il contrario. Sfido chiunque a tacciarmi di “disfattismo” e “catastrofismo”. Aspetti che non vanno mai confusi con la critica. Critica che è sacrosanta e che non deve mancare mai, in ogni aspetto della vita. Da quella verso noi stessi a quella verso ciò che ci circonda. La critica aiuta a crescere ed è motivo di confronto. Praticamente il sale per ogni rapporto che si rispetti.

La critica è personale, ovvio. Quindi opinabile, non condivisibile e a sua volta soggetta a contro critica. L’importante è accettare le regole del gioco. Almeno se si è in buona fede. Come il sottoscritto.

Sì, lo ammetto: non ho apprezzato particolarmente il ripetuto coro per il neo acquisto Wijnaldum. Ripreso dai tifosi della nazionale olandese ma, soprattutto, da quelli del Liverpool (e per questo motivo immediatamente ricoperto dai cori della Sud contro i britannici). E mi dispiace se posso risultare poco lucido, pesante e di parte, ma no, proprio non ci riesco a familiarizzare con canti che partono da quella tifoseria. E lo so benissimo com’è la storia, la conosco: so bene di quei ragazzi del Commando che proprio in mezzo alla folla Reds si riversarono nella primavera del 1977, per seguire con loro la finale di Coppa Campioni contro il Borussia Monchengladbach e ispirarsi ai loro cori e al loro modo di vivere lo stadio. E quella è storia, di fronte a cui io sono un puntino insignificante e posso solo mostrare rispetto. So benissimo che oggi, Anno del Signore 2022, stuoli di ragazzetti sono storditi e condizionati dai social e che ovviamente non possono certo pensare all’aspra rivalità con gli inglesi prima di cantare un coro che – in fondo – ha come obiettivo solo quello di incitare ed accogliere un calciatore appena arrivato. Sarebbe anche una cosa bella se la si vedesse con uno sguardo meno legato alla sfera ultras.

Pertanto non è certo mia intenzione voler fare il “maestrino”. Non solo non sono nessuno per farlo, ma non ne ho né le competenze e né soprattutto il diritto. Sarebbe facile parlare e dare giudizi dal proprio scranno della tribuna stampa, mentre i restanti 65.000 presenti si dannano l’anima per essere il dodicesimo. Ognuno a modo suo, sia chiaro. Ma ognuno con un solo intento: il bene dell’AS Roma. Ecco, paventare anche la sola idea che questa non sia una priorità anche per il sottoscritto mi fa rabbrividire.

Non apprezzo in generale i cori per i giocatori. Non ce la faccio, è più forte di me. Salvo rarissime eccezioni li vedo comunque come “figure di transito” che da professionisti – giustamente – un giorno stanno qui e quello dopo da un’altra parte. Ma capisco che in determinate situazioni e sull’onda del grande entusiasmo creatosi non è neanche questo il problema principale. E in fondo è meglio un ragazzino che decide di venire allo stadio indossando la maglia di un neo acquisto e idolatrandolo rispetto a chi, magari, sceglie di sostenere club di altre città o non si appassiona minimamente a qualcosa così grande e viscerale come la squadra della propria città. Da sempre i momenti di grande euforia hanno gettato importanti basi per dare linfa nuovo al tifo degli anni a venire.

Come linea guida cerco sempre di seguire la sobrietà. Ma è un mio modus vivendi, un mio punto di vista del mondo. Che fa a cazzotti spesso con la realtà romana, che proprio sobria non è per definizione. E spesso questa eccessiva euforia ha finito per divenire un boomerang. Tutto qua. Non è pessimismo o voler a tutti i costi ricalcare realtà che non si emozionano per nulla. Ma nel retroterra di ogni tifoso ci sono ferite difficili da lenire, che portano a un modo più cauto di vivere anche momenti cruciali e di brio generale.

Istintivamente non mi è piaciuta l’esaltazione di Dybala il giorno della sua presentazione all’Eur, per dirne un’altra. Ma razionalmente penso che portare in strada oltre diecimila persone con bandiere, torce e fumogeni – in piena estate – non sia da sottovalutare. Cos’altro distoglie l’attenzione da realtà virtuali o passatempi poco istruttivi come può fare il calcio? Nulla, soprattutto a Roma. E ho pensato che se – come abbiamo sempre detto – la Roma e il suo seguito sono qualcosa di “aristocratico e popolare”, allora bisogna accettarne e rispettare davvero tutte le componenti.

Componenti, già. Ce ne sono diverse. Anche all’interno dello stadio. C’è l’ultras, il tifoso scatenato della Tribuna Tevere, quello più pacato della Monte Mario e quello mezzo curvaiolo e mezzo “tribunaro” della Nord. Eppure è l’unione che fa la forza. Lo ha dimostrato la scorsa stagione. Lo hanno dimostrato partite come quelle contro Bodo e Leicester, quando la fede è riuscita a fungere da collante fra queste componenti e gli ultras hanno acceso il motore e pilotato la macchina del frastuono e del sostegno in maniera magistrale.

Ecco perché è vero che nessuno si dovrebbe arrogare “patenti” di tifo. Perché l’amore per la propria squadra è talmente irrazionale che ognuno giustamente la vive come meglio crede. E l’unità d’intenti che si è raggiunta sulla sponda giallorossa del Tevere è qualcosa di raro e propulsivo. Importante e storico per questa piazza. E comprendo appieno la paura che qualcuno – anche solo con una parola fuori posto – possa intaccare questa armonia. Che possa cadere nel più classico degli atti autolesionisti. Perché, parliamoci chiaro, quelle volte che il pubblico della Roma è riuscito a fare quadrato ha trovato ben pochi ostacoli sul proprio percorso. E lo dice uno che con la sua città è iper critico, uno che non la tollera a più riprese, che la ritiene la più provinciale e paesana delle Capitali, ma che nella potenza della passiona pallonara ci crede ed è convinto.

Forse ha ragione chi dice che andrebbero evitare polemiche sterili in luogo di un sano percorso che sia in grado di migliorare eventuali lacune e cementare ancor più l’unità d’intenti. Anche perché se una delle citazioni più ripetute è “ci è bastato vincere una volta per dire che avevamo vinto più di tutti” un motivo ci sarà. E nel bene o nel male questo è un tratto distintivo che rende il pubblico romanista quasi unico nel suo genere.

Simone Meloni