Voglio fare una dovuta premessa: non amo particolarmente il copione sotto forma di slogan che, non di rado, gli ultras si ritrovano a recitare per accontentare l’opinione pubblica “interna” e far vedere quanto, a volte, anche la piazza più piccola e remota sappia emulare la grande tifoseria. Siamo stati oggettivamente un grande movimento (e in parte lo siamo ancora) perché abbiamo fatto della varietà, della diversità, un nostro cavallo di battaglia.
Siamo stati però, anche terribilmente fragili al nostro interno. Incapaci spesso (sempre?) di condurre battaglie vitali per la nostra sopravvivenza, fermandoci – per l’appunto – agli slogan di cui sopra. Predicando bene ma razzolando male. Perdendoci dietro filosofie oltranziste che hanno finito per fiaccare tutta la spinta propulsiva e aggregativa che sempre ci ha contraddistinto. Certo, il mondo ultras italiano si è trovato di fronte – almeno negli ultimi venti anni – dei franchi tiratori, cecchini di prim’ordine assoldati da uno Stato incapace (volutamente?) di gestire le folle e voglioso di creare in continuazione il folk devil da sbattere in prima pagina, per mantenere alta l’italica percezione emergenziale della società e minare qualsiasi possibile epicentro di pensiero indipendente, di formazione della coscienza autonoma. Se vogliamo anche di divulgazione della cultura e del sapere in taluni spazi.
Queste dovute premesse non intaccano tuttavia il giudizio positivo verso messaggi, striscioni o cori in grado di mettere a nudo quanto ridicolo sia il sistema calcio (e il sistema capitalistico in genere, permettetemi) che con i Mondiali in Qatar ha sintetizzato alla perfezione la propria anima, i propri scopi e la propria demolizione di qualsiasi enfasi sportiva. Basterebbe pensare che quelli de “Il calcio è della gente” sono gli stessi che in un modo o nell’altro hanno favorito lo svolgimento di un evento dove la “gente” (i tifosi) saranno interpretati da altra gente mal pagata, sfruttata e derisa (parafrasando il buon Rino Gaetano) ingaggiata in loco per riempire i vuoti del pubblico vero che ha deciso di disertare. E dove, ancor prima di tutto il discorso sui diritti umani calpestati, ci sarebbe da sottolineare la vera e propria tratta degli schiavi messa in scena da oltre dieci anni per la costruzione di stadi, strutture ricettive e qualsiasi altra cosa necessaria a ospitare questa insanguinata rassegna iridata (tra cui anche un nuovo aeroporto e una nuova città, dove si giocherà la finale).
Quello esposto dalla Curva Sud (così come quelli esposti in tanti altri stadi del Mondo) non è certo figlio di una lezione di moralità o di un capriccio di cui gli ultras si sono voluti rendere protagonisti per farsi vedere “più buoni” agli occhi del mondo esterno. Semmai fa parte dell’anima più pura e longeva di chi frequenta assiduamente le curve: lo spirito di andare “contro”. Di voler guardare sempre con un occhio critico, disgustato e malfidato il centro del potere. La stanza dei bottoni dove, con tutta probabilità, si trova il Vaso di Pandora da scoperchiare. Parliamo per stereotipi? Forse. Ma la questione Mondiali in Qatar avrebbe dovuto creare una seria discussione a livello pubblico sin dagli albori. Avrebbe meritato inchieste, condanne e dossier. Tutte cose che – salvo rare eccezioni – non sono avvenute. E fa sorridere notare come, solo oggi, a pochi giorni dal fischio d’inizio, il baraccone mediatico si sia svegliato, accorgendosi che forse non è tutto oro quel che luccica sotto il sole degli Emiri (del resto parliamo di una stampa nazionale che difficilmente parla e sottolinea le morti sul lavoro avvenute in Italia; 1.221 solo nel 2021, tanto per far capire di cosa e di chi parliamo).
The Guardian – tra i pochi giornali a portare avanti un’importante campagna informativa sulle situazioni disumane dei lavoratori in Qatar – nel febbraio 2021 parlava di “oltre 6.500 morti sul lavoro negli ultimi dieci anni”. Tutti migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka (il 90 percento della forza lavoro nel Paese è straniero), costretti a turni di 14/18 ore per un compenso giornaliero di circa 2 Euro, oltre che a condizioni di vita ben al di là dell’accettabile. Ovviamente l’Emirato smentisce categoricamente tali numeri, affermando che contestualmente ai lavori per i Mondiali sarebbero morte “solo” 37 persone.
Sebbene non ci possa essere ufficialità nei dati stilati dal giornale britannico, è quantomeno doveroso nutrire dei dubbi, soprattutto se correlati alla folle esigenza da parte dei dirigenti statali qatarioti di trasformare un Paese principalmente desertico, privo di strutture utili a ospitare un evento mondiale e scarsamente popolato (dodici anni fa, nel momento dell’assegnazione contava due milioni di abitati, saliti oggi a tre). Volontà che chiaramente è stata accontentata da una manodopera a basso costo (bassissimo, se si pensa che solo nel 2020 ai lavoratori è stato garantito un salario minimo di 230 Euro) e che grazie a policy a dir poco barbare come la kafala (ai dipendenti, fino a due anni fa, non era consentito lasciare o cambiare il posto di lavoro senza il permesso della propria azienda) ha prodotto, di fatto, una schiavitù del tutto legalizzata e accettata. Praticamente “commissionata” dalla Fifa (persino Blatter – a scoppio ritardato – ha dichiarato che assegnare la kermesse al Qatar è stato un errore).
Benché l’argomento sia lungo e complesso, non è sicuramente questo l’articolo dove dilungarsi troppo. Ma è sicuramente il posto dove evidenziare quanto una presa di posizione delle curve, per quanto ininfluente, sia importante da un punto di vista della coscienza. Uno striscione ancora oggi può far riflettere e può indurre qualcuno a informarsi, a chiedersi perché una normalissima domenica di metà novembre, durante un noiosissimo Roma-Torino, nel settore caldo del tifo giallorosso sia stato esposto questo messaggio. In fondo questo siamo sempre stati, nel bene e nel male. Il mezzo di comunicazione più diretto, crudo e veloce resta quel lungo rotolo di carta con frasi pittate sopra da mani virtuose e teste pensanti. E per quanto sia utopico, soprattutto in un Paese mentalmente sedentario come il nostro, sarebbe bello se in questi cinquanta giorni ci fossero poche persone davanti agli schermi, a vedere un qualcosa che davvero non ha nulla a che fare né col calcio che abbiamo imparato ad amare, né con la maniera familiare, magari un po’ alla buona e rustica, che abbiamo sempre avuto di seguire un Mondiale.
Pensate che non serva a niente? Probabile. Ma è sempre il solito discorso: se un piccolo passo non lo facciamo singolarmente, di certo sarà difficile farlo come collettività. In fondo è un po’ quello che a livello di aggregazione ultras ci è spesso mancato. Il passo unitario e granitico verso chi il mondo delle curve ha sempre provato a distruggerlo, disunirlo e renderlo il nemico pubblico numero uno. Atteggiamenti che negli anni si sono moltiplicati non solo per arginare la violenza, ma anche per mettere la museruola a chi troppe volte la domenica si è permesso di fare la voce grossa e sputtanare chi siede in cima alla piramide.
Ora, fermo restando che se dai tifosi mi aspetto una presa di posizione, in quanto appassionati e fruitori dello spettacolo calcistico, da giocatori e allenatori ho meno aspettative e non credo neanche sia il loro ruolo: sono sportivi, non politici o divulgatori. Anzi, spesso rilasciando dichiarazioni più “tecniche” finiscono per sortire l’effetto contrario. Molti di loro parteciperanno alla rassegna e non mi sento certo di gettargli la croce addosso, sfido chiunque, nelle vesti di un atleta, a rinunciare a un Mondiale per dimostrare la propria umanità, quando chi avrebbe avuto modo di farlo concretamente se ne è lavato le mani per anni.
Rimaniamo, una volta tanto, aggrappati ai nostri slogan non banali. A striscioni che hanno dietro un pensiero, un sentimento. Nella speranza che proprio dal movimento ultras si ricominci, di tanto in tanto, ad avere la forza e il coraggio di dar fastidio. Essendo controcorrente, riaccendendo quello spirito di ribellione che in fondo ha animato tutti a metter piede per la prima volta nel settore dove il tifo veniva fatto in piedi, con torce, fumogeni, bandiere e cori spesso irriverenti e beceri. La zona dello stadio che ci ha insegnato a vedere il mondo da un’ottica diversa.
Se ne va anche questo Roma-Torino. Con un altro striscione da menzionare, quello per Gabriele Sandri. Per celebrare il suo ricordo a quindici anni dalla sua scomparsa. Perché anche in questo caso la comunicazione è d’oro. Fondamentale per non far mai svanire il ricordo di uno dei giorni più brutti e significativi per i ragazzi di stadio. Nel suo ricordo finisce quest’anno solare, almeno in Serie A. E nel suo ricordo intere generazioni continueranno a tramandare una tradizione curvaiola, si spera sempre in grado di rendersi antagonista!
Simone Meloni