Risulta sempre difficile rapportarsi con la morte. Soprattutto quando avviene in un contesto sociale e variopinto come quello del calcio. La difficoltà, personalmente, sta perlopiù nel collocare i propri sentimenti e la propria idea in un contesto neutro, non rischiando di risultare melensi e strappalacrime, ma al contempo neanche insensibili o “Bastian Contrario” a tutti i costi.

In questo caso, oltretutto, si parla di un giocatore – Davide Astori – che la maglia della Roma l’aveva anche vestita. Non posso dire se si trattasse di un ragazzo d’oro o meno, così come non mi dilungherò nel lodarne doti che, per un mero fattore di non conoscenza umana, non posso raccontare. Tuttavia posso dire, per quella stagione giocata al’ombra del Colosseo, che Astori è sempre stato un professionista. Uno che quando c’è stato da prendersi i rimbrotti dei tifosi lo ha fatto, senza problemi e senza crisi d’isteria, e che ha sempre anteposto il silenzio alla sua attività calcistica. Questo, per quanto mi riguarda, mi bastava ad avere rispetto del giocatore.

Non sopporto la maggior parte dei cerimoniali andati in onda in questi giorni. Non sopporto la squallida ipocrisia di chi taccia gli ultras come cancro del calcio, salvo poi elogiarne le doti per una coreografia, per il toccante addio dato al capitano in Santa Croce o per l’immediata vicinanza alla famiglia. Gli ultras – almeno quelli col sale in zucca e non esibizionisti all’ennesima potenza – non lo fanno per essere incensati da chi gli vomita contro ogni tipo di nefandezza 365 giorni l’anno e con tutta probabilità neanche vorrebbero che queste azioni venissero a galla.

D’altro canto, però, ho capito e condiviso ben poco anche chi si è ostinato a dire che il campionato non andava fermato perché quando è stato ucciso Gabriele Sandri si giocò ugualmente. Francamente mi è sembrato lo stesso filo logico usato da chi quel maledetto 11 novembre 2007 volle far finta di nulla, scatenando la comprensibile rabbia di molte tifoserie.

Il campionato andava stoppato allora come domenica scorsa. Proprio perché fu vergognoso ciò che avvenne undici anni fa ci si dovrebbe augurare che il baraccone del calcio qualcosa abbia imparato. Sebbene parliamo di un sistema che se ne frega altamente di determinati valori e che sinora ha quasi sempre dimostrato di modulare anche le cose più semplici e sensate solo in base alla propria scala d’importanza. Resto convinto, tuttavia, che la differenza tra i tifosi e ciò che questo sport rappresenta nella sua immagine commerciale e inanimata, sia proprio nel leggere siffatte situazioni.

Ho tollerato poco anche la scelta di mandare una canzone di Lucio Dalla durante il minuto di silenzio, prima del fischio d’inizio di tutte le partite della massima categoria. Se il minuto è di “silenzio” vuol dire che nessuno – compresi gli altoparlanti – debbono fiatare.

Secondo me in queste occasioni più si tace e più si fa bella figura. Discorso che chiaramente esula dalle società – e dai relativi tifosi – per cui Astori ha giocato e in cui ha lasciato un segno.

Roma-Torino è quindi la prima gara di Serie A che si gioca dopo il tragico evento. Il curioso incrocio tra un club in cui Astori aveva militato e uno la cui tifoserie annovera lo storico gemellaggio con quella fiorentina. Non a caso dopo il minuto di silenzio il primo coro che si alza dal settore ospiti è “Viola, Viola!”.

La serata è anche l’occasione per ricordare “Secco“, ragazzo dei Fedayn scomparso qualche anno fa e ricordato con uno striscione esposto a Piazza Mancini e una pezza che campeggerà sulla balconata del gruppo per tutta la partita.

Sugli spalti dell’Olimpico non c’è esattamente il pubblico delle grandi occasione, con gli ormai 33.000 che hanno raggiunto l’impianto di Viale dei Gladiatori per assistere a questa sfida anticipata al venerdì sera per gli impegni europei della Roma.

Sono un centinaio i supporter del Torino presenti nel settore ospiti. Un numero che sicuramente risente dell’orario e del poco appeal che ormai l’Olimpico riserva alle tifoserie avversarie, ma che al contempo lascia anche abbastanza perplessi. Da una tifoseria con storia e tradizione come quella granata, proveniente dalla quarta città d’Italia per numero di abitanti, è logico aspettarsi qualcosina in più. Dal punto di vista canoro le cose non vanno tanto meglio. Fatta eccezione per i cori di scherno indirizzati ai dirimpettai, gli ultras piemontesi seguiranno la gara quasi interamente in silenzio. Un atteggiamento che sembra dovuto all’ennesima debacle della squadra (confitta 3-0), ma che tuttavia non capisco considerati i chilometri macinati e la storica rivalità esistente con i giallorossi.

Al netto di tutto ciò, comunque, mi sento di spezzare una lancia in favore dei granata: l’anonimato in cui uno dei club più storici d’Italia è piombato ormai da tanti anni fa davvero rabbia. Il nostro pallone sembra una trappola perfetta per tutti quei sodalizi portatori di blasone, costringendoli a tornei statici e senza obiettivi. Cosa che non può sicuramente fungere da carburante agli stimoli di qualsiasi tifoso.

Per quanto riguarda la Sud, la prestazione di stasera conferma la sensibile ripresa mostrata nella precedente sfida con il Milan. Sicuramente meglio rispetto a molte performance opache registrate in questi ultimi mesi. Malgrado i buchi purtroppo visibili nella zona centrale del settore. La parte inferiore e i muretti sembrano sovente aiutarsi e di tanto in tanto si registrano ottimi picchi di tifo.

Ovvio, è un settore che potrebbe dare davvero molto di più (come peraltro dimostrato a inizio campionato) ma anche qui ormai si riversano i problemi endemici riscontrabili in tutte le grandi curve d’Italia: tanta gente che assiste solo alla partita e poca attitudine alla cultura del tifo. È senza dubbio là che gli ultras, ai giorni d’oggi, debbono lavorare. Come? Facendo aggregazione e instillando nella mente delle persone che frequentano la curva, l’importanza di essere ancora il “dodicesimo”.

Questo sempre essendo coscienti delle oggettive difficoltà nel resistere a un sistema – nella fattispecie quello romano – che fa costantemente di tutto per affossare e punire oltremodo chi osa lanciare cori da una balaustra. Il comunicato del gruppo “Roma” dei giorni scorsi la dice lunga: oltre 6.000 Euro totali di multe comminate per aver coordinato il tifo. Mentre le tanto annunciate “pedane” per i lanciacori sembrano ancora una chimera, venendo rimandate per i più disparati “motivi di sicurezza”.

Come detto in campo è la Roma ad avere la meglio, grazie alle reti di Manolas, De Rossi e Perotti. A fine gara lo speaker invita il pubblico a non lasciare lo stadio per una sorta di “incontro” tra squadra e tifosi in vista del ritorno degli ottavi di Champions League contro lo Shakhtar. Oltre alla solita, fastidiosa, musica, che copre i cori di sprono della Sud nei confronti dei giocatori (se si chiede l’aiuto della gente non si capisce poi perché si metta la musica a tutto volume, bah!) la squadra resta a centrocampo, forse udendo il coro “Venite quando vi pare”. Un chiaro riferimento alle spallucce fatte dai calciatori nelle ultime, disastrose, sfide casalinghe al richiamo degli ultras a recarsi sotto la curva.

Per inciso, sarò anche di parte nel dire questo, ma il tifo della Roma generalmente non ha mai avuto bisogno di grandi richiami alle armi. Pertanto sarebbe forse più importante dimezzare il prezzo dei biglietti (contro gli ucraini una curva costerà la bellezza di 40 Euro): quello sì che sarebbe un incentivo ad affollare le gradinate. Finché non si capirà questo si potranno fare tutti gli inviti di questo mondo ma Mario Rossi, lavoratore precario, continuerà a preferire la diretta gratuita su Canale 5. O al massimo il pub con un paio di pinte. Non ci vuole una laurea in marketing e business administration!

Simone Meloni