Ci sono storie facili da raccontare e altre più difficili da decifrare. Ci sono momenti dai risvolti talmente tragici e incredibili che riescono a trasformarsi in frammenti epici, che i presenti potranno raccontare alle generazioni future. Nelle vesti di tifoso si vive un mondo parallelo, impossibile da spiegare a chi allo stadio non ci ha mai messo piede o – peggio ancora – il pallone lo odia proprio a prescindere.
Quello vissuto da Salerno in quest’ultima giornata di campionato può esser definito il più esaltante degli psicodrammi. Ma pur sempre uno psicodramma, con tutti i suoi effetti collaterale annessi. Sarebbe “bastato” sconfiggere una squadra che nulla più aveva da chiedere il campionato per suggellare la prima storica salvezza in massima divisione, invece i granata sono riusciti a complicarsi incredibilmente la vita dovendo giocoforza affidare il proprio destino alla contesa del Penzo tra Venezia e Cagliari.
Un crollo che personalmente credo abbia messo a nudo lo stremo fisico di una squadra andata ben oltre le proprie possibilità nell’ultimo mese, ma anche causato dalla paura di non farcela e quindi da una conclamata fragilità emotiva. Allo stesso tempo la serata dell’Arechi ci ricorda anche quanto il nostro calcio abbia toccato il fondo e sia ormai mediocre, arenato su vecchi momenti di gloria, ormai distanti anni. Non me ne voglia nessuno. Salernitani e cagliaritani in primis. Penso però sia ineluttabile constatare cotanta pochezza. Quasi una gara a fare peggio, sia in chiave scudetto che in quella salvezza ovviamente.
Ciò che invece resta ancora bello constatare e ammirare è la passione, il seguito e l’attaccamento di una piazza come quella campana. Anche oggi accorsa in massa a sostenere il Cavalluccio. Oltre trentamila persone con la speranza di festeggiare un momento storico e la certezza di assistere allo spettacolo griffato Curva Sud: una coreografia in pieno stile salernitano, che per la sua realizzazione mi ha ricordato quella fatta nella stagione 2001/2002 contro il Napoli (“Dieci piani di morbidezza”); alquanto complicata da comporre e mettere in scena ma davvero riuscita alla perfezione. L’allegoria del celebre C’era una volta in America di Sergio Leone con il tema centrale del C’era una volta a Salerno. Le più importanti immagini della storia granata che, scendendo grazie ad un “copricurva rotante”, venivano cadenzate dagli anni di riferimento al primo anello. Alla benaugurante ultima frase “La storia continua” il compito di dare la spinta in quella che di fatto è stata la serata più importante degli ultimi vent’anni per i tifosi tirrenici.
E poi la partita. Con l’Udinese totale padrona del campo e in vantaggio per 3-0 dopo 42′. E negli occhi dei tifosi solo l’attesa della notizia da Venezia. Di quel gol del Cagliari pronto a rendere definitivamente un incubo una serata di fine maggio. Gli spettri del passato si fanno più fitti quando gli ospiti calano il poker a inizio ripresa. Pereyra esulta provocatoriamente sotto la Sud e lo stadio sfoga la sua frustrazione gettando di tutto in campo: bottiglie, monete e una miriade di torce. Divampa un incendio nella parte laterale della Curva, probabilmente un pezzo di coreografia appoggiata è stata sfiorata da una torcia. Il clima si è fatto pesante e quelle fiamme – per qualche istante – raggelano la mente e il sangue di chi ancora ricorda con nitidezza il rientro da Piacenza, nel 1999.
Ma i pompieri intervengono prontamente, domando le fiamme e anche la rabbia del pubblico campano. Forse nessuno se ne accorge, ma l’intervento dei Vigili del Fuoco sembra fungere da contrappasso emozionale. Sarà lo scorrere del cronometro e la gara ancora ferma sullo 0-0 in Laguna. Qualcuno comincia a sentire che malgrado lo spettacolo penoso offerto sul manto verde il miracolo è ancora possibile. E una prestazione del tifo che francamente (ma anche comprensibilmente) non è stata esaltante o all’altezza della nomea che questa tifoseria si porta dietro, ha finalmente un’impennata. Gli ultimi minuti sono un crescendo di torce – stavolta accese per giubilo – e bandiere sventolate. E quando da Sant’Elena giunte la notizia che il Cagliari non ce l’ha fatta a segnare esplode una gioia quasi isterica. La gioia di chi fino a mezz’ora prima avrebbe voluto entrare in campo e distruggere tutto. La gioia dello psicodramma.
Tanta gente entra in campo. I giocatori corrono da una parte all’altra: chi con una torcia in mano, chi a gettarsi in mezzo alla folla. Quelli dell’Udinese vanno a prendersi i sacrosanti applausi della cinquantina di ultras giunti dal Friuli: a tal proposito, siccome non siamo in un’era in cui si può giudicare solo ed esclusivamente in base al fattore numerico, e siccome parliamo di una trasferta lontana e calcisticamente inutile per i bianconeri, i presenti meritano un elogio. Anche perché non sono rimasti a guardare ma hanno provato a farsi sentire con una certa costanza e con decine di bandierine sventolate per buona parte del match. Per loro dev’esser stato sicuramente soddisfacente vedere la propria squadra impegnarsi con serietà fino all’ultimo minuto di campionato. Cosa che fortunatamente in quest’ultima parte di campionato sembra aver accomunato un po’ tutte quelle squadre che virtualmente avevano già chiuso la propria stagione ma che non hanno fatto sconti a nessuno, come successo per tanti anni.
Tralascio tutta la parte dei festeggiamenti organizzati dalla società. Con il rispetto per i gusti di tutti davvero non amo spettacoli in salsa americana con pupazzi in campo, musica pompata a palla e dj che incita la folla a cantare. Molto diverse invece le scene di gioia che si spostano lentamente in città. Da Pastena a Torrione, dove i bar vengono presi d’assalto e la pirotecnica colora le strade di questi quartieri popolari. Sul lungomare, dove si riverbera il colore delle torce e qualcuno addirittura osa gettarsi in acqua. E poi nel centro storico. Per i vicoletti di una Salerno che si riscopre festaiola ed ebbra di felicità fino alle prime luci dell’alba.
Me ne vado che la notte sta per morire e la gente è ancora abbondantemente in giro. Allontanandomi le grida si diradano metro dopo metro. Passo davanti al vecchio stadio Vestuti, ancora oggi simbolo di quella Bersagliera che è riuscita a tramandarsi fortemente in città e che per la prima volta vivrà la massima categoria per due volte di fila. Anche il suoi ingresso monumentale sembra esultare. Percorro in ultima battuta il marciapiede che costeggia l’Irno. Questo fiumiciattolo silente che con i suoi soli undici chilometri di percorso unisce il mare alle montagne che sovrastano Baronissi, penetrando nel centro urbano di Salerno. Lo “risalgo” controcorrente, per raggiungere il mio pullman e fare ritorno a casa. Controcorrente come il modo con cui i granata hanno ottenuto la salvezza.
Simone Meloni