Terra di cultura ultras. Uno dei primi murales che mi trovo davanti entrando a Sant’Egidio alla Vibrata è proprio questo. Una dichiarazione di appartenenza e modus vivendi non da poco. Peraltro originale e mai vista altrove. Veritiera, come avrò modo di approfondire. Ma per contestualizzare il tutto c’è bisogno di fare una premessa: la Val Vibrata si estende lungo buona parte del corso del torrente Vibrata, nella provincia di Teramo. Un lembo di terra che dalla collina digrada fino alle acque dell’Adriatico, marcando il confine tra Abruzzo e Marche. Poco più di ottantamila persone la popolano, dando vita a una delle tante comunità della provincia italiana. Posti tranquilli, dove il turismo di massa e la commercializzazione sfrenata non sono ancora arrivati e le persone riescono a vivere con ritmi umani e senza troppi fronzoli che spesso la modernità offre come evoluzione in cambio della perdita delle proprie radici. Sant’Egidio, con i suoi novemila abitanti, è il comune più grande tra quelli in altura. Non un luogo a caso per chi sin dagli anni novanta si è ritrovato tra le mani Supertifo e, solo a sentirlo nominare, pensa alla Santegidiese e ai suoi ultras: una vera e propria istituzione da queste parti e non solo. Una realtà che non si è mai troppo pubblicizzata ma che, malgrado tutto, chi frequenta questo mondo con assiduità e passione conosce. O di nome o per le diverse iniziative organizzate. O anche semplicemente per gli ottimi numeri e la costante presenza sulle gradinate. Qui non ci si arriva per caso, né di passaggio. Ma perché ci si vuol venire. Aspetto non da poco, sia per la creazione di un senso forte di comunità che per la percezione che una tifoseria esterna può avere. Per rendere l’idea: benché si trovi a una manciata di chilometri dal mare – e quindi dalle grandi vie di comunicazione, stradali e ferroviarie, della costa adriatica – soltanto pochi pullman la collegano al capoluogo, mentre nessuno alla riviera. Le stazioni più vicine sono quelle di Alba Adriatica (20 km) e Castel di Lama-Offida (7 km). Uno degli slogan usati in trasferta dai tifosi giallorossi per anni è stato “Noi ci siamo venuti, voi non ci venite”. Un motto che lega alla perfezione il loro essere ruvidi, rognosi e insidiosi, alle oggettive difficoltà logistiche che li contraddistinguono.

La posizione di confine odierna occupata da Sant’Egidio non è certamente una novità per questa porzione di territorio, da sempre abituata alle contese e agli stravolgimenti della storia. In origine facente parte della quinta regione romana – Regio Picenum – secondo la suddivisione augustea della Penisola, dopo la dissoluzione dell’Impero e le numerose invasioni, distruzioni e razzie da parte dei barbari, l’attuale territorio comunale venne occupato dai Longobardi e fu oggetto di una disputa tra il ducato di Spoleto e quello di Benevento, che si risolse in favore del primo. I Longobardi, oltre a favorire lo sviluppo economico e infrastrutturale della zona, favorirono la costruzione del borgo di Faraone, da cui successivamente nacque Sant’Egidio alla Vibrata, sviluppatosi attorno al convento dedicato all’omonimo santo. In una delle tante dispute convergenti su questo territorio, si scontrarono ascolani e teramani, all’inizio del 1300. Uno scontro che lascia intendere ancora una volta quanto il retaggio campanilistico e identitario del nostro Paese affondi radici in un passato lontanissimo e ancora oggi palpabile sotto varie sfaccettature. Dalla mai banale cucina regionale – che, ovviamente, qua assorbe le sfumature marchigiane e abruzzesi, mettendo sula stessa tavola arrosticini e olive ascolane – al dialetto. Gli avvenimenti a queste latitudini sono testimoni della complessa storia unitaria italiana, basti pensare che volgendo lo sguardo tra le colline si incappa nitidamente in Civitella del Tronto e nella sua Fortezza, celebre per essere l’ultima roccaforte borbonica a cadere sotto il dominio piemontese, nel 1861. Due anni più tardi il borgo di Faraone sarà accorpato a Sant’Egidio, divenendo definitivamente Sant’Egidio alla Vibrata. Oggi del vecchio insediamento longobardo restano perlopiù macerie, dopo l’abbandono avvenuto nel 1950, in seguito a uno dei tanti terremoti che ha messo a dura prova la zona. Girare per le sue vie ricoperte dall’erba e vedere le sue chiese e i suoi palazzi diroccati, rende ancor più l’idea su quanto la furia della natura di tanto in tanto provi a scalzare la millenaria presenza umana.

Una terra di confine – anche solo regionale – è pur sempre un luogo dove culture, tradizioni, dialetti e folklore si incrociano. Risalendo dal mare si costeggiano praticamente le Marche, si intravede Ascoli e, in lontananza, si adocchia pure la costa di San Benedetto. A poca distanza vive e milita una realtà come Teramo, che non ha certo bisogno delle mie presentazioni. Da queste parti il campanile e il pallone viaggiano di pari passo con la vita di tutti i giorni. Eppure, malgrado la vicinanza dei suddetti mostri sacri, Sant’Egidio brilla incredibilmente di luce propria e, lo ammetto, conoscendo meglio la piazza e le sue sfaccettature, mi sento di dire che non paga minimamente le influenze di nessuna realtà attigua. I santegidiesi hanno un’anima, un’identità, un senso di appartenenza ai propri colori forse dovuti all’isolamento, forse dovuti all’anima contradaiola. Sicuramente figli di intere generazioni che hanno tramandato l’idea della Sant. E attenzione, di fronte all’utilizzo spropositato e spesso fuori luogo dell’assunto “La fede dei nostri padri”, qua forse mai striscione fu più vero. Basta dare un’occhiata al Settore Franco Mirti la domenica pomeriggio, ma più tardi ci arriveremo. Perché occorre senza dubbio parlare delle modalità con cui oggi la Santegidiese vive e respira autonomamente, salvata dalle grinfie di una delle tante situazioni torbide del nostro calcio. Senza voler utilizzare concetti sin troppo abusati come “calcio popolare” – personalmente credo che anche Roma, Lazio, Fiorentina, Napoli etc etc siano “popolari”, venendo tifate e seguite trasversalmente da avvocati, nullatenenti, imprenditori, esercenti, studenti etc etc – è indubbio che l’attuale equilibrio a Sant’Egidio sia merito di una profonda passione calciofila e di un radicamento a dir poco sorprendente per un centro così piccolo, che tutto sommato non ha mai conosciuto con continuità il calcio che conta.

Il football a Sant’Egidio ha origini lontane, anche precedenti alla ufficiale data di fondazione della società. Negli anni ’20, infatti, è l’unico paese – assieme alla rivale Nereto – in cui si disputano incontri seppure a carattere amatoriale e rionale. Tra il 1929 e il 1930 vengono tracciati i primi rettangoli di gioco, tra cui quello che diventerà lo storico stadio “Comunale”, attivo fino agli anni ’90. In quel periodo frequenti sono le sfide con sodalizi provenienti da Grottammare, Tolentino, San Benedetto del Tronto, Teramo, Giulianova e Nereto. Nell’immediato dopoguerra quasi tutto il circondario decide di dar manforte ad Ascoli, convergendo forze e idee verso il capoluogo piceno. Destino diverso, invece, per Sant’Egidio e la sua gente, che nel 1948 dà vita ufficialmente alla propria squadra cittadina, iscrivendola alla Prima Categoria Abruzzese nella stagione 1948/1949. Curiosità: vengono scelti colori e simbolo molto simili a quelli dell’AS Roma. Non una casualità. Tra i padri fondatori del club vibratiano, infatti, figura Nedo Foschi, cugino di Italo Foschi. Quest’ultimo nativo della vicina Corropoli e successivamente trasferitosi a Roma, nel 1927 sarà tra i principali fondatori del sodalizio capitolino. Pertanto, proprio in onore a ciò, ancora oggi l’effige della Sant ricalca fedelmente quello romanista, con la sola “variante” della cerva (simbolo del comune) al posto della Lupa Capitolina.

Uno dei primi episodi che porta i giallorossi agli onori delle cronache è quello che li vede, loro malgrado, protagonisti al Torneo Sant’Omero nel 1968, dove a causa di gravi disordini provocati dalla tifoseria, la società viene radiata. Solo l’amnistia decisa dal Presidente della Repubblica Saragat, nello stesso anno, dopo la vittoria degli Europei da parte dell’Italia di Ferruccio Valcareggi, permise agli abruzzesi di ripartire dalla Terza Categoria. Nel 1971 arriva la prima promozione in D, che rimarrà la categoria più alta disputata dai giallorossi, con il record di undici stagioni consecutive (dal 1988 al 1999) che contribuirà ancor più a fortificare il senso di appartenenza attorno ai colori da parte della piccola comunità locale. Gli anni novanta segnano la svolta epocale, con l’approdo al nuovo stadio e l’addio al vecchio “Comunale”, per molti un vero e proprio tempio, purtroppo oggi abbandonato al suo destino e “protetto” soltanto dal muro di cinta dove splendono alcuni murales realizzati dagli ultras.

Calcisticamente, l’ultimo sussulto santegidiese, è tra il 2006 e il 2012, quando il club disputa sei campionati consecutivi di Serie D. Gli ultimi tre lustri sono stati complicati, con la società che ha conosciuto problemi di gestione, navigando spesso nei bassifondi del dilettantismo regionale, ma essendo comunque sempre difesa e “scortata” dalla sua tifoseria. Aspetto a dir poco decisivo per la sua sopravvivenza. Nel luglio scorso, infatti, dopo la retrocessione dall’Eccellenza i dirigenti allora in carica manifestano la volontà di non iscrivere la Sant a nessun campionato. A questo punto gli ultras entrano in azione, cominciando a sollecitare la cittadinanza e indicendo numerose riunioni collettive, a cui partecipano anche trecento persone. Il primo step è quello di raccogliere quarantamila Euro per rilevare la società – che di fatto diventa proprietà della tifoseria – e pagare alcuni debiti ancora in essere prodotti dalla stessa. A quel punto viene costituito un organigramma e viene stilato un vero e proprio piano per raccogliere fondi presso l’intero tessuto imprenditoriale cittadino. In poco meno di cinque mesi si riescono a raccogliere 150 sponsor, facendo sottoscrivere più di cinquecento abbonamenti, permettendo così anche ai privati cittadini di contribuire alla causa. Gli ultras, di tasca loro, rimettono letteralmente a nuovo lo stadio, ammodernando gli spalti, occupandosi della potatura e della sistemazione del campo e facendo importanti lavori presso la segreteria, gli spogliatoi e la sala stampa. Quanto la città stia seguendo questo progetto è dimostrato dall’ingente numero di banner pubblicitari presenti attorno al perimetro di gioco. Una mole spropositata, che ha indotto a creare nuovi spazi per apporre la pubblicità, divenuta “eccessiva” per i cartelloni a disposizione. Ma la bontà di quanto si sta facendo è dimostrata anche dal fatto che quasi in ogni attività, in ogni bar e in ogni angolo di Sant’Egidio, ci sia gente che parla della squadra e ragazzi pronti a dare il loro contributo. Attenzione: nulla è casuale, ovviamente. Come detto in precedenza, parliamo di un posto dove sussistono figure letteralmente malate di calcio e dove il movimento ultras da anni ha tracciato un solco profondissimo. Lo dimostrano le decine di scritte e murales disseminati ovunque. Un qualcosa di impressionante per un comune che, va ricordato, conta appena novemila anime!

E siccome tutto è legato a un filo logico e storico e non nasce da un giorno all’altro, è importante sottolineare la storicità e l’intreccio intergenerazionale che esiste da queste parti nell’aspetto ultras. A Sant’Egidio i primi vagiti di tifo organizzato si odono sul finire degli anni settanta, quando nascono due gruppi: “Panthers” e “Falange d’Assalto”, subito contraddistinti da un marcato schieramento politico a destra (il simbolo della “Falange” era il cedro libanese, tanto per dirne una). A quel periodo va datata anche l’esposizione del lungo striscione (18 metri) “Commandos Tigre Giallorosso”, che porta con sé un simpatico retroscena dovuto alla contrarietà dell’allenatore Florimbi, convinto che lo stesso portasse male. Alla fine gli ultras lo attaccarono ugualmente, in quel di Pratola Peligna, con i giallorossi che vinsero per 1-0. Nel 1986 nasce il gruppo sicuramente più longevo, i “Vikings”, anch’essi caratterizzati da una forte impronta politica destrorsa. Nascono anche i “Blockbuster”, nome senza dubbio molto originale, di cui personalmente non ho altra memoria fino a oggi, e gli “Hooligans.” Queste sigle andranno a identificarsi dietro allo striscione unico “Incubo Giallorosso”, almeno fino agli anni novanta. Una ventata di novità viene sicuramente data dagli “Ultrà Sant”, nati nel 2004, mentre nell’ottobre 2016, da una costola dei “Vikings”, nascono i “Prima Linea”. Nome senza dubbio particolare, che a memoria prima di loro aveva trovato spazio solo tra i cosentini (con ampio risvolto politico) e tra i porticesi (con riferimento storico alla prima linea ferroviaria d’Italia). Nome che richiama anche una certa attitudine al confronto da parte di questi ragazzi, che infatti si metteranno in mostra in diverse occasioni, confermando la nomea tosta e gagliarda della loro tifoseria e andando a prendere, di contro, numerose diffide. A tal proposito vanno menzionate le rivalità storiche con Civitanova, Mosciano, Recanati, Vasto ma soprattutto con Teramo. Contro il capoluogo si è giocato l’ultima volta lo scorso anno, ma neanche a dirlo le autorità se ne sono come sempre lavate le mani, vietando la trasferta ai biancorossi e aprendo la vendita per un limitatissimo tempo nel match di ritorno ai santegidiesi, che per tutta risposta hanno disertato. Di contro una delle principali amicizie, quella con Giulianova, marcia ovviamente di pari passo con questa rivalità. Mentre altri ottimi rapporti si registrano con Chieti, Acireale e Ascoli. Permettetemi una considerazione: “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Ma forse, per certi versi, questa orgogliosa realtà che non ama apparire e pubblicizzarsi, avrebbe addirittura la possibilità di rivedere a parti inverse tale concetto (sic!).

Ma oggi cosa si dice da queste parti? I ragazzi come stanno vivendo questo campionato e come stanno gestendo una squadra che, di fatto, oltre a essere la loro ragione di vita è anche un organo vitale di tutto il paese? Non lo nego, la curiosità di venire qua era grande già da qualche anno. Anche e soprattutto per la difficoltà nell’arrivarci senza un mezzo privato. Immaginavo di allontanarmi da alcuni palcoscenici più accessibili e immergermi in un mondo che resiste alle intemperie e continua a trasmettere un certo tipo di essere ultras. Non parlo di “finti” omertosi, fini a se stessi. Non parlo di chi si chiude dietro a una non precisata spocchia. Non faccio riferimento a chissà quale sindrome di accerchiamento. Qua chi fa sa che può pagare. Chi costruisce, coordina il tifo, fa sentire la voce per richiamare gente, lo fa quasi esclusivamente in ragione del proprio cuore, non per chissà quale ritorno d’immagine. C’è una bella differenza tra qualche personaggio che prima ti minaccia se lo fotografi e poi, a fari spenti, ti chiede scatti e video, e gente che semplicemente non ha nel dna la predisposizione a mettersi in mostra e preferisce lavorare nella propria realtà e raccogliere i frutti, magari senza clamore di flash e riprese. Dirò un controsenso, considerato che minimo una volta a settimana sto con macchine e videocamera al collo: io sono arrivato a preferire di gran lunga i secondi. Se il futuro devono essere curve che si compiacciono con tiktoker che neanche conoscono la materia trattata e scendono in campo solo per far accrescere il proprio canale e specularci su (senza alcuna competenza), allora lunga vita chi resta mentalmente ancorato all’era pre social.

Tornando a questa domenica: sfida cruciale per la Sant, che dopo un avvio di campionato a dir poco problematico è riuscita a inanellare un discreto filotto di buoni risultati, scalando la classifica fino al terzo posto. Preceduta dal Trasacco e dall’Angizia Luco, avversaria in questo turno. Sappiamo tutti quanto nel calcio non contino solo i soldi. Anzi, possiamo tranquillamente dire che senza competenze e senza programmazione quasi sempre si finisce per fallire, gli esempi nella storia passata e recente – a qualunque livello – sono davvero innumerevoli. Pertanto non era facile partire col botto per molti ragazzi alla prima esperienza nei propri ruoli e l’avvio stentato ne è testimone. Di contro, però, in queste occasioni nessuno si può concedere lassismo e ogni minimo settore del club dev’essere analizzato, scandagliato e in caso corretto o rettificato. Gli ultras sono il cuore dei propri colori, ma quest’oggi sono anche coloro che ne determinano per buona parte l’andamento. E non parlando, dunque, di imprenditori che hanno interessi ben diversi da quelli del tifoso, era ovvio che prima o poi il motore della Santegidiese si sarebbe acceso alla grande.

Camminando affianco al perimetro del Parco degli Ultras – dove i vibratiani hanno dato vita a diverse iniziative, tra cui, alcune importanti contro la repressione, dove hanno partecipato illustri tifoserie della scena nazionale – ci si imbatte in un’interminabile sequela di murales, di concerto con quelli presenti in città. Fino all’ingresso dello stadio, dove entro tranquillamente, facendo poi il mio accesso sul terreno di gioco. Sulle gradinate stanno lentamente prendendo posto gli spettatori mentre, ironia della sorte, nel campo proprio al di sotto dello stadio, la New Club sta giocando il suo match contro il San Gregorio. Giustamente vi chiedere chi siano costoro? Si tratta di una piccola squadra cittadina nata da qualche anno, che disputa lo stesso campionato della Santegidiese e, nel turno precedente, è stata sconfitta proprio dai giallorossi. Appare alquanto curioso (forse non mi era mai capitato) appurare che due squadre dello stesso luogo (sebbene una sia quella “vera”, detentrice della tradizione e del blasone) e della stessa categoria, giochino praticamente in casa nello stesso giorno e alla stessa ora.

Al baretto sotto alla tribuna vanno via in modo celere birre, borghetti e genziane, giusta prosecuzione di quanto già visto in alcuni bar sparsi per il paese. Si gioca alle 14:30 di domenica e, si sa, dal Tronto in giù il pranzo del giorno festivo è un qualcosa di sacro. Non a caso la maggior parte dei presenti farà il suo ingresso proprio a ridosso del fischio d’inizio. Per l’occasione si è deciso di concedere gratuitamente l’accesso al settore degli ultras (dove comunque sono quasi tutti abbonati), per stimolare anche quei pochi indecisi e convincerli ad andare anche oltre il meteo, che quest’oggi restituisce un freddo – coadiuvato dal vento gelido che viene su dall’Adriatico – davvero poco simpatico. La partita è importante da un punto di vista sportivo, ma è anche l’occasione per rivedere una tifoseria ospite sulle gradinate. A distanza di molto tempo dall’ultima volta. A Luco dei Marsi hanno organizzato due pullman e la cosa, ovviamente, stimola chi di ultras e della sua essenza vive e respira. Ci sta poco da fare: lo stadio non è niente senza un bel faccia a faccia, anche solo fatto di cori e voglia di sovrastare il dirimpettaio!

Il fondo del terreno di gioco è pesante, pronto a diventare un mix tra erba e fanghiglia dopo il calpestio dei calciatori. Uno di quei bei campi invernali, insomma, dove le maglie si tingono di marrone col fango e tutti i presupposti da prime donne di alcuni giocatori vanno a farsi benedire. Sorrido all’ispettore di campo, che nel guardare il mio documento mi catechizza: “Mi raccomando eh, non fare il tifoso!”, gli rispondo che da un punto di vista fideistico sono totalmente avulso alla contesa, ricevendo una sua pacca sulle spalle e cominciando a studiare quale sia il posto migliore dove mettermi con l’attrezzatura. Una delle prime cose che mi salta agli occhi è la pezza dei giuliesi, appesa proprio nel mezzo del settore di casa, mentre sulla strada che porta allo stadio, in lontananza, si vede esplodere un bombone dietro a due pullman che lentamente si incamminano nella mia direzione. I luchesi sono arrivati, ma tra controlli e voglia di entrare assieme, faranno il loro ingresso proprio quando il direttore di gara dà il via alle ostilità. I santegidiesi stanno già tifando e il colpo d’occhio è di quelli importanti. I ragazzi con il megafono tra le mani, invitano tutti a partecipare per dare la spinta fondamentale alla squadra. Complessivamente il clima è davvero bello e sono contento della mia scelta. Una domenica in uno stadio nuovo, al cospetto di una tifoseria mai vista e in un contesto veramente colmo di spunti e argomentazioni. Mettiamoci poi che parlando esclusivamente di tifo canoro, assisterò davvero a una signora sfida e il cerchio è chiuso.

Fino a oggi avevo visto i ragazzi di Luco una sola volta in vita mia, tantissimi anni fa in casa contro il Castel di Sangro. Sebbene abbia ricordi alquanto sfocati, ricordo con una certa nitidezza la sana “ignoranza” del pubblico biancazzurro e il buon tifo fatto dai ragazzi dietro allo striscione “Wild Boys”, in totale ossequio a un popolo, quello marsicano, tradizionalmente celebre per essere tosto e risoluto. Lo zoccolo duro che si posiziona quest’oggi dietro a diverse pezze, è composto da una sessantina di ultras che si metteranno in evidenza con una performance davvero ottima. Per loro, infatti, novanta minuti di tifo, diverse sbandierate, una sciarpata e, in generale, non un momento di pausa. So bene che quando si affronta una trasferta e si arriva in uno stadio, il compito minimo e far sentire la propria voce, ma non lo darei così per scontato per tutti. Mettiamoci sempre che siamo in Promozione, sebbene numeri e partecipazione meriterebbero quanto meno qualche categoria in più. Sempre bello sentire i cori per la Dea Angizia, divinità associata al culto dei serpenti adorata da Marsi, Peligni e altri popoli osco-umbri. Incredibile come la storia, in questo caso la mitologia, riescano sempre e comunque a entrare nei nostri racconti, nelle nostre domeniche e nella quotidiana vita di ogni singolo tifoso. Ci narrano, quelli colti e altolocati, che il calcio sia materia per beceri e buzzurri. Mi viene solo da rispondere che grazie a questa disciplina, ma soprattutto grazie ai suoi seguaci, anche chi ha avuto meno opportunità di studiare può sapere chi fosse una divinità, perché la propria città porti quel nome o da dove derivino i colori di una maglia. Scusate se è poco!

Sul fronte opposto i padroni di casa si fanno sentire la loro voce, tifando con continuità per tutta la partita e gettando il cuore oltre l’ostacolo, nel tentativo di portare la propria squadra al gol del 2-1, che varrebbe tre punti importantissimi. Quando si osserva una tifoseria si può ben capire se e quanti influssi abbia dalle realtà vicine. Quindi – mi ricollego a quanto detto in avvio di articolo – nei cori dei giallorossi si percepisce davvero poco riferimento ad altre tifoserie. Ci sono canzoni fatte in tutta Italia e altre più originali, ma complessivamente il tifo è lo specchio di una tifoseria ampiamente autodeterminata e fieramente santegiediese, oserei dire. Tre bandieroni vengono sventolati a più riprese e tutto il contingente si posiziona dietro al lungo striscione “La fede dei nostri padri”, insegna con cui si riconoscono “Vikings” e “Prima Linea”, i due gruppi attualmente in attività. Questa dei “padri” è in assoluto una cosa certificata a quanto vedo. Sugli spalti, infatti, se i più giovani sembrano avere in mano le redini del tifo, i vecchi sono palesemente lì a spalleggiarli e a sottolineare l’unità d’intenti dell’intera tifoseria. Non è semplice assistere a una elementare armonia tra vecchi e giovani (magari è apparente, non lo so, ma di sicuro viene compresa come bene supremo) e quelle poche volte in cui mi si palesa davanti agli occhi, non posso far altro che ammirarla.

In campo le squadre non vanno oltre l’1-1, ricevendo comunque gli applausi delle rispettive tifoserie. Il freddo sta lentamente scendendo e persino io – stretto tra maglia termica e calzamaglia – comincio ad avvertirne i primi segni. Ma voglio ancora assistere alle ultime fasi di questa bellissima giornata, che più di tutte ha funzionato da antidoto contro la nausea che settimanalmente provo imbattendomi in partite vietate o settore scientificamente chiusi con qualsiasi scusante. Penso alla cultura calcistica e del tifo che attraversa lo Stivale e – per quanto la veda spalle al muro e forse condannata a morte – sono contento di vedere come in alcuni luoghi riesca ancora a manifestarsi in modo davvero importante e genuino. Do un ultimo sguardo alle gradinate, ormai vuote, di questo impianto dedicato a Franco Mirti, bandiera in campo e sugli spalti della Sant. Voglio immagazzinare il più possibile, prima di immergermi nel lungo viaggio di ritorno e cominciare a buttar giù le mie riflessioni. Ripasso davanti ad alcune scritte e al murales “Ultras Mai Fermati”. Che per me resta a dir poco un mantra. Perché ciò che il movimento ha instillato nella mia mente più di tutto è il non restare mai fermi. Fisicamente e mentalmente. Il saper sempre camminare al di là dei problemi e superare ostacoli che il mondo di tutti i giorni ritiene invalicabili. Che poi, nella fattispecie, è esattamente l’anima della realtà di casa. E forse, ahinoi, sempre più una mosca bianca in un mondo fermo, immobile, statico e quasi contento di subire passivamente il destino e la furia degli eventi!

Testo e foto Simone Meloni