Per la penultima gara del Girone C della Conference League, la Roma ospita gli ucraini dello Zorya con l’imperativo di vincere, segnare e possibilmente non subire gol. Le ferite lasciate dalla figuraccia di Bodo sono ancora fresche e i giallorossi devono cercare di arrivare sopra i norvegesi per evitare di disputare un turno in più (per giunta contro avversarie che potrebbero non essere propriamente facili). Una pioggia battente stritola la Capitale dalla mattina e non sembra voler cessare neanche in prossimità del match, che pertanto assume un completo sapore invernale, che tuttavia non scalfisce la presenza sulle gradinate: anche oggi oltre 37.000 biglietti staccati.

Prima del match solito, incommentabile, spettacolo di luci e musichette spacca-timpani. Ormai mi sono espresso talmente tante volte contro queste carnevalate e l’ho ripetuto talmente tante volte a chi mi sta vicino che sono diventato quasi insopportabile. Ed in effetti non nego di esserlo. Anzi, ci metto il carico: peggio di tutto ciò ci sono gli stacchetti musicali ai gol manco fossimo a una varietà del sabato sera e lo speaker che fa ripetere centosettanta volte il nome del marcatore al pubblico. Tipo scimmiette ammaestrate che soddisfano il circense di turno. Lo scriverò fino all’ultima volta in cui metterò piede in uno stadio!

Il meteo a dir poco inclemente e la giornata burrascosa si sposano appieno con il clima che si respira quest’oggi in una Sud intenta a ricordare Raffaele, ragazzo dei Fedayn scomparso in settimana e storica icona del tifo organizzato romanista. Mai come oggi a lui è dedicato lo storico inno che nelle sue battute finali dice: “…ma quanno moro io, nun vojo Gesù Cristi, ma solo gajardetti dei Fedayn teppisti”. Applaudito dal resto della curva, che contribuisce a onorarne la memoria con messaggi presenti praticamente su ogni muretto. Penso di non scendere nel retorico o nel banale dicendo che ogni qual volta scompare un personaggio di spicco in seno alle nostre curve è un po’ come perdere tutto quello che gli ultras e il loro modo di essere è stato ed ha rappresentato. Se è vero che se ne vanno gli uomini ma non i loro gesti, è pur vero che la nostra epoca è troppo abituata a vivere senza incanto e a fagocitare storie di vita vissuta e ricordi che dovrebbero rimanere indelebili. Il contenitore sociale dovrebbe essere uno spazio che esula proprio da alcune derive, anche se mi rendo conto quanto sia difficile e in taluni casi improponibile. Tutto sta nel sapersi rigenerare e soprattutto nel saper tramandare.

Il muretto dove solitamente campeggia la “morte incappucciata” segue la partita in religioso silenzio, mentre la curva dà luogo a una prestazione in crescendo, con un buon secondo tempo in cui il risultato mai in bilico aiuta a incanalare il tifo tra momenti di goliardia e un paio di vecchi cori popolari (su tutti “La Società dei Magnaccioni”) che mancavano da qualche tempo.

Dall’Ucraina arrivano una manciata di tifosi ai quali vanno davvero tutti i miei complimenti per aver effettuato una trasferta doppiamente difficile tra emergenza Covid e ovvi problemi legati alla delicatissima situazione politica della loro terra. Peraltro tiferanno praticamente per tutti i 90′ lasciandosi andare anche a un paio di sciarpate.

In campo è tutto facile per una Roma che sciupa molto nei primi dieci minuti e poi travolge gli avversari con un poker senza storia. Qualificazione matematica ma primo posto da giocarsi a Sofia con le orecchie sintonizzate su Zorya-Bodo. La Sud applaude la squadra e “prepara” il prossimo match contro il Torino dedicando un paio di cori ai granata.

Simone Meloni