Avevamo pubblicato ieri un interessantissimo punto di vista, non tanto sul Sank Pauli in sé quanto su una iconolatria dello stesso che decontestualizza prassi locali e delega in un esotico, a volte immaginario, le lotte quotidiane, siano esse di curva o politiche. Di seguito un contributo di Nicolò Rondinelli, autore di “Ribelli, sociali e romantici” (libro sul Sankt Pauli, ovviamente) che aiuta ad allargare il dibattito. Lo proponiamo sicuri di stimolare la pluralità dei punti di vista, allargando la questione ulteriormente e rimettendo la nostra totale disponibilità a chiunque voglia intervenire in merito o anche in altre direzioni.
MF

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RibelliSocialiRomanticiDa autore di uno dei due libri sul St. Pauli e avendo conosciuto Francesco Berlingieri a Foggia lo scorso giugno, in occasione di una bella discussione su alcune delle tematiche dell’articolo da lui postato, dico anch’io la mia.
Innanzitutto apprezzo molto il fatto che lavori come il mio, quello di Marco Petroni e molti altri suscitino dibattiti e aprano a discussioni e confronti costruttivi su calcio, ultras, tifo, politica, società e passione in genere. Ritengo che un libro, così come qualsiasi oggetto culturale, abbia il dovere nel nostro circuito (e non solo), quello alternativo al mondo mainstream patinato e monetizzabile, di smuovere coscienze, alimentare critiche, coinvolgere e aprire spunti di confronto costruttivi.
Condivido appieno con Francesco la critica a certo “guardare altrove” come metodo di lavaggio della coscienza, pratica che coinvolge moltissime persone in svariate situazioni della vita: dal mondo delle curve a quello della militanza politica, ma anche solo al bramare una vita lontano dalle abitudini quotidiane, alla ricerca di un presunto “nirvana” ideale. Una sorta di redenzione e passaggio a miglior vita, senza tenere conto del fatto che ogni luogo, ogni esperienza, ogni realtà ha le sue problematiche, le sue criticità, le sue luci e le sue ombre.
Proprio come il tanto osannato FC St. Pauli. Che, lungi dal voler tracciare un ritratto agiografico o farne una facile e bieca apologia, rappresenta una realtà storicamente fondata, in un quartiere da sempre legato a divisioni sociali, lotte, rivendicazioni, solidarietà e aggregazione. Quello che è avvenuto a metà degli anni Ottanta, con la creazione di un nuovo modo di concepire il tifo sugli spalti, dapprima spontaneo e che successivamente avrebbe influenzato inconsapevolmente non solo l’ambiente del Millerntor Stadion e delle strutture organizzative del club, ma anche molte tifoserie e associazioni calcistiche tedesche, rimane un’esperienza unica e irripetibile. Coerente con le vicende storiche, politiche e sportive che hanno fatto da sfondo. Il cui culto è stato creato da altri: giornalisti e venditori di primizie affamati di scoop da dare in pasto ai feticisti di qualsivoglia settore. Dal calcio alla militanza politica. Seguendo uno schema che è quello perfettamente delineato dal sistema tardocapitalistico in cui siamo risucchiati: quello di divaricare il gap tra il valore d’uso e il surplus degli oggetti, a vantaggio del corrispettivo mediatico monetizzabile del secondo.
Che molti compagni, tifosi, ultras di svariati club italici e non, guardino in maniera mitizzante e talvolta passivamente inebetita alla realtà sportiva e politica di St. Pauli, è certamente limitativo. È una perdita di contatto con la concretezza delle cose.
Non sempre però il guardare a modelli, o meglio, esperienze altrui è sintomo di frustrazione o, per usare le parole di Francesco, “camera di compensazione di ciò che si ritiene impossibile a casa propria”. Se St. Pauli, oltre che culto e facile mito, è spesso preso come modello d’esempio di laboratorio di socialità, attivismo politico, osmosi attiva e positiva con la cultura e la società, pur mantenendo un livello di guardia e di conflitto con le dinamiche tanto vituperate del cosiddetto “calcio moderno” (locuzione fin troppo semplicistica, in quanto calcio e capitalismo vanno a braccetto da un secolo e più, seppur in modi e intrecci diversi) di cui è parte, non credo sia così negativo. Anzi.
Seguire un paradigma non significa riprodurlo ciecamente in un qualsivoglia contesto, per di più per natura diverso storicamente e culturalmente, quanto trovare delle linee guida comuni che possano orientare una serie di azioni. E questo credo sia uno dei principi del network del “calcio popolare” (altro connubio linguistico che mi piace poco, anche se probabilmente la fase storica in cui siamo implica un momento di rottura di certe dinamiche anche dal punto di vista lessicale) italiano. A sua volta molto eterogeneo, come ho avuto modo di riscontrare, sia facendone parte sia confrontandomi con molte realtà da nord a sud. Proprio perché ogni città, ogni club, ogni tifoseria ha le sue caratteristiche coerentemente legate alla complessità di intreccio tra elementi e dinamiche culturali (e sottoculturali), storiche e sociali.
Io sono fermamente convinto che il calcio, in Occidente e altrove, rappresenti nientemeno che il riflesso oggettivo del suo contesto socio-politico e culturale di riferimento. Nel bene e nel male. Da un punto di vista fenomenologico ed etico-valoriale. È un “fatto sociale totale”, per usare le parole di Dal Lago, un mezzo con cui spiegare le vicende storiche di un quartiere, di una città, di un paese. O almeno parte di esse. Anche nelle contraddizioni, non solo negli apparati razionali-organizzativi.
E così io stesso, interista e frequentatore assiduo di San Siro, non ho mai guardato a St. Pauli come una fuga da un coacervo di fascisti e malavitosi che, pur non rappresentando in toto la Curva Nord come si vuole credere, ne sono comunque parte attiva. La fede calcistica è un qualcosa che si porta sulla pelle (io ce l’ho pure tatuato! Eheheh!), con cui si cresce in maniera spesso irrazionale, frutto magari di passioni tramandate in famiglia o acquisite in strada con i coetanei. Perché questo è successo a me, come credo a molti altri. E in altri luoghi magari essere atalantino, veronese o foggiano acquisisce un valore ancora più simbolico.
Ma tutto ciò è niente più che una parte dell’eterogeneo universo che è il calcio. Specchio e lente di ingrandimento della società e barometro politico e culturale. Anche mezzo di cambiamento politico, certo. Al suo interno e all’esterno, nella società. Di cui il St. Pauli, come molte altre, è una bella realtà, con luci e ombre. E di cui la passione irrazionale e spesso contraddittoria del tifo e dell’appartenenza ai colori di una squadra è altrettanto magica. Anch’essa con luci e ombre.
Pertanto non mi sento di tracciare nette e comode demarcazioni tra due poli: una visione più prettamente “politica”, intesa nell’accezione di usare il calcio come strumento demagogico di rivendicazione, e una più ludica e “passionale”, diciamo. Ma mi limito a far parlare Nick Hornby, quando dice che: “il calcio non è una fuga o una forma di divertimento, ma una diversa versione del mondo”.
Così come il St. Pauli è una diversa versione del calcio. Una delle tante, ma certamente interessante.