Quella del 19 febbraio 2023 non è stata una domenica come tutte le altre. Andare allo stadio per vedere la Roma non ha assunto i connotati gioiosi, magari isterici e volubili, che di solito contraddistinguono la tifoseria capitolina. Domenica 19 febbraio 2023 chiunque abbia messo piede all’Olimpico ha avvertito un clima angoscioso, triste. Sommesso. Funereo. Sarebbe troppo difficile spiegare certe dinamiche a chi questo mondo non lo ha mai capito o peggio ancora, a chi dal di fuori si è subito affrettato a dare giudizi, condanne e assoluzioni. La verità è che questo Roma-Verona ha avuto il sapore di un sanguinolento spartiacque. Un passaggio della nostra storia ultras che in molti non dimenticheranno e citeranno negli anni. A torto o ragione.

Ma prima di analizzare la giornata mi si permetta di definire a dir poco vergognoso tutto il contesto mediatico che ha investito il post Roma-Empoli. Litri di inchiostro versati per scrivere il nulla, per creare congetture inesistenti, per gettare fango su gruppi, persone e comunità del tutto sconosciuti. Per tentare a tutti i costi di spaccare, dividere e demonizzare la Curva Sud. Una pioggia di calunnie e falsità talmente densa e incessante che alla fine ha davvero instillato nella mente di qualcuno idee e tesi alquanto peregrine. Cercando in casa propria mostri e colpevoli, laddove il dolore e l’amarezza per quanto visto il giorno prima al Marakana di Belgrado avevano colpito tutti indistintamente. Il fatto che il baraccone mediatico sia riuscito ad avere un’ascendente così forte e abbia battuto in maniera così veemente su argomenti, come sempre misconosciuti, rappresenta qualcosa di inquietante. E ci dà ancora una volta l’idea di quanto sia importante riuscire a fare scudo di fronte al menzognero atteggiamento di taluni scribacchini. La maggior parte dei quali si diverte a creare un clima di tensione e divisione. E non ha la minima capacità di fare cronaca.

Sorvoliamo poi su tutto lo stuolo di messaggi, vocali, screenshot e immondizia varia con i quali tutto quel sottobosco di mitomani ha voluto dar spazio alla propria idiozia. Utilizzando in lungo e in largo il mezzo social esattamente come una pattumiera. Non è un caso che gli unici a non aver parlato, a non aver proferito parola, siano stati propri i diretti interessati. Del resto l’equazione è ormai facile: chi ci sta dentro, chi pensa, chi agisce, non parla. Ragiona fra le proprie mura e trae le conseguenze senza bisogno di esporle al mondo, perché di fondo ci sono situazioni in cui l’unica arma vincente è il silenzio. Tutta quella sequela di materiale audiovisivo patetico e imbarazzante è certamente tra i primi responsabili della fragilità del nostro movimento. Si ripresentano puntualmente in ogni momento di criticità e finiscono per punire, prima di tutti, proprio le persone che militano e che nell’ideale ci credono ancora.

Quello che rimarrà impresso di questa domenica è sicuramente il lungo applauso e i cori di solidarietà tributati da parte di tutto lo stadio ai Fedayn. Ma cosa c’è in questa ovazione, venuta addirittura da settori dove gli ultras sono idealmente lontani, se non proprio malvisti? C’è tutta la cultura da stadio romana, e buona parte di quella italiana. Usciamo un attimo dalle logiche di quel famoso – e quasi mai osservato – codice non scritto tanto decantato in seno all’universo curvaiolo e proviamo a capire il punto di vista del tifoso medio che frequenta lo stadio (e che è ovviamente molto diverso da quello che segue la partita in televisione oggi e alla radio ieri). Il Mario Rossi della situazione riconosce alla Sud un’importanza fondamentale quando gioca la Roma. Quella di essere il “dodicesimo” in campo. Le riconosce l’onore e l’onore di creare l’ambiente, di espletare il massimo compito per la difesa del vessillo e il tentativo di trascinare il resto dello stadio con l’obiettivo finale di conquistare la vittoria. La curva è – de facto – un giocatore, osservato come se non più degli undici in campo. Chi, almeno una volta, non si è soffermato a guardare il tifo tralasciando le vicissitudini del manto verde? Chi, almeno una volta, non ha usato la Curva Sud nella vita di tutti i giorni per fare un parallelismo con un momento di confusione, visibilio o amore sviscerato?

Ovviamente, quindi, non si può che vedere in un’insegna storica il non plus ultra di tutto ciò. Perché il nome dei Fedayn è indissolubilmente legato all’AS Roma e alla Curva Sud. È un tutt’uno con questi due elementi e se nella mente del tifoso, già prima, lo storico gruppo del Quadraro aveva un’aura mitologica, ora è giocoforza l’emblema da difendere. L’istituzione di cui si vede stuprata l’immagine ma di cui si ha la certezza che a morire non sarà mai l’anima, lo spirito. Il modo di vivere lo stadio. E questo avviene perché, come detto prima, nei nostri stadi esiste una simbiosi con le curve e quindi anche con gli ultras. Basti pensare al periodo in cui le due curve capitoline non entravano a causa della presenza di barriere: una decisione epocale, peraltro rara in un Paese dove si hanno sempre difficoltà nell’effettuare boicottaggi di massa. Una scelta che però venne appoggiata da tutti gli altri settori, che non fecero mai mancare sostegno al tifo organizzato, attestandone l’importanza che ricopre nei novanta minuti ma soprattutto riconoscendolo parte integrante dello spettacolo per cui la domenica si va allo stadio pagando il biglietto o un abbonamento.

Certo, è stata un’ovazione triste. Perché, come detto, figlia di una situazione che ha colpito al volto tutto il tifo romanista. E mi permetto di dire che ha colpito anche il movimento italiano, in generale. Perché personalmente credo che chiunque abbia amato o ami il contesto stadio, abbia provato tristezza in queste settimane. A prescindere dalle rivalità, dalle modalità e da ciò che si possa pensare su gruppi e tifoserie in sé. Non è stata un’ovazione “vittimistica”, ma un voler dire “grazie per tutto quello che ci avete dato ogni domenica, è il minimo starvi accanto” e un lasciare intendere che cinquant’anni di storia non li cancelli neanche con un rogo. Un voler far capire che pure l’ultimo dei frequentatori delle gradinate, in questa giornata, ha lasciato un attimo in disparte la disputa calcistica, prestando attenzione a qualcosa di più importante e mentalmente coinvolgente.

Se è vero che dai grandi traumi e dalle grandi batoste si può e si deve ripartire più forti, più consci dei propri mezzi, allora anche in quest’occasione si potrà tracciare un solco. Non sarà facile e la morte nel cuore percepita prima, durante e dopo questo Roma-Verona non andrà via in un batter d’occhi. Le ferite rimarranno, magari travisate con dignità, ma le generazioni che hanno reso grandi i nostri stadi ci hanno quasi sempre lasciato un messaggio importante, quello di “riprodurci” e lottare con le unghie e con i denti affinché lo spirito non svanisca.

Non so dire se non è più tempo per noi, come qualcuno asserisce. E non ho il diritto di giudicare la vita ultras delle migliaia di gruppi che ogni fine settimana in Italia tentano di portare faticosamente avanti la baracca. Di sicuro dico che c’è tutto un mondo di aggregazione, di umanità, di amicizia, di folklore e di passione che oggi è emerso dalle mani e dalla voce di oltre sessantamila persone. Un patrimonio che forse nessun’altro in Europa può vantare e che dovrebbe soltanto spingerci a rimboccarci le mani (al netto di una repressione pazzesca, che nessuno nel Vecchio Continente può, fortunatamente, comprendere appieno) e non darci per morti.

Simone Meloni